Usare il tasto sinistro del mouse per aprire la mappa al posto della pagina attuale;

usare il tasto destro del mouse per aprire la mappa in un'altra scheda o in un'altra finestra, senza chiudere la pagina attualmente aperta.

Isolato H: Costa, S.Agostino/S.Agostino vecchio /mura di Sant’Agostino

(via Manno, via Baylle, via Sardegna)

numeri catastali da 2299 a 2347

tutto l’isolato ha subito profondi cambiamenti, in primo luogo a causa dell’abbattimento delle mura occidentali del quartiere, con l’apertura verso l’attuale largo Carlo Felice; è sparita la grande proprietà del convento di Sant’Agostino, con i suoi giardini e orti, ed è stata aperta la via del Mercato Vecchio; sono sparite le Porte Stampace e Sant’Agostino, ed è stata aperto il tratto dell’attuale via Dettori tra il largo Carlo Felice e la via Baylle, dove un tempo esisteva un passaggio fra le case per permettere l’accesso alle mura. Sono rimaste riconoscibili molte case sull’attuale via Baylle, con le ovvie modifiche, ricostruzioni e sopraelevazioni degli ultimi 200 anni.

 

2299

In data 11.07.1793 il notaio Giuseppe Bardilio Usai diede inizio alla stesura dell’inventario dei beni del defunto notaio Gio Francesco Picci; ne fecero richiesta il reverendo Gio Bartolomeo Solanas (nipote del defunto) e il notaio Francesco Maria Medda Pani, in qualità di curatori ed esecutori testamentari, nominati dal Picci nel suo testamento del 6 giugno 1793 e pubblicato alla sua morte il 19 giugno.

Il notaio Picci viveva nel quartiere di Villanova, strada di San Domenico; era vedovo della dama Maria Giuseppa Pirella, morta nel 1742. Iniziò la sua attività di notaio nel 1749, e nella sua abitazione erano conservati tutti i suoi protocolli dal 1749 fino alla sua morte. Fra gli effetti inventariati erano anche compresi 2 vestiti da “Giurato della città, nel qual impiego morì detto Picci”; fra gli immobili di sua proprietà, oltre alla casa di abitazione, c’era un’altra casa in Villanova “nella strada come si va alla chiesa di San Lucifero”, e tre case nella Marina, di cui una nella “contrada della porta maggiore di Sant’Eulalia”, una “dirimpetto alla muraglia della Sacristia e cimitero di S.Eulalia” e un’altra “in attiguità alla Porta di Stampace”; il totale dell’eredità fu calcolato in lire 12463, soldi 16, denari 6.

La casa presso Porta Stampace, identificata con l’unità 2299, aveva di fronte la casa della vedova Dama Giovanna Massa (2383/b), strada dei Calzolai (o Scarpari) mediante, e confinava da un lato con casa di S.Eulalia (2300), per l’altro lato e dietro con la Porta di Stampace e con le regie muraglie; fu valutata in lire 805.

La casa apparteneva in precedenza al calzolaio Antonio Podda, ma vi era caricato un censo appartenente a Maria Giuseppa Pirella, moglie del notaio Picci; dopo la morte di Maria Giuseppa Pirella, il Podda, a seguito di una lite sul censo, cedette la casa al Picci con una transazione.

Con atto del notaio Giuseppe Bardilio Usai del 25.10.1806 il reverendo Solanas ed il notaio Medda Pani, ancora curatori dell’eredità Picci, concessero in enfiteusi perpetua al mastro conciatore Francesco Manca (già proprietario di diverse case nel quartiere) la casetta di 3 piani (2 piani alti ed il terreno) attigua alla Porta di Stampace, “la prima alla dritta scendendo per la strada dei Calzolai”; era composta da una sola stanza per piano, se ne ricavavano solo 30 scudi di affitto annuo; da questi dovevano pagarsi 6 scudi all’Arciconfraternita del Santissimo Crocifisso per il capitale di scudi 100 (con interessi al 6%) che gravava sulla casa; inoltre il Picci, nel suo testamento del 1793, aveva stabilito alcuni legati anch'essi pagati dall’affitto della casa; avanzava poco o niente per le spese di manutenzione e non era conveniente mantenerne la proprietà; il conciatore Manca avrebbe pagato 34 scudi di enfiteusi, si sarebbe accollato la pensione per i 100 scudi dell’Arciconfraternita e le spese di manutenzione, promettendo di migliorare l’immobile.

A conferma della cessione enfiteutica, nel donativo dell’eredità Picci presentato il 04.08.1807 dal reverendo Bartolomeo Solanas, l’unica casa che venne dichiarata nella Marina è quella all’angolo fra le strade Gesus e Sant’Eulalia (2919): il sacerdote nel frattempo aveva ceduto sia la casa della Porta Stampace 2299 sia la casa dietro Sant’Eulalia 2790.

L’enfiteusi a Francesco Manca venne però contestata in Tribunale: il notaio Picci aveva infatti disposto, nel suo testamento del 1793, che la sua casa attigua alla Porta di Stampace fosse soggetta a 4 Legati Pii perpetui: uno per “la compera dell’olio per accendere di giorno e di notte una lampada nella cappella del Santo Cristo in San Giacomo”; un altro “per celebrare ogni anno una messa cantata nella detta cappella il venerdì dei 7 dolori, in onore delle Vergine Addolorata”; un terzo “per celebrare un mercoledì ogni anno in onore di San Giuseppe, nel collegio degli Scolopi, con una piccola musica, pagando scudi 3 al collegio”; il quarto “per celebrare ogni anno un venerdì in onore di San Vincenzo (dovrebbe identificarsi con San Vincenzo Ferreri o Ferrer, frate Domenicano) nella cappella a lui dedicata nella chiesa dei Domenicani, con messa cantata, pagando 3 scudi al convento”; per tutto questo sarebbe stato sufficiente destinare non più di 14 scudi annui da prelevare dal fitto della casa; inoltre nel testamento fu specificata la proibizione ai curatori di vendere la casa; nel caso non si adempisse a questa disposizione la Comunità di San Giacomo avrebbe potuto avere il dominio della proprietà. Per questo, con sentenza del 15.07.808, ribadita il 13.02.1810, il Tribunale dichiarò nulla l’enfiteusi al Manca e in data 06.09.1810, con atto del notaio Francesco Demontis, il Reverendo Giuseppe Antonio Satta in veste di Procuratore Generale della Parrocchiale chiesa di San Giacomo, prese possesso della casa Picci; si trattava di una casa composta da piano terreno e due piani superiori, tutta affittata; si diede quindi avviso agli inquilini del cambio di proprietà: il mastro conciatore Carlo Pinna abitava il piano terreno ed il mastro sartore Luigi Manconi abitava i due piani alti.

Nel Sommarione dei Fabbricati di metà ‘800 non sono riportate informazioni relative all’unità 2299.

 

 

2300 e 2301

Appartenevano alla Comunità di Sant’Eulalia; ne dà notizia l’ atto notarile del 30.05.1780 (ASC Regio Demanio) con cui il mastro Antonio Diego Manca ottenne il permesso di sopraelevare la sua casa in vicinanza della Porta di Stampace (numero 2302), confinante dalla parte di tramontana a una casa della Comunità di Sant’Eulalia.

Ne dà conferma l’inventario appena citato dei beni del notaio Picci, del 11.07.1793, in cui è scritto che la casa Picci presso la porta Stampace (2299) confinava da un lato con una casa di S.Eulalia, e per l’altro lato e sul retro con la Porta Stampace.

Nel donativo di Sant’Eulalia del 24.06.1799 è compresa una casa in calle de Sapateros, chiamata casa Aleo, composta da due piani di 2 stanze, più 2 botteghe; questi particolari portano all’ipotesi che le unità 2300 e 2301 fossero unite in un’unica casa.

Con atto del notaio Nicolò Martini del 28.04.1804 la Comunità di Sant’Eulalia concesse detta casa in enfiteusi al mastro conciatore seuese Antonio Piroddi; egli la chiese per tutta la sua vita, per la vita della moglie Anna Concas, e per quella di un suo figlio, a cui l’avrebbe destinata; il canone annuale fu stabilito in lire 137 e soldi 10, da pagare semestralmente, e Piroddi versò in anticipo lire 250; dopo la morte del conciatore, di sua moglie (o di altra moglie che avrebbe potuto sposare) e del figlio, la casa sarebbe tornata in piena proprietà della Comunità, con tutti i miglioramenti che il Piroddi era tenuto ad eseguire.

A seguito della richiesta del Piroddi non ci fu, da parte della Comunità, una risposta positiva immediata: la casa era infatti abitata da più di 50 anni dallo scarparo Tomaso Mereu che era benvoluto; il Piroddi pertanto propose di lasciare nella casa lo scarparo, e si contentò della bottega che aveva fino allora in affitto il conciatore Domenico Mereu; avrebbe pagato lire 50 annue, e sarebbe entrato in possesso della casa alla morte del Murru, o se questi avesse lasciato la casa di sua volontà.

Nell’atto è specificato che la casa era in precedenza della vedova Maria Vacca Aleo ed era stata acquistata dalla Comunità di Sant’Eulalia il 20.07.1667 con atto del notaio Didaco Ferreli.

Nel 1806 la casa 2300 era una proprietà del conciatore (Giuseppe) Antonio Piroddi: è quanto risulta dall’atto notarile del 25.10.1806, relativo alla casa 2299.

Da atto notarile del 13.07.1811, inventario dei beni dei coniugi Manca e Demelas, proprietari della casa 2302, risulta che la casa confinante (2301) appartenesse al conciatore seuese Antonio Piroddi; a questo punto è facile confermare che Il Piroddi fosse il possessore di entrambe le casette unite in un’unica abitazione, già della Comunità di Sant’Eulalia: 2300 e 2301.

Una causa civile iniziata nel 1842, conservata all’Archivio di Stato di Cagliari, ne ripercorre e ne conferma le vicende degli ultimi 40 anni; la causa ebbe inizio per la volontà della Comunità di Sant’Eulalia di recuperare le pensioni non pagate e i danni dovuti alla gestione trascurata di Antonio Piroddi; egli si era impegnato a migliorare la proprietà ma non l’aveva fatto. La Comunità di Sant’Eulalia, oltre a recuperare le pensioni arretrate, cercò di liberarsi dell’enfiteusi; il conciatore si giustificò, sostenendo di aver ommesso di fare i miglioramenti richiesti a causa delle avverse vicende (non specificate, forse la morte di alcuni figli) che aveva sofferto la sua famiglia, e per avere dei beni bloccati in continente di cui non riusciva a disporre.

Nel corso dello stesso 1842, il 5 dicembre, Antonio Piroddi morì; era rimasto vedovo di Anna Concas e nel 1840 si era risposato con Antonia Cappai; eredi erano i due figli, il notaio Luigi (coniugato con Rosa Belgrano) e Lucia moglie del falegname Efisio Etzi; inoltre i figli del fu suo figlio Giovanni, cioè Antonia, Raffaela ed Efisia Piroddi Frau, ed i figli della fu sua figlia Anna e di Pasquale Carboni, cioè l’avvocato Michele, Efisio, Luigi, Rafaela, Giovanna e Gaetana Carboni Piroddi; Pasquale Carboni a metà ‘800 era il proprietario della casa confinante 2302.

Non si sa come sia terminata la causa civile; nel Sommarione dei Fabbricati non sono stati trovati riferimenti diretti alla casa 2300, mentre la casa 2301 (forse insieme alla stessa 2300) risulta che appartenesse ancora, dopo il 1850, alla Comunità di Sant’Eulalia. 

 

2302     

Apparteneva già da prima del 1780 al mastro conciatore Antonio Diego Manca; il 30.05.1780 il Manca chiese l’autorizzazione al demanio per costruire una stanza nella sua casa di 2 piani, sita “in vicinanza della Porta di Stampace, dalla parte di Levante coerente alla contrada degli Scarpari, da Ponente all’estremità della Gola del Bastione di S.Francesco”; voleva costruire una camera sopra un’altra “esistente nel sottoterra del terrapieno dell’estremità di detta gola, di superficie 1 trabucco e 3 piedi, e once 10 compreso lo spessore della muraglia”; venne autorizzato con una concessione enfiteutica (dal momento che la casa era addossata alle mura) e col canone annuo di scudi 2; i confini della casa, identificata con l’unità catastale 2302, erano i seguenti: “dalla parte di Levante trovasi di rimpetto alla casa di Gaetano Moi (recte Mura) di Oristano (casa 2383/a), contrada degli Scarpari fra mezzo, a mezzogiorno è coerente alla casa di mastro Caredda (2303), a Tramontana a una casa della comunità di S.Eulalia (2300 e 2301), e a ponente al bastione”.

Che Antonio Diego Manca abitasse in quella casa è confermato da successivi atti notarili: in una testimonianza da lui resa il 15.09.1787, dichiarò di essere nativo di Cagliari, di anni 50 più o meno, conciatore, figlio del fu Juan Manca, e di abitare da diversi anni nella calle de Sapateros, in una casa che valeva più di 2400 scudi; nella stessa casa abitava nel 1792 anche suo genero, il negoziante Francesco Romagnino, il quale “occupava la bottega e si occupava degli affari e negozii” del suocero. In data 11.09.1798 il mastro conciatore Antonio Diego Manca chiede in concessione enfiteutica “un sito vacuo esistente sopra il bastione di San Francesco e al di dietro della di lui propria casa situata nella strada dei Calzolai nel sobborgo della Marina, per formarvi una piccola stanza per più comoda abitazione”; il misuratore regio Gerolamo Massei diede parere favorevole alla nuova concessione (Asc, concessioni demaniali), e a questa è allegata la pianta da lui disegnata, nella quale si vede che la casa Manca era la terza a partire dalla porta Stampace, fra le case addossate al bastione di San Francesco; il riempimento del “sito vacuo” avrebbe permesso l’allineamento della casa del Manca alle due case contigue.

E’ possibile che la si possa identificare con la casa dove nel luglio 1812 morì l’avvocato Raimondo Manca, figlio di Antonio Diego (o Didaco), e dove nel luglio 1813 abitavano ancora i figli di Raimondo, cioè Efisio, Carolina, Anna, Giovanni, Marica, fratelli e sorelle Manca Porcile, tutti minori; dopo la morte del padre non fu possibile completare l’inventario dei beni a causa delle “gravissime malattie sofferte dai minori fratelli Manca Porcile, con susseguente morte di uno di essi nominato Fedele (1792-1813?)”; solo nel luglio 1813 fu terminato l’inventario, “fatto nella loro casa d’abitazione, propria del loro avolo Antonio Diego Manca”.

Il 20.01.1818 Nicoletta Azzeri, seconda moglie e vedova di Antonio Diego Manca, citò in giudizio Efisio Manca Porcile (nato nel 1795), figlio del defunto figliastro Raimondo, perché sloggiasse la casa dove abitava, con la bottega, sita nella strada degli Scarpari della Marina, in quanto le spettava per testamento lasciato dal marito Antonio Diego Manca.

A metà ‘800 apparteneva al notaio e causidico Pasquale Carboni, nativo di Nurri: era il genero di Antonio Piroddi, proprietario all’inizio del secolo delle case 2300 e 2301; il Carboni infatti aveva sposato nel 1818 Anna Piroddi e poi, rimasto vedovo, aveva sposato nel 1837 Rita Piroddi (-1844) altra figlia di Antonio, anche lei vedova. 

 

2303     

Il primo documento che cita questa casa è la concessione enfiteutica del 30.05.1780 relativa alla casa Manca 2302; la casa confinante, dalla parte di mezzogiorno, era quella di mastro Salvatore (recte Pasquale) Caredda.

In atto notarile del 1787, relativo alla casa Perpignano, questa confinava con casa del mastro Pasquale Caredda: la casa Perpignano era l’unità 2304, la casa Caredda la 2303. Un altro atto relativo alla casa Perpignano, del 29.06.1792, conferma la proprietà di Pasquale Caredda.

Il Caredda presentò il suo donativo il 22.06.1799, e dichiarò di possedere due case nella strada Scarpari: la sua abitazione è identificata con la casa 2303, la seconda casa era l’unità 2306/b; l’abitazione era composta dal piano terreno con un magazzino, e il primo e secondo piano con 7 stanze in tutto; se affittata avrebbe potuto rendere lire 125 annue.
La proprietà Caredda è confermata ancora in atto del 1803, relativo alla casa Simbula 2382, sull’altro lato della piazza, e nell’atto del 1811, inventario dei beni dei coniugi Manca, proprietari della casa 2302.

Fra le carte del Regio Demanio (ASC) è stato rintracciato il testamento del mastro calderaro Pasquale Caredda, nativo di Seui e domiciliato in Cagliari, senza discendenza diretta; il testamento era stato consegnato il 15.09.1815 al notaio Giuseppe Isola; venne aperto il 26.07.1825, dopo la morte del Caredda avvenuta la mattina del giorno 25, su richiesta del sacerdote Michele Serra fratello di Rosa Serra, defunta moglie del Caredda; il notaio Isola si recò nella casa alla presenza dei testi, cioè i sacerdoti Giovanni Battista Usala, Raimondo Demontis, Michele Ligas, Efisio Castagna, Salvatore Piras, tutti beneficiati di S.Eulalia, e il mastro argentaro Antonio Puddu, il ferraro Giuseppe Calamida e l’argentaro Luigi Marcialis.

Il Caredda dispose di essere sepolto nella chiesa di San Sepolcro, ove aveva la tomba già predisposta.

Lasciò come legati: alla chiesa di Sant'Anna scudi 50; alla congregazione degli artisti di San Michele scudi 10; all’ ospedale di S.Antonio scudi 4; ai nipoti di sua sorella Maria Caredda, cioè ai 3 figli di Sebastiano Gaviano e Anna Vincenza Delussu Caredda, tutti di Seui, scudi 50 a ognuno e la casa in Seui; il letto alla serva Raffaela, nativa di Nurri; scudi 20 ai poveri di Seui; fra i beni immobili, lasciò una bottega fuori Porta Stampace, una casa grande (2303) e una piccola (2306/b) nella stessa strada (Calzolai o Scarpari); lasciò la casa grande alla chiesa e confraternita del Sepolcro, gli altri beni alla sua anima, e come curatore dell’eredità fu nominato il reverendo Angelo Francesco Aitelli presidente della Comunità di S.Eulalia, in pratica erede della bottega e della casa 2306/b.

A metà ‘800 la casa 2303 apparteneva ancora all’Arciconfraternita del Sepolcro. 

 

 

2304     

E' stata già citata, per la casa 2303, la divisione del 26.08.1786 dell’eredità di Gaspare Perpignano, negoziante che abitava nella strada della Costa, nato a Cagliari nel quartiere Castello nel 1704, dai palermitani Michele Perpignano e Nicoletta Caramazza; fra i beni immobili dell’eredità vi era una casa nella strada degli Scarpari lasciata al figlio Francesco, canonico e organista della cattedrale; la casa, identificata con l’unità 2304, si trovava fra le case di mastro Pasquale Caredda (2303) e una casa dell’Arciconfraternita del Sepolcro (2305).

Con atto del 18.04.1792 il sacerdote Francesco Perpignano vendette la casa 2304 al mastro conciatore Antonio Diego Manca, che abitava in una casa vicina (2302); la casa era sottoposta al censo di £ 600 e pensione di £ 30 a favore dei padri Carmeliti, dai quali l’aveva acquistata il fu Gaspare Perpignano nel 1742; il Manca l’acquistò per £ 2100; era composta da 3 piani alti ed il piano terreno, confinava da una parte con casa di Pasquale Caredda (2303), dall’altra parte col “portico come si va al bastione e baluardo che sporge alla piazza di Stampace”, alle spalle con casa dello stesso Caredda, davanti con casa degli eredi Simbula e Castagna (2382 e 2381).

Nel donativo senza data (1799?) del Convento del Carmine risulta che il conciatore Antonio Diego Manca pagava lire 30 di pensione annua su una casa non specificata, che dovrebbe corrispondere alla casa 2304.

Il 20.06.1811 morì Maria Giuseppa Demelas, moglie del Manca, e questi, con atto notarile del 25.11.1811, cedette la casa 2304 ai nipoti Andrea, Rita e Giovanni fratelli Romagnino Manca, figli di Francesco Romagnino e della fu Rosa Manca, sua figlia; era stata valutata lire 1422, soldi 19 e denari 4, e fu ceduta insieme alla somma in denaro effettivo di lire 412.6.2 come porzione dell’eredità di Maria Giuseppa Demelas, nonna dei fratelli Romagnino Manca.

Con atto del notaio Stefano Garroni, del 05.07.1812, il Mastro Muratore Giovanni Matta e il Mastro Falegname Priamo Addis certificarono che gli eredi Romagnino Manca, assisititi dal padre e loro curatore Francesco Romagnino, avevano speso lire 150, soldi 10 e denari 2 per le riparazioni effettuate nella casa a loro pervenuta dalla eredità della loro avola materna Maria Giuseppa Demelas, sita nel quartiere della Marina e strada degli Scarpari.

Con atto notarile del 12 agosto dello stesso anno Andrea Romagnino Manca (o Romanino Manca) cedette la sua parte di casa, cioè lire 524, 9 soldi, 10 denari, a suo fratello minore Antonio il quale proprio lo stesso giorno aveva ritirato dal nonno la somma di lire 611, soldi 19 e denari 2, sua spettanza ereditaria; Andrea aveva bisogno di contanti per alcune “speculazioni di negozio”, preferì quindi cedere l’immobile che, d’altra parte, era quello dove abitava suo padre Francesco Romagnino, si presume coi figli più piccoli, fra cui lo stesso acquirente Antonio.

Infine, dai dati del catasto, la casa 2304 apparteneva dopo il 1850 al sacerdote Antonio, Carlo e Annetta Romagnino (o Romanino) nati fra il 1830 e il 1835: erano i giovani figli di Andrea Romagnino, morto nel 1835, figlio di Francesco Romagnino e Rosa Manca.

 

2305     

Apparteneva all’Arciconfraternita del Sepolcro; è citata nell’atto di divisione della eredità di Gaspare Perpignano, del 1786, dove è scritto che la casa Perpignano (2304) aveva da una parte una casa di Pasquale Caredda (2303) e dall’altra una casa del Sepolcro (2305); in realtà la casa Perpignano aveva di fianco il portico che permetteva l’accesso al bastione di San Francesco, al di là del quale c’era la casa del Sepolcro; nell’atto di vendita del 1792 della casa Perpignano il confine è meglio specificato: da una parte e alle spalle la casa di Mastro Pasquale Caredda, dalla altra parte “il portico come si va al bastione e baluardo che sporge alla piazza di Stampace”; nei donativi del 1799 e del 1807 i guardiani dell’Arciconfraternita del Sepolcro dichiararono di possedere una casa nella contrada Scarpari con piano terreno e 3 piani, sita di fronte a casa di Antonio Didaco Manca (che possedeva una casa sull’altro lato della strada, unità 2379) e confinante di fianco col portone da cui si entrava nel bastione, dall’altro fianco a casa di mastro Battista Boi (2306/a); era affittata per £ 150.

A metà ‘800 la casa 2305 apparteneva ancora all’Arciconfraternita del Sepolcro.

 

2306     

E’ probabile che questa unità catastale fosse divisa in due case distinte: solo in questo modo è possibile dare una spiegazione alle due diverse attribuzioni di proprietà che provengono dai documenti rintracciati; secondo una parte di questi si può attribuire la proprietà al mastro conciatore Battista Boi; secondo altri documenti la si attribuisce al mastro calderaro Pasquale Caredda.

Con atto notarile del 19.11.1790, i coniugi Pasquale Azori, cavaliere e dottore in diritto, e Maria Ignazia Cara, firmarono la ricevuta di lire 391, 6 soldi e 6 denari, per il totale pagamento del debito che verso di essi aveva il mastro conciatore Battista Boy; questi, per garantire la restituzione del denaro, con atto notarile del 20.10.1789 aveva ipotecato la sua casa della strada de los Sapateros; in quest’atto non vi sono particolari che permettano di identificare la casa; Battista Boy presentò la sua denuncia per il donativo in data 22.07.1799 e dichiarò di possedere una casa per la conceria nella strada delle Conce (numero 2269) e una casa nella calle de los Sapateros, formata da 5 stanze, con il basso dove aveva la bottega di pelli e cuoio; tutta la casa era usata dal proprietario, se affittata avrebbe potuto ricavarne 80 scudi annui; sulla casa era caricato un censo di 560 scudi per il quale Boy pagava l’interesse al 5% al negoziante Carlo Dessì. Anche in quest’ultimo documento non sono indicati i confini, per cui non è ancora possibile identificare la casa; però, nella denuncia per il donativo dell’Arciconfraternita del Sepolcro, datata 13.08.1807, è dichiarata una casa identificata con l’unità 2305, nella contrada Scarpari, situata fra il portone per cui si entrava nel bastione (di San Francesco) e la casa Boi (2306/a).

Nel 1807 Battista Boi, vedovo di Francesca Sanna, era sposato con la sua seconda moglie Girolama Martini; gli era morto di recente un figlio, notaio Salvatore Boy, che aveva lasciato la vedova Caterina Serra e i 3 figli Francesco, Maria Rosa e Giuseppa, di 6, 4 e 1 anno; sorse una lite tra suocero e nuora, in quanto il Boy era disposto a ospitare la famiglia Boy-Serra, priva di mezzi di sostentamento, alla condizione che andasse a vivere in un piano della sua casa nella strada degli Scarpari; Caterina Serra si rifiutava però di vivere vicino alla giovane moglie del suocero.

L’ultima notizia che si ha della casa Boy è del 30.03.1813, quando Battista Boi consegnò il suo testamento al notaio Cristoforo Onano; la consegna avvenne nella sua abitazione, nella strada di Sant’Agostino della Marina. Non c’è certezza, ma si suppone che si tratti della stessa casa 2306 (o parte di essa), dal momento che non sono state trovate notizie di altre proprietà di Battista Boi in altro punto di quella strada. Il Boi morì nel 1819, il suo testamento, probabilmente pubblicato in quell’anno, è andato perduto, così come l’inventario dei suoi beni.

                                                                                                                                      * * *

La seconda parte dell’unità 2306, in basso rispetto alla precedente, o forse sul retro, sulle mura, forse confinante con la casa 2304, era del mastro Pasquale Caredda; è citata in atti del 28.07.1792 e del 21.08.1792, relativi alla casa 2307; il Caredda, nel suo donativo del 22.06.1799, dichiarò di possedere due case nella strada Scarpari: la sua abitazione è identificata con la casa 2303, la seconda casa con parte dell’unità 2306, composta dal piano terreno e un piano con 2 stanze, affittata a scudi 38 annui; era quindi una casa piuttosto piccola, il che rende possibile che in anni successivi sia stata unita alla parte attribuita al Boi.

Nel suo testamento pubblicato nel 1825 (di cui si è già scritto per la casa 2303) il Caredda lasciò la casa grande all’Arciconfraternita del Sepolcro, e gli altri beni, fra cui la casa 2306, alla sua anima; in pratica l’erede era la Comunità di Sant’Eulalia, considerando che il curatore dell’eredità era il reverendo Angelo Francesco Aitelli, presidente di S.Eulalia; in quel periodo la proprietà del Caredda era abitata da mastro Giuseppe Ardau.

A metà ‘800 la casa 2306 apparteneva interamente al dottore chirurgo Giambattista Piras.

 

 

2307     

In data 28.07.1792 i mastri carpentieri Marco Antonio Mereu e Francesco Capay, e i mastri muratori Giuseppe Rossi e Raffaele Marini, firmarono l’atto di estimo di una casa per scudi 599 e reali 9, chiesto dal convento di Sant’Agostino e dal mastro conciatore Pasquale Marini; si trattava della casa detta di Nuly (numero catastale 2307) che il convento possedeva nella calle de Sapateros e si componeva di un piano e di un sòttano, e confinava davanti con casa del nobile don Juan Antonio Borro (2364), di spalle con le reali muraglie, da un lato con casa del mastro Pasquale Caredda (2306/b), dall’altro con la casa del negoziante Gutardy (cioè Gottardo Garibaldo) (2308).

Pochi giorni dopo, il 21 di agosto, il priore del convento, frate baccelliere Federico Sanna, cedette al Marini in enfiteusi perpetua la casa appena stimata, col canone annuo di scudi 30.

La conferma della proprietà del convento è confermata in atto del 26.09.1799 e in altro atto del 09.05.1803, relativi alla casa 2308, confinante appunto a casa di S.Agostino; il Marini, che era proprietario solo in enfiteusi, in questo caso non viene citato.

Nel donativo (non datato) del convento dei padri di Sant’Agostino è scritto che il convento riceveva 75 lire (cioè 30 scudi) per una pensione enfiteutica da parte del mastro Pasquale Marini per una casa nella Marina, non meglio indicata, ma che si può ragionevolmente identificare con la casa 2307.

In data 22.08.1830 Pasquale Marini ottenne la concessione dal demanio per la formazione d’un arco attiguo alla sua casa ed alla muraglia che sosteneva il terrapieno del Bastione di San Francesco; il Marini, che possedeva una piccola casa di sole 2 stanze nella strada di Sant’Agostino, aveva chiesto la concessione di un’area lunga palmi 18 e larga 14, nella parte che “sporgeva alla muraglia” a nord ovest della sua casa, per formare un portico per il pubblico passaggio, simile a un altro già esistente (dietro le case adiacenti), e per poter fabbricare una stanza sopra il portico, fra le fortificazioni e l’abitato.

Negli anni fra il 1850 e il 1860 la casa 2307 apparteneva in enfiteusi prima alla vedova Maria Rosa Marini, poi all’avvocato Giovanni Marini.

 

2308     

Apparteneva al negoziante genovese Gottardo Garibaldo; i primi documenti che la citano sono gli atti notarili di estimo e vendita della casa confinante 2307, entrambi del 1792.

In ordine di tempo c’è poi una causa civile del 1796, iniziata dal notaio Giuseppe Gabba contro i negozianti Gottardo Garibaldo e Bartolomeo Sciaccarame; Gabba, tramite il suo procuratore, sosteneva che negli ultimi giorni del mese di dicembre dell’anno 1795 si era accordato col Garibaldo per avere in affitto una casa di quest’ultimo nel “vicinato di Sant’Agostino”, allo stesso prezzo per cui l’aveva in affitto il negoziante Bartolomeo Sciaccarame che doveva liberarla. Però Sciaccarame aveva promesso la casa al negoziante Raffaele Crobu: sosteneva di poterne disporre fino al novembre 1796 in quanto aveva pagato l’affitto fino a quella data. Inoltre lo stesso Sciaccarame posticipò la data del suo “rilascio” della casa Garibaldo: infatti si sarebbe dovuto trasferire nella casa delle eredi Schivo, fra cui c’erano anche sua moglie Rita Schivo e Maddalena Schivo, moglie del notaio Gabba; ed erano stati proprio i suoi cognati coniugi Gabba, in due occasioni, a rifiutarsi di firmare l’accordo per cedere a Sciaccarame la casa dell’eredità, nonostante i lavori di “accomodamento” della casa fossero già stati avviati da Sciaccarame per precedenti accordi verbali; il negoziante Garibaldo, a seguito delle vicende processuali, dichiarò “che non aveva più intenzione di dare la sua casa in affitto al notaio Gabba, non volendo come affittuario una persona di animo litigioso, il quale, se voleva una casa a suo gusto, poteva fabbricarsene una.”

Con sentenza del 23.05.1796 il Garibaldo fu però condannato a consegnare le chiavi della casa al notaio Gabba, e Bartolomeo Sciaccarame fu condannato a lasciare libera la casa entro 10 giorni e a pagare le spese. La sentenza fu confermata il 26.10.1797, e con altri ricorsi la causa si protrasse ancora fino al gennaio 1797.
Nel frattempo i negozianti Garibaldo e Sciaccarame si accordarono alle spalle del Gabba e il primo vendette la casa in enfiteusi al secondo; si conosce quest’ultimo fatto dal testamento del Garibaldo, aperto il 16.06.1798, dopo la sua morte, su richiesta della vedova Anna Mameli; fra i beni e le rendite elencati nel testamento, che era stato scritto il 11.03.1797 e poi modificato il 07.04.1798, vi era anche una pensione sulla casa sita nella strada de los Sapateros ceduta a Bartolomeo Sciaccarame, pensione che il defunto destinava al nipote Matteo Pittaluga.

Il dato è confermato anche dall’inventario dei beni del Garibaldo, principiato il 22.06.1798: venne specificato che la casa che il defunto possedeva in calle de Adobadores (recte Sapateros), scendendo dalla Porta di Stampace, era stata venduta in enfiteusi a Bartolomeo Sciaccarame e vi abitava in affitto il notaio Giuseppe Gabba.

Ulteriore conferma si ha dal donativo del 24.06.1799 presentato da Bartolomeo Sciaccarame, che dichiarò di possedere una casa nella contrada Scarpari, composta dal piano terra con una bottega e due piani alti con 7 stanze in tutto, affittata per lire 162 e 10 soldi, per la quale pagava una pensione di lire 150 agli eredi del negoziante Gottardo Garibaldo.
Con atto del 26.09.1799 Bartolomeo Sciaccarame rinunciò all'enfiteusi in favore del negoziante Matteo Pittaluga, nipote ed erede del Garibaldo, a cui pagava la pensione enfiteutica; nell’atto notarile è specificato che il Garibaldo aveva ceduto in enfiteusi la casa allo Sciaccarame il 15.06.1796 (quando era ancora in corso la causa col notaio Gabba); si trattava di una casa sita nella strada di Sant’A
gostino o San Leonardo, che aveva davanti la casa della eredità di monsignor Borro (2364), da un lato una casa della chiesa di S.Anna (2309), dall’altro una casa del convento di S.Agostino (2307), alle spalle le regie muraglie.

Il Pittaluga possedeva la casa ancora nel 1803: il 9 maggio di quell’anno la ipotecò per garantire l’enfiteusi che gli era stata concessa sulla casa 2712, nella strada della Costa, dove abitava.

Nella denuncia per il donativo dei “Legati Pii”, datata 14.08.1807, venne dichiarata una rendita su un capitale censuario caricato sulla casa del notaio Giuseppe Gabba, nella strada Sant’Agostino; senza averne certezza, è possibile che Matteo Pittaluga, fra il 1803 e il 1807, avesse venduto la casa al Gabba che già ci abitava.

Dopo il 1850 la casa 2308 apparteneva al negoziante Vincenzo Fiorentino, figlio del fu Nicola.

 

2309 e 2310       

Appartenevano almeno dal 1797 alla Chiesa di Sant’Anna; sono citate in atto notarile di quel’anno, relativo alla casa Castangia 2311, ed è confermato dall’atto del 26 settembre 1799 col quale Bartolomeo Sciaccarame cedette la casa 2308 a Matteo Piccaluga.

Nel donativo (senza data, probabilmente del 1807) della Comunità parrocchiale di Sant’Anna è compresa una sola casa nella strada di Sant’Agostino composta da due piani alti, ognuno di due stanze, e due vani terreni, cioè piccole botteghe; la casa confinava da una parte con quella del mercante Nicolò Castangia, dall’altra con la casa del mastro conciatore Antonio Piroddi; da altri fonti si sa che la casa Castangia era l’unità 2311, di conseguenza la casa di S.Anna doveva essere l’unità 2310, ed è facile attribuire l’unità 2309 al mastro Antonio Piroddi, il quale l’aveva avuta in enfiteusi perpetua dalla stessa Comunità di Sant’Anna in data 24.07.1804; era stata stimata il giorno prima dai mastri muratori Francesco Porcu e Giovanni Putzolu per lire 1928, soldi 16, denari 4; aveva una cisterna di buona qualità, i balconi in ferro al primo e al secondo piano, due porte al piano terreno; confinava da una parte con casa della Comunità di Sant’Anna (2310), dall’altra con casa di Matteo Piccaluga (2308).

Dopo il 1850 la casa 2309 apparteneva al mastro falegname Efisio Etzi (1812-1895) del fu Salvatore; questo conferma l’attribuzione al Piroddi negli anni precedenti: infatti Efisio Etzi era genero del mastro conciatore seuese Antonio Piroddi (-1843), avendone sposato la figlia Lucia nel 1839. 

La casa 2310, dopo il 1850, apparteneva ancora alla chiesa di Sant’Anna.

 

 

2311 e 2312

Con atto notarile del 02.08.1797 Fra Gregorio Vargiu, presidente della Comunità di Sant’Agostino, firmò l’atto di cessione in enfiteusi di 2 case al negoziante Nicolò Castangia. Si trattava di 2 case contigue site nella strada di Sant’Agostino, “poste a la mano destra scendendo dalla calle de Sapateros per andare al Convento”; erano le case chiamate rispettivamente di Mallas (o Maglias) e di Santa Rita, che la comunità possedeva dal 1783, ognuna formata da un magazzino terreno e due piani alti, e confinavano di spalle con le regie muraglie, davanti con case del Capitolo (2363/b) e della Confraternita di Sant'Elmo (2363/a), da un lato con casa del Monastero di S.Chiara (2313), e dall’altro con case di S.Anna (2310 e 2309).

In realtà la casa Maglias era stata ceduta in enfiteusi allo stesso Castangia già in precedenza, come si legge da un atto del 03.06.1797 relativo a diverse transazioni del convento degli Agostiniani, e nel quale si cita la circostanza che 50 £ che si incassavano da Nicolò Castangia per la pensione della casa Maglias erano state destinate (forse già dall’anno precedente) per estinguere un’ipoteca che veniva pagata a Pasquale Ponsillon. Non è chiaro quindi se l’atto dell’agosto 1797 sia una semplice ratifica di un’enfitesusi già concessa, oppure riguardasse la nuova enfiteusi della casa di Santa Rita con la conferma di quella della contigua casa Maglias.

Nel donativo di Nicolò Castangia, del 24.06.1799, sono comprese 2 case attigue nella strada di Sant’Agostino, in enfiteusi dai padri Agostiniani ai quali si pagava il canone di scudi 100; erano composte da due cameroni terreni, affittati a scudi 128 annui, e due piani alti con sei stanze (per ogni casa); il Castangia dichiarò di occupare un piano che avrebbe reso 30 scudi in un anno se affittato.

La proprietà Castangia è anche ricordata nel donativo della Comunità di Sant’Anna, dove è scritto che la casa della Comunità (2310) confinava con la casa del mercante Nicolò Castangia. Nel loro donativo i padri Agostiniani confermarono di ricevere 250 lire (cioè 100 scudi) dal Castangia per 2 case nella Marina.

Due atti notarili relativi alla casa 2363, del dicembre 1799, citano una casa di proprietà dei Padri Agostiniani situata di fronte alla casa 2363: si tratta della casa 2311, ed è da notare come il proprietario effettivo della casa prevalga spesso sull’enfiteuta. Al contrario, l’atto di vendita della casa 2363, datato 01.12.1807, e l’inventario dell’eredità Heri del 30.04.1808, citano Nicolò Castangia come proprietario della casa frontale alla 2363; la proprietà Castangia della casa 2312 è confermata anche da atti del 1806, relativi alla casa Bologna 2313. 

Dopo il 1850 entrambe le case 2311 e 2312 appartenevano ancora a Giuseppa Castangia (1788-1870) figlia del fu negoziante Nicolò, vedova del Torinese Giuseppe Sella.

 

2313      il primo documento che cita questa casa è l’atto notarile del 02.09.1797 con cui la Comunità di Sant’Agostino concesse in enfiteusi a Nicolò Castangia le case 2311 e 2312, le quali confinavano da una parte con case di S.Anna (2310 e 2309), e dall’altra con casa del Monastero di S.Chiara; di conseguenza la casa 2313 dovrebbeessere quella di proprietà del Monastero di Santa Chiara, che però nel suo donativo (senza data) non dichiara alcuna casa nella strada di Sant’Agostino.

Un altro atto notarile del 17.03.1806 aggiunge altre informazioni; si tratta dell’atto relativo all’estimo, da parte di 2 mastri muratori e 2 mastri falegnami, di una casa nella strada Sant’Agostino, con questi confini: alle spalle le Reali Muraglie di Sant’Agostino; dal lato verso la salita una casa del “Tendero” cioè negoziante Nicola Castagna; dal lato verso la discesa una casa del mastro Francesco Manca; davanti la casa del Reverendo Contini, curato di Quartucciu; si tratta quindi della casa 2313, situata di lato alla casa Castangia 2312, di fronte alla casa Contini 2362; all’altro confinante, mastro Francesco Manca, lo stesso che possedeva altre case nella vicinanze (2340, 2347), si dovrebbe attribuire la casa 2314.

I proprietari della casa 2313, che chiesero un estimo ai periti muratori e falegnami, erano le sorelle suore Vincenza e Antonica Bologna e i figli del defunto don Paolo Bologna, loro fratello. Si tratta di una famiglia di origine sassarese, un cui esponente, Giovanni Battista, si trasferì a Cagliari alla fine del secolo XVII, e al quale fu concessa il cavalierato ereditario nel 1690 [1]. Il fatto che due proprietarie fossero suore potrebbe spiegare il riferimento al Monastero di Santa Chiara nel documento del 1797; però dall’atto notarile del 1806 risulta che le due suore Bologna fossero monache professe del Monastero di Santa Lucia: è facile pensare ad un errore in una delle due fonti, più probabilmente la più antica, quella del 1797, relativa non alla casa 2313 ma a casa confinante.

All’estimo seguì la vendita: con atto del notaio Giovanni Maria Senes del 06.11.1806, le due suore Bologna, monache professe di Santa Lucia, dopo aver ottenuto il permesso da suor Maria Anna Carcassona, abbadessa del monastero, unitamente a donna Giovanna Piras vedova del fu don Paolo Bologna e i loro figli, alcuni dei quali residenti a Nurri, vendettero la casa al mastro conciatore Raimondo Laconi, che si impegnò a pagarla 909 scudi da versare in 10 anni; avrebbe dato ogni anno ai venditori il 5% della somma ancora da pagare. La casa si trovava in stato quasi rovinoso, era da tempo disabitata, i proprietari non avevano danaro per ripararla; Laconi voleva ricostruirla e renderla nuovamente abitabile.

A metà ‘800 la casa 2313 apparteneva al negoziante Luigi Alberti (Orta Novarese 1797-Cagliari 1875), così come la confinante 2314.



[1] F.Floris e S.Serra, Storia della Nobiltà in Sardegna.

 

2314

Negli atti notarili del 17.03.1806 e del 06.11.1806, relativi alla casa 2313, è scritto che la casa laterale verso la discesa era quella del mastro Francesco Manca.

E’ identificabile con quella di cui riferisce la denuncia del donativo (non datato, ma dovrebbe essere del 1807) dei Padri Agostiniani: la possedeva in enfiteusi il mastro Francesco Manca, che pagava al convento il canone di 75 lire annue.

Nel 1811 il mastro conciatore Francesco Manca ipotecò una casa situata nella contrada di Sant’Agostino per garantire un’enfiteusi del genero, il mastro ferraro Francesco Sanna; la casa del Manca era stata acquisita (in enfiteusi) dai Padri agostiniani il 22.12.1803; si può identificare Francesco Manca con un figlio di Giuseppe Manca e Pasquala Demelas, coniugato nel 1780 con Caterina Licciardi; la loro figlia Michela (1786-) sposò nel 1806 Francesco Sanna. 

A metà ‘800 la casa 2314 apparteneva al negoziante Luigi Alberti (Orta Novarese 1797-Cagliari 1875), come la confinante 2313.

 

2315     

Da poche informazioni provenienti dal donativo del Capitolo Cagliaritano, del 15.08.1807, sembra di poter identificare questa casa con una proprietà del commendatore e avvocato Bonaventura Cossu Madao; il Capitolo dichiarò infatti di possedere nella strada di Sant’Agostino la casa “Cardia”, identificata da altri documenti con l’unità 2316, che aveva davanti la casa Spano (2357), di lato una casa di Sant’Eulalia (parte dell’unità 2317) e sull’altro una proprietà Cossu Madao (2315).

Se è corretta questa ipotesi, la casa 2315 dovrebbe corrispondere a una casa citata in atto notarile del 07.12.1797, in cui vengono elencati i beni immobili di proprietà di donna Maria Francesca Cossu Maglias, alcuni dei quali ceduti a suo marito Bonaventura Cossu Madau; fra i diversi immobili è compreso un magazzino nella strada di S.Agostino “della capacità di 3000 e più starelli di grano”; prima di essere utilizzato come magazzino era la casa del fu Antonio Corona, dopo la morte del quale venne ereditata dai suoi parenti più prossimi cioè i fratelli reverendo Giuseppe, Agostino e Vincenza Usai, e da Giuseppe Ignazio e Maria Francesca Cossu Mallas; la parte di proprietà dei fratelli Usai fu comprata dall’avvocato Cossu Madao il 28.09.1772; la parte di Giuseppe Ignazio Cossu Mallas fu ereditato dall’unica sua sorella Maria Francesca, moglie di Cossu Madao; la casa era in stato rovinoso e fu trasformata in magazzino, affittato per 60 scudi per molti anni al negoziante Raimondo Melis, poi al negoziante Francesco Antonio Saba; fu riedificata dopo il 1793, e nel 1797 venne valutata 1500 scudi.

Dovrebbe corrispondere al magazzino con un piano alto, sito nella strada Sant’Agostino, che il commendator Bonaventura Cossu Madau dichiarò di possedere nei suoi donativi del 1799, 1804 e 1806, affittato per scudi 60 annui.

In un atto notarile del 03.03.1813, relativo alla casa 2359, una delle case sull’altro lato della strada di Sant’Agostino, identificabile con l’unità catastale 2315, viene detta proprietà di Francesco Visca, negoziante cagliaritano di padre sassarese; per avere quindi maggiore certezza sulla ricostruzione proposta occorrerebbe rintracciare l’atto di vendita da Cossu Madau a Visca, fra il 1806 e il 1810.

La proprietà Visca è confermata dai dati del catasto di metà ‘800, dai quali risulta che la casa 2315, ritrasformata in abitazione, apparteneva a Celestino Melis Visca (1818-), figlio di Gerolamo Melis e di Antonia Visca, quest’ultima figlia di Francesco Visca e di Barbara Steria.

 

2316     

Era una proprietà del Capitolo Cagliaritano; la si trova citata in due atti notarili del 1792, relativi entrambi alla casa sull’altro lato della strada Sant’Agostino, numero 2358.

Anche in un atto del 1804, relativo alla casa Romagnino (parte dell’unità 2317), la casa confinante 2316 risultava appartenere al Capitolo Cagliaritano.

Nel donativo del 1807 del Capitolo Cagliaritano venne denunciata la casa Cardia nella strada di Sant’Agostino, composta dal piano terreno di 2 stanze e due piani alti ognuno di 5 stanze; confinava di fronte con la casa del mastro Giuseppe Antonio Spano (2357), di spalle con la muraglia, di lato con una casa di Sant’Eulalia (parte dell’unità 2317) e dall’altro con casa dell’avvocato commendator don Bonaventura Cossu Madao (2315).

In un atto notarile del 03.03.1813, relativo alla casa 2359, una delle case sull’altro lato della strada di Sant’Agostino, identificabile con l’unità 2316, viene detta casa del Capitolo abitata dal reverendo dottor Saba.

Dopo il 1850, dal Sommarione dei Fabbricati, risulta che appartenesse ancora al Capitolo.

 

2317     

La parte meridionale di questa unità catastale, confinante con la chiesa di Sant’Agostino, era un ospedale militare già dal XVIII secolo, ebbe poi diversi utilizzi legati alle necessità militari, divenne la caserma dei Cacciatori Franchi, e fu di nuovo ospedale a partire dal 1837; le sue dimensioni erano diverse da quelle dell’attuale edificio e da quanto risulta nella pianta di metà ‘800.

Un documento del Regio Demanio (Acquisti stabili, volume 162, fascicolo 4) del 30.12.1755, riporta l’acquisto fatto dall’Intendente generale, conte Francesco Maria Cordara, d’una proprietà nella strada di SantAgostino vicina al Regio Spedale, venduta dal visconte di Flumini Maggiore, don Gavino Asquer Amat; fu quest’ultimo a proporre la vendita, in quanto aveva ereditato da suo padre, il visconte Francesco Asquer, un debito verso la “Real Casa”; non avendo moneta contante propose la cessione di un magazzino, contiguo da una parte alla chiesa di S.Agostino, dall’altra all’Ospedale (gli ospedali erano due, forse due reparti ben distinti); in quel periodo il magazzino serviva da cucina a uno degli ospedali e la Real Tesoreria pagava l’affitto annuo di 18 scudi.

Prima dell’acquisto ne fu ben valutata la convenienza; fu chiesto il parere del Commissario di guerra Tourleti che rispose che l’acquisizione della casa non solo era conveniente al Real Hospital, ma era necessaria”; secondo le valutazioni dei periti, nel locale si sarebbero potute realizzare con poca spesa due cucine comunicanti con i due ospedali; l’acquisto del magazzino avrebbe fatto risparmiare i 18 scudi di affitto, e anche una simile somma che si pagava agli eredi della fu donna Malones y Melonda per il fitto di un altra casa che serviva da cucina per l’altro ospedale.
La costruzione fu stimata in lire 1676 e soldi 15 da un mastro carpentiere e un mastro muratore, e fu acquistata per 330 scudi (825 lire) e l’estinzione del debito.

Questi erano i complicati confini dell’immobile: “…confina da una parte con casa che prima era di Mariana Sigiano, oggi cappella di Santa Rita della Chiesa di e Sant’Agostino; dall’altro lato confina con casa che era di Francesco Garau, diventati poi magazzini posseduti dal canonico Faraud, posseduti oggi dal Regio Patrimonio e vi stanno gli Ospedali Reali; davanti confina con il magazzino che era del dottore in diritto Sabastiano Català e oggi casa grande fabbricata dal fu Sebastiano Buscalla, posseduta dal Capitolo di Oristano; di spalle confina con la casa e col cortile che era del conciatore Estevan Porcu che dà alla Real Muraglia; ed è la stessa casa che possedeva Jayme Junex al quale fu esecutata dal Reale Patrimonio per debiti, venduta in pubblica asta a Juan Angel Comparat per 1160 lire il 12.07.1683, e detto Comparat la cedette a don Francesco Asquer con atto del 03.08.1683. Erede di don Francesco Asquer fu don Ignazio Asquer, con testamento del 15.09.1702; e l’erede di don Ignazio fu don Francesco, con testamento pubblicato il 08.11.1709; alla morte di don Francesco ereditò don Gavino, suo figlio, per il testamento del 12.01.1753".

A parte la casa Català/Buscalla/Capitolo di Oristano, che corrisponde all’unità catastale 2355, e la casa Sigiano/Cappella di Santa Rita, che corrisponde alla chiesa di Sant’Agostino, le altre proprietà citate furono tutte incluse nella parte inferiore dell’unità 2317, acquisite in tempi diversi dall’Intendenza Generale per ingrandire l’Ospedale militare.

In una causa civile del 1769 è inserito un atto notarile del 1766 relativo alla casa Copola 2355, che aveva di lato, “strada di Sant’Agostino in mezzo”, l’ospedale dei soldati.

In atto notarile del 04.09.1792 relativo alla casa 2356, questa aveva davanti, sull’altro lato della strada di Sant’Agostino, “l’ospedale ossia quartiere del soldati”.

In due atti dell’aprile 1801, relativi alla vendita della casa 2318, è scritto che questa casa confinava da una parte con il “quartiere dei soldati”.

Nel donativo del 1807 di donna Anna Maria Guirisi Buschetti, coniugata con don Bachisio Mearza, venne dichiarata una rendita di 18 scudi pagati “dal re” per una proprietà censuaria nel “Quartiere di Sant’Agostino” delimitato da una parte dal convento di Sant’Agostino, dietro dalle muraglie, e davanti dalla strada di Sant’Agostino.

                                                                                            * * * * * * 

La parte più a nord dell’unità catastale 2317 non faceva parte dell’edificio militare: era una proprietà della comunità di Sant’Eulalia che la dichiarò nel donativo del 1799: veniva chiamata casa Perra, composta da un piano alto di 3 stanze e un magazzino.

La casa Perra nel 1804 era l’abitazione del negoziante Antonio Romagnino, appartenente a una famiglia proveniente da Varazze (Savona), il cui cognome era originariamente Ramognino; in quell’anno Romagnino l’aveva avuta in enfiteusi dalla comunità di Sant’Eulalia, col canone annuo di lire 137 e soldi 10 e con l’accordo di effettuare a sue spese le riparazioni e aggiungere un piano entro il 1805; abitava la casa già da molti anni, e pagava fino a quel momento lire 60 annue solo per il primo piano, mentre il magazzino era affittato (non è chiaro se allo stesso Romagnino o ad altri) per lire 50; la comunità l’aveva comprata in data 10.04.1744 dal Reverendo Pietro Giovanni Demelas che agiva in qualità di curatore ed esecutore testamentario del fu Reverendo Francesco Perra (come da testamento del 11.10.1732 fatto col notaio Gio Batta Urru Besoz); nel 1804 fu eseguito l’estimo dal Capo Mastro muratore Sebastiano Puddu, che la valutò per lire 3522, soldi 2, denari 9.

Nel 1804, la casa del negoziante Antonio Romagnino era confinante da una parte con la casa del Capitolo (2316), dall’altra col magazzino per la paglia del Regio servizio”, cioè locale di servizio del Regio Ospedale.

Antonio Romagnino morì “in decrepita età” nel novembre del 1822 (ma aveva meno di 70 anni!!) e, non avendo figli, gli eredi furono i suoi 4 fratelli Michele, Ignazio, Lorenzo e Francesco; gli eredi di questi 4 fratelli nel 1844 cedettero la casa all'Ospedale Militare; fu necessario trovare un accordo con la comunità di Sant’Eulalia che certamente non voleva rinunciare ai suoi diritti di proprietà, visto che Romagnino ne aveva solo l’enfiteusi.

Nel Fondo delle Regie Provvisioni (ASC) volume 22, è compreso un documento datato 26.10.1844, nel quale si legge: “Approvazione del contratto di vendita di un corpo di casa situato nel quartiere della Marina e contrada di S. Agostino in Cagliari, di proprietà della Comunità di S. Eulalia, ceduta in enfiteusi ai detti eredi Romagnino per uso dello Spedale Militare divisionario e per il convenuto prezzo di £. 9.600”.

Nel Sommarione dei fabbricati non si trovano notizie sui proprietari di metà ‘800 dell’unità 2317: il fatto non deve sorprendere, è la norma per le proprietà militari o demaniali. 

L’edificio, sede per molti anni del Distretto militare, avrà ora una nuova destinazione. 

 

 

2318     

Con atto del 29.04.1801 venne registrata la perizia di questa casa, eseguita dai muratori Giuseppe Rossi e Angelo Guisu e dal carpentiere Francesco Capai; si trattava di un magazzino stimato 917 scudi, confinante con la chiesa di Sant’Agostino (2319), sull’altro lato col “quartiere dei soldati” (2317), davanti con la casa Copola (2355); era composto dal piano terreno e da un piano alto e apparteneva ai padri Agostiniani che lo cedettero in enfiteusi al negoziante Rafaele Crobu Arthemalle col canone annuo di 40 scudi, con atto notarile del 02.05.1801.

In data 24.10.1805 il negoziante Giovanni Battista Gastaldi acquistò il magazzino dal mercante Pietro (recte Raffaele) Crobu Arthemalle; con atto notarile del 21.05.1812 Gastaldi, che era debitore dal 1806 del cavaliere don Giuseppe Rapallo, cedette l’enfiteusi della casa 2318 agli eredi di quest’ultimo; la casa era stata stimata in lire 2962 e soldi 10, somma che copriva solo in parte il debito del Gastaldi verso Rapallo; egli si impegnò a pagare la parte rimanente (lire 1321) in 5 rate annuali; Gastaldi vendette l’enfiteusi e i miglioramenti da lui fatti sulla casa, che restava comunque di proprietà del convento di Sant’Agostino; perciò, previa l’opportuna autorizzazione dei Padri Agostiniani, Gastaldi cedette a Giovanni, Beatrice e Vittorio, fratelli e sorella Rapallo, “in pupillare e infantile età[1], sotto la tutela della loro madre donna Anna Rapallo nata Porcile, la casa “limitrofa a un canto alla chiesa di S.Agostino (2319), per l’altro al quartiere del Battaglione Real Marina (2317), e per altro, contrada frammezzo, alla casa degli eredi Coppola (2355)”.

I miglioramenti fatti dal Gastaldi consistevano nella totale riedificazione e sopraelevazione della casa, lavori che giustificavano la differenza fra la stima del 1801 (917 scudi, cioè lire 2292 e 10 soldi) con la stima del 1812 (lire 2962 e 10 soldi).

A metà ‘800 apparteneva in enfiteusi al negoziante Salvatorangelo Marcello (1807-1896), nativo di Selegas, figlio del fu Francesco.


[1] Tutti minori di 14 anni

 

2319

E’ la chiesa di Sant’Agostino; come riportato per la casa 2317, la cappella di Santa Rita, nella parte destra del transetto, fu edificata al posto della casa di tale Mariana Sigiano.

 

2320 e 2321

L’unità 2320 corrisponde all’Oratorio della Vergine d’Itria, vi si svolgevano le riunioni dei confratelli; nel 1809, dovendosi fare dei lavori di miglioramento, non sarebbe stato possibile né svolgervi le riunioni, né conservare gli ornamenti della confraternita; perciò i Confratelli dell’Oratorio chiesero ai Padri del convento di Sant’Agostino (2320), attiguo all’Oratorio, di poter costruire una stanza, situata al di sopra delle arcate dei due portoni del convento, “ove poter conservare gli ornamenti dello stesso Oratorio”; in data 09.07.1809, con atto del notaio Giuseppe Isola, fu effettuata una stima dal Capo Mastro Sebastiano Puddu e dal Muratore Francesco Ignazio Ghisu, i quali stabilirono che al convento sarebbe spettata la somma di lire 235, soldi 5 e denari 2 per la concessione del sito, il quale è da collocare all'interno dell'unità catastale 2321 appartenente al convento di Sant'Agostino; l’estimo non convinse i frati del convento, e venne ripetuto in data 25.07.1809 da Domenico Franco, “marmoraro” milanese residente a Cagliari; egli stabilì un rimborso a favore dei frati di lire 327, soldi 15 e denari 5; con altro atto del notaio Isola, datato 27.10.1809, fu firmato l’accordo fra la Confraternita d’Itria e i padri del convento per la cifra stabilita nella perizia del Franco; la stanza da costruire sopra le arcate del convento, fra i due portoni di accesso, avrebbe preso luce dalla strada di Sant’Agostino e confinava da una parte col muro dell’oratorio, dall’altro con un magazzino di proprietà del convento (2322); i confratelli si impegnarono a ricostruire il muro dove si apriva il primo portone del convento, rifacendo il portone stesso, oltre a chiudere due piccole porte dell’oratorio sostituendole con una porta grande centrale, col suo cancello.

La grande unità 2321 corrispondeva al convento di Sant’Agostino col suo giardino; al suo interno vi era l’oratorio utilizzato dal Gremio dei conciatori per le riunioni dei suoi membri; se ne ha notizia da un atto del 08.10.1809 che riporta il mandato per esigere crediti dato dai maggiorali del Gremio (Raimondo Sorgia, Giuseppe Ardau, Antonio Piroddi, col clavario Luigi Porcu), con l’approvazione dei soci, al signor Francesco Meis. 

Nel corso di una seduta comunale del 17.11.1879, i consiglieri discussero sulle modalità di demolizione dell’ex Convento di Sant’Agostino per la preparazione dell’area dove sarebbe sorto il nuovo mercato civico; fu stabilito di non affidarli in appalto ma di eseguirli “ad economia”.

 

2322     

Sono stati trovati pochi documenti che citano questo immobile; il primo è l’inventario dei beni del defunto Pasquale Ponsiglione, datato 26.11.1802; la casa Ponsiglione 2689 aveva davanti, sull’altro lato della strada di Sant’Agostino, la casa Boy 2323 e un magazzino di proprietà dei padri Agostiniani, identificato con il numero catastale 2322; in seguito, con atto del notaio Giovanni Pisà del 20.03.1806, il Reverendo Prospero Nurri, in qualità di Priore della comunità del convento di Sant’Agostino intra muros, vendette un magazzino nella strada Sant’Agostino della Marina, composto dal piano terreno e un piano alto, senza nessuna divisione all’interno, al “contador de esta ciudadJuan Cadeddu[1]. Il magazzino aveva davanti la casa del Console di Spagna don Juan Baille (casa 2690) e la casa del defunto negoziante Pasquale Ponsiglioni (2689), di spalle aveva il convento stesso, di lato l’entrata al convento (2321) e dall’altro lato una casa del mastro conciatore Pasquale Boi (2323). Giovanni Cadeddu pagò subito 300 scudi, altri 300 scudi sarebbero stati pagati entro 2 anni, senza alcun frutto compensativo, cioè senza interessi.

Tre settimane più tardi, il 10.04.1806, Giovanni Cadeddu firmò l’atto di cessione e rinuncia del magazzino appena acquistato in favore del dottore in Teologia e canonico Giuseppe Melis; intascò nuovamente i 300 scudi. Nell’atto è specificato che il Cadeddu aveva comprato il magazzino non per sé ma per conto del canonico Melis, che evidentemente non voleva apparire o non voleva trattare direttamente col convento.

Dopo due anni il teologo Melis restituì il magazzino al convento di Sant’Agostino; oltre alla somma totale di 600 scudi pattuiti per l’acquisto egli aveva dovuto affrontare diverse altre spese per alcuni lavori urgenti: per questo decise di privarsene; con atto del notaio Gio Batta Azuni del 17.08.108 firmò la ricevuta per scudi 638 che ricevette dai padri Agostiniani.

Nell’atto notarile del 27.10.1809, relativo alla costruzione di una stanza sopra i portoni del convento di Sant’Agostino, concessa alla Confraternita d’Itria, si fa riferimento al magazzino (2322) di proprietà dei padri Agostiniani .

Dopo il 1850 il convento dei padri Agostiniani risulta essere ancora il proprietario dell’unità catastale 2322, come si legge dal cosiddetto “Sommarione dei Fabbricati”, registro dell’antico catasto.

 



[1] Il “contador” Juan Cadeddu era il tesoriere dell’Università, fratello dell’avvocato Salvatore Cadeddu, entrambi “congiurati di Palabanda”; arrestato nel dicembre del 1812, condannato al “carcere perpetuo”, morì il 26.10.1819, ancora rinchiuso nella torre di Sant’Andra dell’isola di Santo Stefano, nell’arcipelago della Maddalena.

 

2323     

Era la casa di abitazione del mastro conciatore Pasquale Boy, che l’aveva comprata il 23.08.1780 dai fratelli Fadda, che l’avevano ereditata dalla madre Vincenza Musu Carta; non è stato rintracciato l’atto di acquisto, ma con atto del 04.11.1780 Salvatore Fadda, uno dei venditori, consegnò al cognato Antonio Costa, marito di Marica Fadda, la porzione che spettava alla moglie per la vendita della casa; in effetti nell’atto citato non vi sono indicazioni sufficienti per individuare la casa, di cui si sa solo che era situata nella strada di Sant’Agostino, un tempo San Leonardo.
Il Boy denunciò la casa di abitazione, sita nella strada di Sant’Agostino, nel suo donativo del 24.06.1799: era composta da un piano terreno con un camerone, e due piani alti con 6 camere e terrazzo; se affittata avrebbe potuto rendere 100 scudi annui; anche in questo caso non vengono fornite indicazioni per identificare la posizione esatta della casa.

Il 05.05.1801 Pasquale Boy consegnò al notaio il suo testamento, che venne pubblicato nello stesso mese di maggio di quell’anno; il Boy morì molti anni dopo, il 21 luglio 1816: non aveva figli, e lui e la moglie Maria Antonia Melis abitavano in una casa sita in contrada S.Agostino “quasi in attiguità del convento”; il Boy dispose, nel suo testamento, che la moglie facesse erigere un tumulo nella sala del secondo piano della sua casa di abitazione, dove collocare il suo corpo prima di essere seppellito; nel tumulo si sarebbero dovute sistemare 6 torce di 3 libbre ciascuna; chiese di essere sepolto nella chiesa del Sepolcro. Stabilì che la moglie continuasse ad abitare nel secondo piano della casa, mentre il piano terreno ed il primo piano sarebbero stati affittati e il ricavato sarebbe stato utilizzato per celebrare messe quotidiane (per l’anima del defunto) e per le elemosine; a parte alcuni legati ai fratelli e ad alcuni nipoti, a cui lasciò dei soldi e tutti i vestiti, e un legato alla nipote Rosa Boi, a cui destinò una casetta utilizzata per la conceria, la sua erede universale era la moglie Maria Antonia Melis, a cui destinò tutti i suoi averi, comprendenti una casa grande vicino alla porta di Sant’Agostino (2281), una casa nella contrada delle conce (2278 e 2279), un’altra casa nella stessa strada delle Conce (2274), e la casa di abitazione nella strada di Sant’Agostino (2323).

Una conferma della posizione della proprietà Boy viene dall’inventario Ponsiglione, del novembre 1802: la casa di Pasquale Boy si trovava davanti alla casa Ponsiglione 2689.

In data 05.10.1811 anche Maria Antonia Melis, moglie del vivente conciatore Pasquale Boi, dettò a un notaio il suo testamento: la donna nominò erede universale e curatore della sua eredità il marito; abitava nella casa della strada “di San Leonardo della Marina, ora denominata Sant’Agostino”.

Con atto notarile del 23.08.1813 il Gremio dei Santelmari concesse in enfiteusi la casa che possedeva nella strada di Sant’Agostino, casa identificata con l’unità 2324; era confinante dalla parte di tramontana con casa del mastro conciatore Pasquale Boy.

Dopo il 1850 la casa apparteneva all’Arciconfraternita del Sepolcro.

 

2324     

Apparteneva al Gremio di Sant’Elmo, e se ne ha notizia da un elenco dei beni del Gremio, rintracciato fra le carte della Segreteria di Stato (ASC) databile 1806; vi sono comprese 3 case nella strada di Sant’Agostino, una con un piano terreno e un primo piano con sala, alcova, e un’altra piccola stanza; la seconda un poco più grande; la terza simile alle precedenti. Una di queste, senza poter dire quale, era l’unità 2324.

Con atto notarile del 23.08.1813 i maggiorali del Gremio di Sant’Elmo (o Sant’Erasmo), Giuseppe Ferrandi ed Efisio Lippi, e il clavario Francesco Moi, concessero in enfiteusi al regio misuratore Pasquale Piu una casa che il Gremio possedeva nella strada di Sant’Agostino, col canone annuo di scudi 35; la casa fu valutata £ 1287 soldi 15 danari 3, e confinava a “maestrale ossia alle spalle col convento degli Agostiniani (2321), a levante ossia in prospettiva, strada in mezzo, con casa del conciatore mastro Raimondo Melis (2687), e con casa degli eredi del fu Pasquale Ponsiglione (2688 e 2689), a mezzogiorno con casa del negoziante Gio Agostino Melis (2325), a tramontana con casa del conciatore mastro Pasquale Boi (2323)”.

Dopo il 1850, dai dati del Sommarione dei Fabbricati, la casa 2324 apparteneva ancora al Gremio di Sant’Elmo.

 

2325     

Era la casa dei coniugi Giovanni Agostino Melis, negoziante, e Priama Piccaluga, che la comprarono da Maria Domenica Cervia, vedova del conciatore mastro Paolo Pintor, con atto notarile del 11.06.1794.

La posizione esatta della casa si ha da un atto notarile del 24.06.1801, quando il Gremio dei Santelmari vendette in enfiteusi al conciatore mastro Raimondo Sorgia una casa che possedeva nella strada di Sant’Agostino intra muros; la casa del Gremio era l’unità 2326, e confinava da una parte con casa del Gremio dei falegnami (2327), dall’altra con casa di Gio Agostino Melis, figlio di Raimondo (2325).

Nel donativo dei Padri Domenicani, presentato il 16.08.1807, venne dichiarata una rendita di 50 scudi annui, pagati dal negoziante Giovanni Agostino Melis per un censo di 1000 scudi, caricato sulla casa di un piano nella strada di Sant’Agostino.
In data 23.09.1809 i coniugi Melis Piccaluga, trovandosi a corto di denaro, chiesere in prestito 400 scudi che servivano per le loro “domestiche urgenze, per alcuni affari di grande importanza e per fare alcune speculazioni di negozio”; ottennero solo 200 scudi dal notaio Gio Batta Azuni (o Asuni), con l’obbligo di corrispondergli il 6% annuo e di restituirgli il capitale entro 2 anni; ipotecarono la casa di loro proprietà sita nella strada di S.Agostino della Marina (olim S.Leonardo), e i loro beni presenti e futuri. Nell’agosto del 1815 furono citati dal notaio Azuni che voleva farsi restituire il capitale prestato; in data 03.01.1816 i coniugi furono condannati a restituire ad Azuni i 200 scudi e a pagare diverse pensioni scadute.

Nell’atto dell’agosto 1813 con cui i Santelmari cedettero in enfiteusi la casa 2324 al misuratore Pasquale Piu, è scritto che detta casa confinava a mezzogiorno con casa del neg.te Gio Agostino Melis (2325), confermandone la posizione.

Nel 1819 Priama Pittaluga (o Piccaluga) denunciò suo marito Giovanni Agostino Melis; i coniugi si erano sposati nel 1793 e Priama aveva portato in dote, fra danari, gioie, e altri oggetti, la somma di lire 2336 e 4 soldi; sin dai primi anni di matrimonio fu chiaro che il Melis non era in grado di sostenere la famiglia “con il decoro che era desiderabile; amico assai del buon tempo, preferiva qualunque divertimento alla applicazione dei propri affari, e la cosa andò così progressivamente crescendo, che si è arrivati al punto d’una totale rovina”. Già da molti anni la moglie e le figlie sostenevano la famiglia col loro lavoro, mentre il Melis non era stato in grado di far fruttare quanto gli era stato donato da suo padre (l’agiato conciatore Raimondo Melis); i beni della famiglia si limitavano ormai a una casa nella strada di Sant’Agostino e a un magazzino in Pirri; il magazzino era vuoto e non rendeva, mentre la casa di Cagliari, “priva da lungo tempo di riparazioni, va deteriorandosi”; era sottoposta a un censo verso il convento di San Domenico, e vi erano 2 pensioni già scadute, da pagare, ed un’altra in scadenza al 28.02.1820; il convento minacciava l’esecuzione dei beni, per recuperare le pensioni e il capitale prestato. Il Melis viveva da solo in mezzo a una opprimente miseria, mentre la moglie da lungo tempo “si è ritirata a vivere colla figlia, ridotta da più anni a mantenersi da sé, ossia non ricevendo dal marito alimenti, anzi avendogliene dati”.

Priama Pittaluga si preoccupava di salvare la sua dote, di cui aveva conservato solo un diamante, mentre tutte le altre “gioie” erano state poste in pegno dal marito. Tramite il suo procuratore (Sebastiano) Dessì Valeri chiese al marito la somma di £ 2336 e soldi 4, a meno di £ 125, valore del diamante.

Diverse testimonianze confermano la pessima situazione finanziaria del Melis, oberato da altri debiti, descritto come persona “spensierata” e incapace di mantenere la famiglia. Nel 1820 egli riuscì a riparare la casa, che era affittata in quel periodo: il piano terreno al conciatore Antonio Matta, il primo piano a Monsieur Ciampelli.

In data 21.04.1820 fu emessa una sentenza con la quale il Melis venne condannato a pagare alla moglie quanto dovuto.

Nel 1850 la casa 2325 apparteneva al negoziante Agostino Vignolo (S.Margherita Ligure 1805?-Cagliari 1886) fu Domenico.

 

2326

La prima informazione che si ha di questa casa è l’atto di concessione enfiteutica del 24.06.1801: apparteneva al Gremio dei Santelmari, che la concessero in enfiteusi al conciatore Raimondo Sorgia; era situata nella strada di Sant’Agostino, fra la casa di Gio Agostino Melis (2325), e la casa del Gremio dei Falegnami (2327), alle spalle col convento dei Padri Agostiniani;

Si è già detto (per la casa 2324) che nell’elenco dei beni del Gremio di Sant’Elmo erano 3 le case di proprietà nella strada di Sant’Agostino: due di queste corrisponderebbero alle unità 2324 e 2326, la terza potrebbe corrispondere all’unità 2363 (vedi).

Vi sono ulteriori conferme da tre atti del 1813: il primo è datato 11 marzo, e riguarda un’ipoteca sulla casa Crobu Arthemalle, unità catastale 2686, sull’altro lato della strada: aveva davanti le case Melis 2325 e Soggia (recte Sorgia) 2326; gli altri due sono del mese di aprile e sono relativi a una casa del Gremio dei falegnami identificata con l’unità catastale 2327, confinante con la casa 2326 dei Santelmari.

Il conciatore Raimondo Sorgia fu coinvolto nel 1812 nella congiura di Palabanda; arrestato il 5 novembre, fu giustiziato il 13.05.1813.

Dai dati del Sommarione dei Fabbricati, risulta che anche dopo il 1850 la casa 2326 appartenesse al Gremio di Sant’Elmo, che ne aveva conservato la proprietà.

 

2327     

Un atto notarile del settembre 1792, relativo alla casa 2686, attribuisce questa casa al conciatore Raimondo Sorgia; non doveva essere una piena proprietà, ma probabilmente solo un ‘enfiteusi, oppure una locazione; infatti si sa che Raimondo Sorgia ebbe in enfiteusi nel giugno 1801 la casa confinante 2326, di proprietà del Gremio di S.Elmo; proprio nell’atto relativo a questa enfiteusi si legge che la casa 2327 apparteneva invece al Gremio dei Falegnami, e l’informazione è confermata da un atto del 15.04.1802 relativo alla casa del mastro “adobador” Anastasio Tola, identificata con l’unità 2328: questa confinava da un lato con casa di Pedro Pintor (2329), e sull’altro lato con casa del Gremio dei Carpentieri (2327). Un altro atto notarle del 19.07.1796, anch’esso relativo alla casa 2686, sull’altro lato della strada di Sant’Agostino, riferisce che di fronte a questa c’era la casa del mastro conciatore Antioco Cocco: se è giusta l’ipotesi di attribuire al Cocco la casa 2327, anche in questo caso il riferimento non è al proprietario ma al locatario, oppure all’enfiteuta.

Fra i beni del Gremio dei Falegnami, compresi in una lista della Segreteria di Stato (del 18.02.1805), è inserita una casa nella contrada di Sant’Agostino con un sottano e il primo piano, composto da una sala, l’alcova, e un’altra stanza; era affittata per lire 87 e 10 soldi annui, cioè 35 scudi.

Con atto notarile del 01.04.1813 i maggiorali del Gremio dei Falegnami, mastri Angelo Corda, Ignazio Carboni, Marcantonio Mereu, Battista Puddu, in accordo con l’orologiaio Antonio Melis (Melly), fecero stimare la casa; questa fu valutata poco più di scudi 580, e in data 26 aprile fu concessa in enfiteusi al Melly per 40 scudi annui, con la promessa di migliorarla entro un anno e mezzo. Era fino ad allora affittata al napoletano Salvatore Olivieri che pagava il fitto di 37 scudi annui;

A metà ‘800 la casa 2327 apparteneva a Rita Piga vedova di Antonio Melly.

 

2328, 2329, 2330              
Le notizia più antiche disponibili per queste 3 case sono tratte da una causa civile iniziata nel marzo del 1777, relativa alle proprietà del notaio Francesco Giuseppe Urbano, oberato da diversi debiti; fra i creditori c’era la minore Pasqualina Grizè, assistita dal suo curatore Antonio Reynaldi, la quale chiedeva il pagamento di pensioni arretrate per un prestito di 200 lire e pensione di 12 lire annue caricate sulle proprietà Urbano; il convento delle monache di Santa Lucia pretendeva invece 32 scudi di pensioni arretrate; il canonico Joseph Antonio Brandino, ricevitore delle Cause Pie, pretendeva che venissero pagate le pensioni scadute, per un censo caricato su una casa comprata dal notaio Urbano nella strada di Sant’Agostino; il mastro Pedro Pintor, che aveva comprato una delle case Urbano, pretendeva che gli venisse restituito quanto aveva anticipato per le spese dell’atto notarile, e pretendeva soprattutto che gli venisse consegnata la casa acquistata; intervennero altri creditori minori, fra cui il “panadero genovese” Antonio Pelufu che presentò le ricevute secondo cui il notaio Urbano gli doveva scudi 8, reali 6 e soldi 4, per forniture di pane.

Il notaio “Francisco Joseph Urbano natural dela ciudad de Iglesias” comprò dalla Causa Pia, con atto notarile del 07.12.1754, due case contigue col loro cortile, site nella strada di Sant’Agostino (già di San Leonardo); una casa aveva due piani alti, l’altra un solo piano alto; Urbano pagò 740 scudi e rimase un censo di 340 scudi e pensione annua di scudi 20 e reali 4 da pagare alla Causa Pia; la casa di un piano alto, identificata con l’unità catastale 2329, confinava davanti con casa di Don Antonio Vintimilla (2671), di spalle col convento di Sant’Agostino (2321), da un lato con l’altra casa di due piani della Causa Pia che stava comprando lo stesso notaio Urbano (2330), e dall’altro lato con casa che già possedeva lo stesso compratore notaio Urbano (casa 2328) almeno dal 1749.

La casa di due piani, identificata con l’unità catastale 2330, aveva davanti la casa del mastro Salvatore Pintor (2670), di spalle il “convento e dormitorio di Sant’Agostino” (2321), da un lato la casa del mastro Diego Frongia (2331), sull’altro lato l’altra casa venduta (2329) allo stesso Urbano.

Le case appartenevano anche a Maria (o Minnia) Pinna, moglie del notaio, in quanto i coniugi erano sposati alla sardesca; Maria Pinna morì senza testamento il 28.10.1774, per cui metà dei suoi beni vennero ereditati dai figli, cioè Pasquale, Rosa e Anna Urbano.

Alla fine del 1777, pressato dai creditori, il notaio Urbano vendette la casa 2329 al mastro conciatore Pedro Pintor; sulla casa gravava il censo di 340 scudi da pagare alla “Causa Pia Barray”, il notaio intendeva così liberarsi del censo e, con quanto intascato nella vendita, pagare gli altri creditori.

Francesco Giuseppe Urbano morì però nel luglio del 1778 e la causa venne continuata dai figli; questi ultimi, che dal 1774 erano comproprietari delle case assieme al padre, contestarono la legittimità dei censi accesi dal padre sulle case senza il loro assenso, e Pasquale Urbano non ratificò la vendita della casa 2329 al mastro Pedro Pintor. Cercarono di eludere le richieste dei creditori rinunciando alla eredità paterna; le loro eccezioni vennero però rigettate dai giudici; si dichiararono allora poverissimi, per aver venduto tutti i loro beni e aver tenuto solo la casa dove vivevano, dalla quale non avevano introiti per essere in continua lite.

Dalle testimonianze di Giovanni Onnis e di Salvatore Pintor si apprende che all’inizio del 1780 i fratelli Urbano abitavano ancora nella casa 2329 insieme alla loro zia Francesca Urbano; in una parte della casa vi abitava il mastro Pedro Pintor che l’aveva comprata nel 1777 senza averne potuto prendere pieno possesso; possedevano ancora la casa 2328, mentre avevano venduto la casa di due piani (unità 2330) al negoziante Pasquale Ponsillon (che poi la scambiò con un’altra casa del convento di Sant’Agostino); il 19.09.1780 i fratelli Urbano vennero condannati a pagare le pensioni arretrate al ricevitore della Cause Pie, a pagare 5 pensioni alla minore Pasqualina Grisè e a pagare a Pedro Pintor scudi 118, reali 1, soldi 1 e mezzo.

La casa 2329 venne ceduta a tutti gli effetti a Pedro Pintor in data 03.08.1781.

Per ricapitolare, nel 1781 la situazione delle 3 case Urbano doveva essere la seguente: la casa 2328 apparteneva ancora ai fratelli Urbano; la casa 2329 era stata finalmente venduta e consegnata al mastro conciatore Pedro Pintor; la casa 2330 era stata venduta al negoziante Pasquale Ponsillon che l’aveva però scambiata con un’altra casa del Convento di Sant’Agostino.

Da un atto del 27.02.1792 si apprende che il convento di Sant’Agostino era in quell’anno proprietario della casa 2330, e voleva impiegare 200 scudi per riedificarla; era una casa che aveva avuta in cambio con un’altra dal negoziante Pasquale Ponsiglioni, era situata nella Marina e strada di Sant’Agostino, confinava da una parte con la casa di Annica Ena, vedova del fu Pietro Pintor (2329), dall’altro lato con la casa del reverendo Antonio Ignazio Frongia (2331), di spalle al convento di Sant’Agostino (2321).

Con atto del 18.02.1798, Anna Ena (o Enna) vedova Pintor e i suoi figli Salvatore, Ignazia e Giuseppa Pintor, vendettero la casa 2329 per 750 scudi a Juan Domingo Corrias di Oliana (Oliena); Pedro Pintor era morto senza testamento nel luglio 1788; i suoi eredi dovettero cedere la casa non potendo più pagarne le pensioni e non potendo mantenerla e aggiustarla; era composta dal piano terreno, una cucina, un cielo scoperto (cortile), una cisterna, un pozzo, un piano alto con sala, alcova, 2 stanze alle spalle, balconi di ferro; aveva davanti la casa de padri Mercedari (2672) e quella degli eredi di Agostino Baria (2671), di spalle il dormitorio del convento di Sant’Agostino (2321), col cielo scoperto in mezzo, da un lato una casa del convento di Sant’Agostino (2330), dall’altro la casa del conciatore Anastasio Tola (casa 2328, si veda più avanti); era la stessa casa della Causa pia Barray ceduta al notaio Francesco Joseph Urbano con atto del 07.12.1754 e ceduta dai suoi figli (Rosa vedova di Mauro Messina, Anna, e Pasquale Urbano) per 681 scudi e 5 soldi a Pedro Pintor con atti del 29.08.1781, del 30.08.1781, e del 18.12.1781.

In data 16.02.1803, Monica Rossi, vedova di Gio Domenico Corrias, vendette la casa (2329) al notaio Giuseppe Gabba. Il marito era morto da qualche tempo e la vedova aveva accumulato diversi debiti, sia per le spese affrontate durante la malattia del marito, sia dopo la sua morte per sostenere se stessa e la figlia “pupilla” Raffaela Corrias; vendette pertanto la casa di 3 piani (due superiori e il piano terreno) per scudi 995, reali 9, soldi 3, denari 4, secondo un estimo eseguito di recente; Monica Rossi intascò soltanto 505 scudi e qualche spicciolo, in quanto la casa già dal 1798 era gravata da due censi di proprietà: uno della Causa Pia Barray, per scudi 340, l’altro del reverendo agostiniano Catte, per scudi 150; inoltre, per altri debiti contratti dal marito defunto, pagò immediatamente scudi 114 e reali 5 a sua madre Rita Catte, e scudi 300, reali 7 e denari 10 al Reverendo Padre Catte; in quella data le case laterali risultano appartenere al mastro Anastasio Tola (2328) e al convento degli Agostiniani (2330).

Con atto del notaio Antonio Pirisi del 26.08.1810 il notaio Giuseppe Gabba pagò 150 scudi a Fra Massimo Serra, priore dei Padri Agostiniani, per estinguere un’ipoteca che gravava sulla casa da lui comprata 7 anni prima e un debito contratto dal defunto Gio Domenico Corrias in data 13.02.1798.

In altro atto notarile del 20.04.1802 è scritto che la casa 2328 era stata sequestrata ai fratelli Urbano il 02.01.1781 a causa delle pensioni arretrate legate a una ipoteca risalente al 15.12.1749, e venduta all’asta al notaio Pasquale Usay Mura; quest’ultimo la cedette nel febbraio del 1782 al mastro Anastasio Tola, ancora gravata da pesi di proprietà per 400 scudi e 20 scudi di pensione annua da pagare alle monache di Santa Lucia; Anastasio Tola e i suoi figli il 20.04.1802 restituirono il capitale alle monache; per liberarsi del censo delle monache, il Tola solo pochi giorni prima (il 15.04.1802) aveva avuto 800 scudi dal negoziante Pasquale Ponsillon, a cui avrebbe pagato 40 scudi di pensione annua; ipotecò quindi la casa 2328, confinante da una parte con quella che era del defunto mastro Pedro Pintor (ma che era ormai del successivo proprietario Corrias!), e dall’altro una casa del Gremio dei Carpentieri (2327). La proprietà del mastro conciatore Anastasio Tola è confermata da atto del 16.02.1803, relativo alla casa 2329, e da atto del 05.12.1803 relativo alla casa 2672. La casa 2328 era quella di abitazione della famiglia e il mastro conciatore Anastasio Tola vi morì il 01.03.1804 [1]. 

Con atto del notaio Bernardo Aru del 16.06.1804, il mastro Pasquale, Catterina (sic), Agostina, Giuseppe e Alessandro Tola vendettero la casa 2328 per il prezzo di scudi 1643, reali 3, soldi 1, denari 8; il compratore era il reverendo Filippo Ponsiglione che agiva però in nome dei suoi nipoti, eredi di suo cugino, il fu Pasquale Ponsiglione; Pasquale Tola era l’unico fra gli eredi Tola maggiore di 25 anni, ed infatti agiva come curatore e tutore dei fratelli. Catterina era anche assistita dal marito mastro Francesco Costa. La casa era composta da due piani alti e sotano, con balconi di ferro, terrazzo, cisterna, e cortile; faceva parte dell’eredità del loro genitore mastro Anastasio Tola ed era stata valutata circa 2 anni prima oltre scudi 1985; gli eredi Tola ammisero però che era stata valutata con prezzo molto alto e che al momento necessitava di diverse riparazioni; inoltre non avevano avuto altre offerte, e con la vendita avrebbero avuto l‘opportunità di liberarsi del censo di scudi 800 concesso al loro padre da Pasquale Ponsiglione il 15.04.1802; dovevano essere pagate anche due pensione già maturate, per 80 scudi in tutto. 

Con atto del notaio Joachin Mariano Moreno del 22.12.1803, i padri del convento di Sant’Agostino, il cui priore era il Reverendo Prospero Nurry, vendettero la casa 2330 al mastro conciatore Francesco Manca; la casa, detta “di Ponsillon” composta da da due piani alti e piano terreno, era quasi in rovina; i padri avevano diversi debiti e dovevano pagare 95 scudi per il donativo, non potevano quindi affrontare la spesa necessaria per riedificarla e renderla abitabile e affittabile; pertanto la vendettero per 550 scudi, nonostante fosse stata stimata oltre 650 scudi dai periti muratori e falegnami nominati dal convento e dal compratore.

In atto notarile del 29.04.1806, relativo alla casa Frongia 2331, la casa 2330 risulta appartenere ancora al mastro conciatore Francesco Manca; quest’ultimo la ipotecò il 25.10.1806 per garantire l’acquisizione enfiteutica della casa 2299; nell’atto di ipoteca è scritto che l’aveva comprata il 22.12.1803 dai Padri di Sant’Agostino per scudi 550 di cui ne aveva pagato subito 250, saldando il resto con atto notarile del 20.01.1805.

Da due atti notarili dell’aprile 1813, relativi alla casa 2327, si sa che in quell’anno la casa 2328 apparteneva ancora agli eredi Ponsiglione; infatti, nel fascicolo di una causa civile del 1816, relativa alla eredità Ponsiglione, vengono elencati i beni immobili appartenenti alla eredità, amministrati fino ad allora dal curatore, il reverendo Filippo Ponsiglione (morto il 20.02.1816); fra le case è indicata anche quella nella strada di Sant’Agostino denominata casa Tola (casa 2328), acquistata con atto notarile del 16.06.1804 dal reverendo Ponsiglione per conto dei figli di suo cugino, il fu Pasquale.

Dai dati del catasto di metà ‘800 la casa 2328 risulta appartenere al negoziante Michele Ponsiglione, figlio del fu Pasquale; la casa 2329 apparteneva al negoziante Giovanni Antonio Loi, figlio del fu Diego, di cui si ignorano eventuali legami parentali con Giuseppe Gabba proprietario al 1803; la casa 2330 apparteneva al conciatore Giuseppe Manca; quest’ultimo potrebbe identificarsi col primogenito di Francesco Manca e Caterina Licciardi, nato nel 1780.

 



[1] Anastasio Tola aveva consegnato un testamento al notaio Giovanni Luigi Todde, scritto il 29.12.1800, nel quale lasciava i suoi beni ai 5 figli: il mastro conciatore Pasquale, Caterina moglie di Francesco Costa, Agostina, Giuseppa e Alessandro, figli della sua defunta seconda moglie (la sua prima moglie era Anna Rosa Fadda, la seconda Anna Meloni), ma al figlio Pasquale lasciava solo la parte legittima; con un “codicillo” datato 19.02.1802, egli modificò il testamento già consegnato, ma non pubblicato, e dichiarò invece di lasciare a Pasquale una porzione intera, come agli altri figli.

Le diverse decisioni del Tola relative all’eredità da lasciare a Pasquale sono sicuramente legate all’uccisione, da parte di Pasquale, di tale Luigi Tronci, nel mese di maggio del 1795; in data 15.02.1802, 4 giorni prima del reintegro completo di Pasquale nell’eredità paterna, i fratelli di Luigi Tronci firmarono un contratto di pace e di perdono nei confronti di Pasquale Tola, seguito al condono dei reati, concesso dal re Carlo Emanuele IV per il suo arrivo in Sardegna nel febbraio 1799.

 

 

2331

Dalla causa Urbano, di cui si è riferito nel precedente paragrafo, si sa che nel 1754 la casa 2331 apparteneva al mastro Diego Frongia; nel 1792, dall’atto del 27 febbraio relativo alla casa dei padri Agostiniani 2330, risulta appartenere al reverendo Antonio Ignazio Frongia (nato nel 1731, morto nel 1805, figlio di Diego Frongia e di Agostina Boy).

Risulta appartenere ancora al sacerdote Frongia in 4 atti del 1797 e del 1798, uno relativo alla confinante casa Tatty 2332, gli altri 3 alla frontale casa Pintor 2670; era una casa di discrete dimensioni: oltre alla casa Pintor 2670 aveva davanti la casa 2669 e la casa 2668; è infatti citata in un atto notarile dell’agosto 1800 relativo appunto alla casa Melis numero 2668, che confinava davanti, dalla parte di maestrale, con casa del reverendo Antonio Ignazio Frongia beneficiato di Sant’Eulalia, strada in mezzo; risulta ancora del reverendo Frongia in atto del dicembre 1803 relativo alla confinante proprietà 2930.

Con atto del notaio Gioachino Mariano Moreno del 29.04.1806, la signora Chiara Frongia vedova di Francesco Pintor, e suo fratello notaio Francesco Frongia, vendettero due case contigue composte dal piano terreno e un solo piano alto, con cisterna e pozzo, site nella strada di Sant’Agostino, al negoziante Salvatore Melis di Agostino; era infatti morto di recente il loro fratello sacerdote Antonio Ignazio Frongia, da cui avevano ereditato; sulla proprietà gravava un censo di 100 scudi con pensione al 6% da pagare all’Azienda ex-gesuitica (censo acceso dal defunto il 01.08.1766), vi erano alcune pensioni arretrate e il sacerdote non aveva lasciato contanti con cui poter saldare i debiti e neppure pagare il funerale; pertanto gli eredi decisero di vendere; la vedova Pintor ottenne il permesso in data 26.04.1806 dalla Regia Vicaria, il fratello notaio, cagliaritano ma domiciliato in Sant’Antioco, si fece rappresentare da suo genero notaio Francesco Fadda di Isili, che dal 1805 aveva la procura per occuparsi degli affari relativi ai beni del suocero, in particolare quelli provenienti dai genitori Diego Frongia e Agostina Boy, in comproprietà con la sorella Chiara e col fratello Antonio Ignazio e con l’altra sorella Rita (defunti entrambi nel 1805).

Le due case, evidentemente poi riunite a formarne una più grande, avevano davanti la casa del baccelliere Giuseppe Maria Pintor (2669, alle spalle il convento di Sant’Agostino, di lato le case Tatti (2332) e del conciatore Francesco Manca (2330).

In atto del 13.02.1807, relativo alla casa 2670, risulta che fosse appartanuta all’ormai defunto sacerdote Antonio Ignazio Frongia, e che appartenesse in quel momento al negoziante Salvatore Melis, la cui proprietà è confermata in atti del 29.04.1808 e del 26.11.1808, relativi alla frontale casa 2669, e in atti del 13.10.1808 e del 25.05.1809 relativi alla confinante casa 2332.

A metà ‘800 apparteneva a suo figlio, l’architetto civico Gerolamo Melis (1785-): si tratta del padre del più noto architetto Enrico Melis Romagnino (1834-1922), e nonno di Felice Melis Marini (1871-1953).

 

2332 e 2333

Con atto notarile del 28.02.1797 venne registrato l’estimo di una casa sita nella strada di Sant’Agostino, eseguito dai muratori mastri Sebastiano Puddu e Giovanni Crobu, incaricati dalle Monache di Santa Chiara e dagli eredi del mastro Agostino Tatty; questi ultimi erano i suoi figli notaio Salvatore, Raffaele, Maddalena, e Maria Anna Tatty, ed erano i proprietari della casa, stimata 1306 lire, 6 soldi 7 denari, e confinante sul fronte con casa del defunto Filippo Pinna (parte della casa 2667), di spalle col convento di Sant’Agostino (2321), di lato con la casa del sacerdote Antonio Ignazio Frongia (2331), e dall’altro lato con altra casa appartenente agli stessi eredi Tatty: le case Tatty corrispondevano quindi alle unità catastali 2332 e 2333. Solitamente gli estimi degli immobili sono seguiti dagli atti di vendita dei medesimi, ma in questo caso non è stato rintracciata la vendita della casa 2332, a cui erano interessate le monache di Santa Chiara.

In ogni caso gli eredi Tatti avevano ancora una proprietà nella strada di S.Agostino nel 1799: nel donativo della Comunità di S.Eulalia, datato 14.06.1799, si fa menzione a un censo di 700 scudi, caricato su una casa sita nella strada di Sant’Agostino, per il quale gli eredi del mastro Agostino Tatti pagavano una pensione annua di 37 scudi e 10 soldi.

Con decreto del 06.12.1806 firmato dal Reggente della Reale Cancelleria (don Giuseppe Valentino), fu ordinata la vendita all’asta di una casa (identificabile con il numero catastale 2333) di due piani alti posta nella Marina e strada San Leonardo ossia Sant’Agostino, su istanza del procuratore della comunità di Sant’Eulalia, per la somma di lire 973, soldi 10 e denari 10, dovuta dagli eredi Tatti alla Comunità come erede e donataria dei beni lasciati dal fu Reverendo Francesco Falqui (nel suo testamento del 10.06.1780), per pensioni censuarie decorse e non pagate, per la proprietà censuale e per le spese processuali. Con atto notarile del 02.10.1807, la casa di “spettanza” del notaio Salvatore, Marianna e Maddalena fratello e sorelle Tatti (non viene nominato il fratello Raffaele, probabilmente deceduto nel frattempo), fu assegnata al notaio Antonio Pischedda Corona che aveva offerto scudi 418, reali 3, soldi 1, denari 8, con l’obbligo di pagare prontamente le pensioni scadute, le spese, e il capitale di lire 750 a cui la casa era soggetta; confinava da un lato con altra casa degli eredi Tatti (2332), alle spalle con le mura del convento di Sant’Agostino, d’altro lato con casa dell’avvocato don Giuseppe Angelo Viale (2334), e davanti con una casa del cav. don Onorato Cortese (2667).

In data 17.02.1808 il notaio Pischedda Corona cedette la casa Tatti 2333 al notaio Efisio Usai Todde; nel documento di vendita si ripercorsero a ritroso le vicende della proprietà: il Pischedda Corona l’aveva acquisita nel 1807 da Salvatore Maddalena e Marianna Tatti, a seguito di una assegnazione in pubblica asta; i fratelli Tatti l’avevano ereditata dal padre, il mastro conciatore Agostino Tatti; quest’ultimo l’aveva acquistata il 02.03.1776 da Francesco Pintor, il quale l’aveva acquistata il 29.11.1763 dagli eredi di Gio Antonio Ponsiglion [1]; in occasione di questi ultimi due passaggi di proprietà era stati caricati due censi sulla casa: nel 1763 di 200 scudi, nel 1776 di 100 scudi, entrambi proprietà del sacerdote Francesco Falchi (o Falqui); questi, con testamento del 10.06.1780, aveva nominato sua erede la Comunità di Sant’Eulalia la quale nel 1806 chiese il sequestro della casa per recuperare dagli eredi Tatti le pensioni non pagate e il capitale di 300 scudi. Il prezzo convenuto nel 1808 col notaio Usai Todde fu di scudi 488, soldi 2 e denari 7; il notaio Pischedda Corona intascò subito 200 scudi, il resto doveva essere consegnato alla Comunità di Sant’Eulalia, il cui censo venne pagato completamente da Efisio Usai Todde con atto notarile di stessa data.

Con atto del notaio Giuseppe Porru del 13.04.1808 il notaio Usai Todde, dichiarando che non aveva agito per sé ma per conto del mastro conciatore Pasquale Boi, cedette a quest’ultimo la casa Tatti 2333.

Il già nominato Don Giuseppe Valentino, Reggente della Reale Cancelleria, il 07.01.1808 decretò l’esecuzione dell’altra casa Tatti, corrispondente al numero catastale 2332; era composta da un piano alto e piano terreno, e gli eredi Tatti erano debitori del Monastero di Santa Chiara per un capitale di lire 1125 onerato sulla casa, e per diverse pensioni scadute; solo il 2 luglio si fecero avanti due possibili compratori, il causidico Salvatore Filia e il notaio Efisio Usai Todde, il medesimo che si era già occupato dell’acquisto della casa 2333 per conto terzi; fu deliberata l’assegnazione a quest’ultimo il 13.10.1808. Il copione è il medesimo: in data 25.05.1809 (con atto del notaio Joachin Mariano Moreno) il notaio Usai Todde cedette anche la casa 2332 al mastro conciatore Pasquel Boi alle stesse condizioni che a lui erano state fatte; il Boi aveva pagato tutto il dovuto già dal 20.09.1808, con atto del notaio Giuseppe Porru.

Un atto notarile del 1811, relativo ala casa 2334, riporta l’informazione che le case laterali a quella appartenessero una al mastro conciatore Pasquale Boi, l’altra al mastro falegname Raffaele Capai; la casa Capai corrispondeva al numero catastale 2335, per cui è confermato che la casa Boi corrispondeva alla casa ex-Tatti 2333.

E’ stato rintracciato un altro documento, di diversi anni successivi, che sembra fornire notizie sulla casa 2332 e su una casa a essa confinante: è il fascicolo di una causa civile del 1820, che riporta una lite fra la Congregazione del Santissimo e gli eredi del chirurgo Efisio Luigi Garau; la Congregazione aveva affittato al Garau una casa nella strada di Sant’Agostino per scudi 24 annui; il Garau morì lasciando 32 scudi da pagare, affitto di un anno e 4 mesi; i suoi eredi, cioè la vedova e i figli del già defunto suo fratello Francesco Giuseppe Garau, non si occuparono di pagare il debito, e continuarono a occupare la casa della Congregazione; inoltre abitavano la casa confinante, e avevano aperto una porta di comunicazione fra le due case; non si hanno notizie di proprietà della Congregazione del Santissimo nella strada di Sant’Agostino, negli anni precedenti il 1800 o negli anni immediatamente successivi; a metà ‘800 risulta però che possedesse la casa 2332; per cui, un’ipotesi da confermare è che la casa di cui riferisce la causa del 1820 fosse appunto l’unità catastale 2332 (forse comprata dal conciatore Boi o dai suoi eredi), mentre l’altra casa confinante dove vivevano gli eredi Garau, non si sa se loro proprietà, poteva essere la casa 2333 (escludendo la casa 2331, attribuita alla famiglia Melis).

Un altro documento che potrebbe riguardare la casa 2333 è il testamento del giudice Filippo Altea Sotgiu di Tempio, datato 05.09.1839 e rintracciato fra gli atti delle “Ultime Volontà” (ASC): il giudice, che morì diversi anni più tardi (il 24.12.1855), legò al nipote Stefano Altea una casa che possedeva nella strada di Sant’Agostino; non sono fornite altre indicazioni per identificarla ma, nel Sommarione dei Fabbricati appena successivo al 1850, la casa 2333 risulta appartenere a Filippo Altea. 



[1] Dovrebbe trattarsi del nonno del noto negoziante Pasquale Ponsiglione, morto nel 1802.

 

2334

Gli atti notarili dell’ottobre 1807 e del febbraio 1808, entrambi relativi alla casa 2333, riferiscono che la casa identificabile col numero 2334 apparteneva in quell’anno all’avvocato don Giuseppe Angelo Viale (1760-1809), figlio del fu don Francesco Viale; inoltre in precedenza la casa apparteneva all’avvocato (reverendo e dottore) Giuseppe Denegri, zio materno dell’avvocato Viale; il Denegri era morto dal 1792.

Con atto notarile del 25.02.1811, il nobile avvocato don Gio Batta Viale (1767-1856), fratello di don Giuseppe Angelo, concesse in enfiteusi al notaio Giovanni Pisà una casa situata nella strada di Sant’Agostino; fu stimata lire 3254, soldi 12, denari 9; la si concesse in enfiteusi perpetua con l’obbligo di spendere scudi 400, per migliorarla, entro un anno e mezzo; era composta da due piani, confinava da un lato con la casa del mastro conciatore Pasquale Boi (2333), dall’altro lato con la casa del mastro falegname Raffaele Capai (2335), sul fronte con una casa del cavalier Onorato Cortese che prima era degli eredi di Gio Filippo Pinna (2667), e alle spalle col giardino dei Padri Agostiniani (2321). 

Altra conferma a questa attribuzione arriva dai dati successivi al 1850 del vecchio catasto, nel quale risulta appartenere all’ Opera Pia Viale per sussidio ai poveri ammalati in Stampace

 

2335

Nel suo donativo del 26.06.1799 il Mastro Francesco Capai descrive una sua proprietà nella contrada di Sant’Agostino: casa di due piani con 3 stanze in ogni piano e la cucina sopra, per cui viene pagato il canone annuo enfiteutico di 22 scudi e mezzo ai padri Agostiniani, utilizzata dal proprietario come sua abitazione, potrebbe rendere scudi 30 annui se affittata; non vengono forniti informazioni sui confinanti, per cui non sarebbe possibile identificare la casa.

Un atto notarile del 25.06.1805, relativo alla casa 2336, riporta la notizia che la casa confinante 2335 fosse una proprietà dei Padri di Sant’Agostino; il dato è corretto ma parziale: infatti con atto notarile del 01.12.1807, i “giugali” cioè coniugi mastro falegname Francesco Capai e Giuseppa Catte, donarono la loro casa al figlio falegname Raffaele Capai; si trattava di una casa formata da due piani superiori e piano terreno che i conugi avevano avuto in enfiteusi il 17.05.1793 dai Padri di Sant’Agostino, e per la quale pagavano il canone di 22 scudi e mezzo ogni anno, corrispondente al capitale di 450 scudi; avevano migliorato la casa che valeva al momento della donazione scudi 1000; volevano ricompensare il figlio che da diversi anni li manteneva, vista la loro avanzata età e per essere ormai “inabili al travaglio”; Francesco Capai era “quasi paralitico per la gotta”. In cambio il figlio avrebbe dato loro 200 scudi in 4 anni, e avrebbe assicurato la loro abitazione nella stessa casa; i confini sono chiari: da una parte la casa Viale, numero 2334, dall’altra la casa Fais, 2336, davanti la casa Pinna poi Cortese, 2667, alle spalle il convento dei padri Agostiniani, 2321.

Questa attribuzione è confermata da un atto notarile del 1811, relativo ala casa 2334, che risulta confinare da una parte con casa dell mastro conciatore Pasquale Boi (2333), dall’altra con casa del mastro falegname Raffaele Capai (2335). 

A metà ‘800 risulta appartenere a Maria Antonia Doneddu (1777-1862), vedova del commerciante Francesco Gastaldi.

 

2336     

Era una proprietà del mastro conciatore Antonio Fais; morto senza figli nel 1780, il Fais aveva lasciato alcuni beni in usufrutto alla sua vedova Maria Grazia Funedda (-1791), dei legati ad alcuni nipoti e diverse case all’Arciconfraternita di Santa Lucia.

Le prime notizie disponibili provengono da un documento dell’Archivio di Sant’Eulalia, datato 09.09.1760, quando gli eredi Pisano Boy vendettero per 1158 scudi ad Antonio Fais una casa nella strada di Sant’Agostino (un tempo di San Leonardo), composta da un alto e un basso; era gravata da un censo di 300 scudi costituito dalla vedova Pisano Boy in favore del reverendo Francesco Falquy, beneficiato e parroco di Sant’Eulalia; non vi sono indicazioni che permettano di identificarla e quindi non vi sono certezze, ma, fra le tante proprietà del Fais, la casa 2336 è l’unica che può corrispondere all’immobile acquistato nel 1760.

Negli anni successivi è citata in due documenti relativi alla casa Pinna, unità catastale 2337: nel primo, del 10.01.1792, è scritto che la casa Pinna confinava da una parte con la casa Uda (2338), dall’altra parte con la casa del quondam mastro Antonio Fais (2336); nel secondo documento, del 21.03.1792, è citato come proprietario della casa 2336 il notaio Luis Carta, la cui moglie, Francesca Satta, era una nipote ed erede dei coniugi Fais Funedda.

Nel fascicolo relativo a una lite giudiziaria iniziata nel dicembre 1796 fra Francesca Satta vedova Carta e l’avvocato Giuseppe Maria Massa, sono state trovate le seguenti informazioni: la vedova Satta era nipote ed erede di Grazia Funedda, vedova di Antonio Fais, e curatrice dei suoi figli minori; l’avvocato Massa abitava in affitto l’ultimo piano della casa nella strada di Sant’Agostino, amministrata dalla vedova Satta, lasciata dal conciatore Antonio Fais per la celebrazione annuale della festa della Purissima Concezione nella chiesa di Santa Lucia; Maria Grazia Funedda, nel suo testamento del 1785, dispose che l’avvocato Massa potesse abitare, per tutta la sua vita e quella dei suoi figli, nella casa sita nella strada di Sant’Agostino, dove abitava già da alcuni anni, in cambio degli onorari d’avvocato sugli affari della eredità Fais; inoltre la vedova Funedda, dal momento che era morto il curatore dell’eredità nominato dal marito, nominò curatori suo nipote notaio Luis Carta e lo stesso avvocato Joseph Maria Massa; la vedova Satta, evidentemente non soddisfatta dell’accordo disposto dalla defunta zia, pretendeva l’affitto o voleva in alternativa che venisse liberata la casa; la causa continuò per diversi anni e il 04.10.1801 morì l’avvocato Massa, lasciando la vedova Rosa Murroni e alcuni figli, fra cui i minori di 25 anni Salvatore e Carlo, “assenti dal Regno” da diversi anni, e i maggiori di 25 anni Modesta e l’avvocato Antonio[1]; la vedova Rosa Murroni morì prima dell’agosto 1806, la causa venne continuata dai figli; diverse persone testimoniarono che essi non possedevano alcun bene, che Antonio “era principiante e lucrava poco della sua attività”, e la sorella Modesta non aveva beni “né per la sua sussistenza né per vestirsi”; nel settembre 1809 i fratelli Massa non abitavano più la casa che una perizia attestò essere in pessime condizioni, praticamente inabitabile a causa delle riparazioni urgenti che le necessitavano.

Nel frattempo, con atto notarile del 26.05.1805, la vedova Francesca Carta nata Satta cedette la casa alla Comunità di Sant’Eulalia; col testamento di Antonio Fais del 25.01.1780, Francesca Satta era stata nominata legataria di tutta quella casa, sita nella strada di Sant’Agostino, abitata dall’avvocato Giuseppe Massa e poi dai suoi eredi, con l’obbligo di celebrare alcune feste nella chiesa di Santa Lucia, e poteva disporre a suo arbitrio di quanto avanzava dalla somma di lire 145 e soldi 10 destinate alle feste; col permesso del ponteficie, detta somma fu commutata per la celebrazione di due messe quotidiane legate ai benefici Ecclesiastici fondati nel testamento del Fais, i cui beneficiati erano il sacerdote Gregorio Medda Cossu e il chierico Antonio Effisio Carta, figlio della stessa Francesca Satta; la Comunità si dichiarò disposta ad acquisire la casa, con l’intenzione di cederla in enfiteusi, e si assunse gli oneri della lite fra la vedova Carta Satta e gli eredi dell’avvocato Massa, nonché gli oneri dei due benefici ecclesiastici; “la casa (2336) è composta da 3 piani compreso il terreno, nella strada di San Leonardo ossia di Sant’Agostino intra muros, confinante dirimpetto a casa degli eredi del fu negoziante Filippo Pinna (2667) strada in mezzo, alle spalle a cucina ed orto dei RR PP Agostini (2321), da un lato a casa degli eredi del negoziante Paolo Pinna (2337), e d’altro lato a casa di detti RR.PP Agostini (2335)”.

Un documento rintracciato nell’Archivio di Sant’Eulalia riferisce di un accordo del 20.11.1810 fra la chiesa di Sant’Eulalia, gli eredi Massa, e gli eredi del conciatore Antonio Fais; furono presenti alla firma il dottor Francesco Angelo Aitelli amministratore di Sant’Eulalia, l’avvocato Antonio, Salvatore e Modesta fratelli Massa Murroni, il causidico Francesco Garau come curatore dell'assente Carlo Massa Murroni, la vedova Francesca e Raffaela sorelle Satta, e questa col consenso del marito notaio Gioacchino Mariano Moreno, il reverendo Efisio, l’avvocato Antonio e Grazia Carta Satta, figli di Francesca Satta.

Un altro documento dell’Archivio di Sant’Eulalia riferisce invece di contrasti sorti nell’aprile del 1816 fra Francesca Satta vedova Carta e la Comunità, relativamente alle spese da sostenere per la manutenzione e per il pagamento del “Regio Donativo” dell'eredità del fu mastro Antonio Fais. In particolare i contrasti riguardavano le riparazioni della casa Fais in contrada S.Agostino e il mantenimento di due benefici fondati dal Fais, uno a favore del Reverendo Gregorio Medda Cossu, l'altro del Reverendo Efisio Carta Satta.

A metà ‘800 la casa 2336 apparteneva ancora alla Comunità di Sant’Eulalia. 



[1] Si tratta dell’avvocato Antonio Massa Murroni, coinvolto nella “congiura di Palabanda”; arrestato la notte del 05.11.1812, nel 1813 fu condannato al carcere a vita e rinchiuso nella prigione dell’isola La Maddalena; fu graziato nel luglio 1830 e tornò a Cagliari, dove morì il 19.10.1836, sepolto nel nuovissimo cimitero di Bonaria. 

 

2337

Era una proprietà del negoziante Paolo Pinna, figlio di Gio Filippo; la prima notizia si ha da un atto notarile del 10.01.1792, quando il Pinna ottenne 3000 scudi a “censo onerativo” da don Francesco Magliano marchese di Santa Maria, e ipotecò alcuni suoi beni: una vasta proprietà in località San Bartolomeo e Vergine di Lluc, la casa di abitazione nella strada Tagliolas, la casa di due piani nella strada di Sant’Agostino; quest’ultima confinava davanti con una casa del fu conte Pietro Touffani (2666), di lato con una casa che era appartenuta al fu mastro Antonio Fais (2336), dall’altro lato con la casa del bottegaio Ignazio Uda (2338), alle spalle col giardino dei Padri Agostiniani (2321).

Dopo circa due mesi, alle 4 della sera del 19 marzo, Paolo Pinna morì a circa 52 anni nella sua casa della calle de las Tallolas, lasciando l’unico figlio Raimondo di 12 anni; era vedovo di donna Josepha Melis Guirisy di Sedilo e nel suo testamento del 10 marzo aveva nominato curatore dell’eredità, spettante al figlio, il negoziante Giovanni Battista Gastaldi; nell’inventario dei suoi beni, compilato dal notaio Alessandro Alciator a partire dal 21 marzo, è compresa la “casa ensostrada con llano terreno que forma almazen y corral, y un alto con dos aposentos, en la calle de San Agustin”, confinante davanti con casa della nobile donna Barbara Touffany (2666), da un lato con la casa del notaio Luis Carta (2336), dall’altro lato con casa dei figli del “tendero” Ignazio Uda (2338), di spalle col giardino dei padri Agostiniani (2321); il Pinna l’aveva comprata il 22.10.1775 dalle sorelle Rosa e Angela Pellegrino Loddo, per 800 scudi, cioè 2000 lire, di cui 400 scudi dati in contanti, altri 400 con censo la cui pensione veniva pagata al monastero di Santa Chiara; nel 1792 venne stimata lire 1826, soldi 15, denari 4.

In atto del marzo 1797, relativo alla casa 2338, è citata una divisione ereditaria del 1769: in quell’anno la casa confinante 2337 apparteneva a Giuseppa Loddo, e prima ancora era di suo fratello reverendo Antonio Loddo: Giuseppa Loddo, coniugata con Francesco Antonio Pellegrino, era la madre di Rosa e Angela Pellegrino Loddo, dalle quali Paolo Pinna aveva acquistato la casa.

Giovanni Battista Gastaldi, curatore del minore Raimondo Pinna, il 10.07.1799 presentò il donativo per i beni del suo assistito: fra questi c’era anche la casa in contrada di Sant’Agostino, di 2 piani compreso il terreno, di 4 stanze, affittata per lire 117 e 10 soldi.

Nel dicembre 1805, Raimondo Pinna, ormai venticinquenne, sottotenente delle Regie armate e Guardia del corpo di Sua Maestà, si trovava in precarie condizioni finanziarie: tutti i suoi beni paterni erano ipotecati, doveva pagare alcune pensioni annue per un totale di 174 scudi, c’erano diverse pensioni scadute, e aveva un debito considerevole verso il negoziante Giovanni Battista Gastaldi, già suo curatore; per evitare di compromettere anche i beni materni, ed evitare il sequestro, si risolse di vendere tutti i beni paterni; non trovò però nessuno pronto a farsi carico delle due case e della proprietà di San Bartolomeo, oberate dalle ipoteche; si rivolse allora al Gastaldi che, in data 06.07.1806, comprò tutti i beni del Pinna, provenienti dall’eredità paterna, per lire 24788, soldi 15, denari 3; sottratti però i debiti e i capitali necessari per estinguere i censi cui erano soggetti i beni, Gastaldi consegnò a Raimondo Pinna solamente lire 1250.

Pochi giorni dopo, il 21 dello stesso mese di luglio, Giovanni Battista Gastaldi rivendette la casa della strada di Sant’Agostino a Domenico Franco Regio Intagliatore di Marmo e Professore d’architettura civile; la casa è descritta di un pian alto e uno terreno, vennero confermati i confini già descritti in precedenza. L’ultima rata a saldo di quanto pattuito fu pagata dal Franco il 12.07.1812, secondo gli accordi presi sei anni prima.

Con atto del notaio Nicola Antonio Catte, del 21.12.1809, Domenico Franco ottenne in enfiteusi perpetua dai Padri Agostiniani una stanza situata dietro la sua casa, confinante col convento e con un frutteto del convento, adiacente ad un giardino che Franco aveva già in enfiteusi dagli stessi Padri Agostiniani; la stanza, valutata in lire 468 e 15 soldi, sarebbe stata usata come cucina; Franco avrebbe pagato un canone annuo di 12 scudi.

Con atto notarile del 17.02.1813 il Regio Architetto Domenico Franco ottenne in prestito 500 scudi dal collegio di San Giuseppe delle Scuole Pie; per garantire la restituzione del capitale e il pagamento della pensione annua di 30 scudi (al 6%), ipotecò la casa della strada di Sant’Agostino; la somma gli occorreva per la riedificazione della casa stessa, che “minacciava rovina”, e per la formazione di un altro piano.

Non si sa per quali vie, a metà ‘800 la casa 2337 apparteneva al professor Vincenzo Angius (San Gavino Monreale 1799-Cagliari 1875), la cui moglie, dal 1831, era Francesca Gastaldi (1812-1879), figlia di Francesco, figlio di Giovanni Battista.

 

 

2338     
Dall’atto del 10.01.1792, già citato per la casa Pinna, risulta che la casa confinante 2338 appartenesse al bottegaio Ignazio Uda; nell’inventario dei beni di Paolo Pinna, del 21.03.1792, è scritto che la casa (2338) apparteneva ai figli di Ignazio Uda; un altro atto notarile del 27 febbraio dello stesso anno, permette di conoscere in dettaglio la storia di questa casa: il fu mastro conciatore Antonio Azeni di Cagliari nel suo ultimo testamento del 30.11.1751, istituì eredi universali le sue tre figlie Maria Giuseppa, Antonia, e Rosa Azeni, con l’obbligo di pagare ogni anno scudi 10 al convento di S.Agostino intra muros, per la celebrazione in perpetuo della festa da lui fondata in onore di S.Nicolò da Tolentino, avendo legato a tale obbligo tutti i suoi beni stabili; questi consistevano in 3 case che, dopo la sua morte, passarono alle 3 figlie, una a ciascuna; le figlie pagarono sempre i 10 scudi annui al convento, e dopo di loro pagarono anche i loro successori, cioè Anna e Maria Rosa Melis Azeni, figlie di Maria Giuseppa, e Raffaele, Efisio Antonio, Angela, Giuseppa, Raffaela, e Raimonda fratelli e sorelle Uda Azeni, figli di Rosa, e la Comunità di S.Eulalia a cui la nubile Antonia Azeni lasciò la sua casa col testamento pubblicato il 01.12.1767.

Nel 1792 tutti i possessori delle tre case decisero di liberarsi di quell’obbligo, e consegnarono al convento di Sant’Agostino 200 scudi il cui frutto di 10 scudi annui era equivalente all’obbligo stabilito da Antonio Atzeni nel 1751.

Nel 1745 Ignazio Uda, figlio di Battista e Giuliana Cauli, sposò Rosa Atzeni, figlia di Antonio e Anna Tatty; ebbero molti figli, nati fra il 1746 e il 1762; Rosa morì nel 1778, mentre non si conosce la data di morte del marito Ignazio Uda. La casa ereditata da Rosa Atzeni era proprio quella della strada Sant’Agostino, numero catastale 2338.

Con atto del 28.03.1797 la signora Raffaela Uda, col consenso del marito negoziante Giuseppe Chessa, vendette al fratello Raffaele per scudi 182, reali 1, denari 8, la sua porzione della casa della strada di Sant’Agostino; nell’atto è specificato che la casa era quella ereditata dalla madre Rosa Azzeni, che a sua volta l’aveva ereditata dal padre Antonio, confinante da una parte con casa di Giuseppa Loddo (2337), dall’altra parte con casa del negoziante Francesco Novaro (2339), davanti con casa del Capitolo (2664), e di spalle col giardino dei RR.PP. Agostiniani (2321); i confini specificati erano però antichi e superati, potrebbero risalire al 1769, ripresi dalla divisione ereditaria fra le sorelle Atzeni: infatti la casa di Giuseppa Loddo era stata nel frattempo ereditata dalle figlie Pellegrino Loddo, venduta a Paolo Pinna nel 1775, e appena ereditata da suo figlio Raimondo.

In data 23.01.1804 Raffaele Uda caricò un censo di 300 scudi sulla sua casa della strada di Sant’Agostino per poter fare dei lavori in una proprietà della strada San Mauro in Villanova; la somma fu ottenuta dalla comunità dei Padri Minimi di San Francesco, che avrebbero avuto gli interessi al 6%; la casa della Marina era una proprietà del solo Raffaele, come da atto notarile di ricevuta e definizione del 05.01.1803, firmato dai fratelli Uda a favore del fratello Raffaele; quest’ultimo si era occupato di ristrutturare e rendere abitabile l’ultimo piano della casa.

L’atto del 1806 col quale Domenico Franco acquistò la casa 2337 cita ancora una volta Ignazio Uda come proprietario della casa, ma in realtà apparteneva ai figli, o meglio al solo negoziante Raffaele, che infatti ne risulta proprietario alla sua morte, nel 1824; l’unica sua erede è la figlia Ignazia Uda, nubile di 23 anni; la madre Rosa Rossetti era morta da diversi anni e Raffaele si era risposato nel 1804 con Antonia Arthemalle. La casa della strada di Sant’Agostino, nel novembre del 1824, subì un sequestro a causa di un debito di Raffaele Uda verso l’eredità Barbetta; il 12.05.1826, nella causa degli eredi Barbetta contro il defunto Raffaele Uda, testimoniò il conciatore Giovanni Manca del fu Michele, nato e domiciliato in Cagliari, di circa anni 60; egli era ammogliato con Antonia Arthemalle, vedova di Raffaele Uda, ed era curatore di Ignazia Uda (1801-1880), figlia dei defunti Raffaele Uda e Rosa Rossetti. Non si sa se Ignazia Uda riuscì a conservare la casa, una volta pagato il debito. 

A metà ‘800 apparteneva al conciatore Giuseppe Manca; non sono noti eventuali (forse probabili) legami di parentela con Ignazia Uda, né col suo patrigno e tutore Giovanni Manca. Ignazia Uda, vedova dell’orefice Ignazio Campurra, morì nel 1880 in via San Giorgio.

 

2339

Il primo documento che è stato rintracciato, contenente riferimenti a questa casa, è l’atto notarile del 28.03.1797 con cui Raffaela Uda cedette la sua porzione della casa 2338 al fratello Raffaele: le case confinanti erano la casa Loddo 2337 e la casa di Francesco Novaro 2339 che prima era di Antioco Piu; come si è già detto nel paragrafo precedente, sembra però che i dati riportati si riferiscano al 1769, data della divisione ereditaria fra le sorelle Atzeni.

Francesco Novaro morì il 07.09.1803; sua moglie Chiara Belgrano era già defunta, l’eredità spettava interamente ai loro figli; con atto del notaio Sisinnio Antonio Vacca del 05.04.1805 venne pertanto eseguita la divisione in 7 quote delle ricche eredità dei defunti coniugi Novaro Belgrano; gli eredi erano i seguenti:

  - donna Anna Novaro coniugata col console imperiale don Gregorio De Cesaroni;

  - donna Francesca Novaro coniugata con l’avvocato don Giambattista Serralutzu, aggiunto alla Regia Segreteria di Stato e di Guerra;

   - il capitano del Reggimento Sardegna Michele Novaro;

   - il capitano del Reggimento Sardegna Camillo Novaro;

   - donna Maddalena Novaro coniugata con l’avvocato don Giuseppe Angelo Viale;

  - Anna Maria Lezani vedova dell’avvocato Luigi Novaro, la quale agiva come tutrice e curatrice di Francesco Maria e Luigi Novaro,

     suoi figli "impuberi"; 

  - Giuseppe Novaro che agiva per se stesso e come co-curatore dei nipoti impuberi figli del suo defunto fratello Luigi Novaro.

La casa della strada Sant’Agostino, valutata lire 7068, soldi 2 e denari 6, insieme ad altri beni immobili, oggetti d’oro e d’argento e contanti, fu destinata a donna Francesca Serralutzu nata Novaro. In realtà apparteneva a donna Francesca già dal 15.04.1795, quando le fu assegnata in dote dai genitori, assieme agli effetti d’oro e d’argento; con la divisione ereditaria del 1805 fu ribadita l’assegnazione.

Nel 1806 la casa fu ipotecata in occasione di un accordo fra i fratelli e le sorelle Novaro e lo zio Felice Ranucci, ex-console di Genova[1]; era chiamata casa di Vamberti (Mamberti?), nome di un precedente proprietario.

Non sono state rintracciate altre informazioni, a parte il fatto che a metà ‘800 la casa 2339 apparteneva, come le case confinanti 2338 e 2340, al conciatore Giuseppe Manca; si veda la casa 2340 per un’ulteriore ipotesi di proprietà.



[1] si veda il paragrafo relativo alla casa 2969 per maggiori dettagli sull’accordo fra i fratelli Novaro e lo zio Felice Ranucci

 

 

 2340     

Anche per questa unità catastale le informazioni sono davvero scarne: da un atto notarile del 26.03.1797, relativo al magazzino numero 2289 posto sull’altro lato della strada di Sant’Agostino Vecchio, spesso chiamata in questo punto strada Pabillonis, risulta che la casa 2340 appartenesse, come la precedente, a Francesco Novaro; a metà ‘800, così come le due case precedenti, apparteneva al conciatore Giuseppe Manca.

Un’ipotesi, che finora è però poco suffragata dai documenti, è che la casa 2340 (insieme alla casa 2339) corrisponda a una casa grande riedificata dal conciatore Francesco Manca, su cui gravava una proprietà di 700 scudi di Giambattista Serralutzu; l’ipotesi si basa unicamente su una nota rintracciata fra le carte dei donativi, priva di data e senza nessun altro riferimento.

Un dato importante è che Giambattista Serralutzu era genero di Francesco Novaro; inoltre un Francesco Manca pagava 75 lire annue su una casa avuta in enfiteusi dal convento di S.Agostino; per cui, anche se le informazioni sono insufficienti, si può ipotizzare che Francesco Novaro possedesse le due case 2339 e 2340, in enfiteusi dal convento; dopo la sua morte (avvenuta prima del 1808), le case furono ereditate dalla figlia Maria Francesca, che nel 1795 aveva sposato Giambattista Serralutzu; questi cedette le due case a Francesco Manca, tenendosi però la proprietà di 700 scudi, su cui il Manca pagava gli interessi, dovendo pagare anche il canone enfiteutico al convento di Sant’Agostino.

La proprietà (enfiteutica) Manca è confermata da un atto notarile del giugno 1813, relativo ai magazzini dell’unità catastale 2341, che confinavano con casa di Francesco Manca. Quest’ultimo potrebbe essere un figlio del conciatore Giuseppe Manca e di Pasquala DeMelas, nato nel 1758, sposato con Caterina Licciardi; i coniugi Manca Licciardi ebbero un figlio chiamato Giuseppe, nato nel 1780, e quest’ultimo potrebbe quindi essere il proprietario di metà ‘800.

 

2341     

Da atti notarili del 1797 e del 1798, relativi alla casa 2286, risulta che l’unità catastale 2341 facesse parte dell’eredità del defunto marchese di Sedilo, cioè Giovanni Maria Solinas, ed era un immobile destinato a magazzino, come molti altri della strada di Sant’Agostino Vecchio (o strada Pabillonis).

Un atto notarile del 07.04.1813 chiarisce la situazione: don Gio Maria Solinas morì nel 1780, il suo testamento fu aperto e pubblicato dal notaio Gioachino Efisio Aru il 3 maggio di quell’anno; per volontà testamentaria, il Capitolo Cagliaritano e la Comunità della Primaziale ebbero la proprietà dei beni del marchese; ma, per debiti e insolvenze del Solinas, da molti anni la magistratura aveva deciso il sequestro delle sue proprietà, i cui conti e amministrazione erano tenuti dal 1767 dall’avvocato don Bartolomeo Simon di Alghero, Suddelegato Patrimoniale dell’intendenza Generale. Simon tenne l’amministrazione fino al 1788; in quella data presentò i conti e chiese di essere rimborsato per le sue spese e per i crediti che vantava sull’eredità, superiori alle 23000 lire.

Ebbe così inizio una causa fra il Simon ed il Capitolo, che era il maggior creditore dell’eredità, ma solo nel 1813 si trovò un accordo; il Capitolo cedette a don Bartolomeo Simon due magazzini nella strada di Porta Sant’Agostino, e altri censi da pagare con varie modalità; i due magazzini facevano parte dell’unità 2341.

Con atto notarile del 09.06.1813 don Bartolomeo Simon cedette i due magazzini al cavalier don Onorato Cortese; nell’atto è specificato che si trattava degli stessi magazzini provenienti dall’eredità Sedilo, e Simon li vendette per la stessa cifra per cui erano stati stimati con l’accordo del mese di aprile, cioè lire 10000; è curiosa la modalità di pagamento da parte del Cortese: egli consegnò al Simon330 cappotti Napoletani per lire 10 cadauno, 480 tavoloni di Trieste a lire 3 e soldi 15 cadauno, 49 dozzine di berrette di Napoli a lire 10 la dozzina, lire 942 e soldi 9 esatte dai signori Picinelli e Rossi di Alghero, lire 157 e soldi 11 pagate in moneta, e lire 1750 in una cambiale di Bartolomeo Massa e compagni di Genova, totale lire 8450”; rimasero lire 1550 che sarebbero state pagate in seguito; il conto è quasi esatto, dal totale dichiarato di lire 8450 mancano in realtà lire 10, o errore di trascrizione o errore di calcolo.

Nell’atto è anche specificato che un magazzino era affittato al negoziante Carlo Thorel, l’altro al conte Michele Ciarella.

Due altri atti notarili dell’agosto 1813, relativi al magazzino 2342, confermano la confinante proprietà Cortese.

A metà ‘800 l’unità 2341 apparteneva al maggiore in ritiro Francesco Novaro (1796-1870), che aveva sposato nel 1833 Francesca Cortese, figlia di Onorato.

 

2342

Da tre atti notarili, rispettivamente del 16.12.1799, del 29.09.1800 e del 10.01.1809, tutti relativi all’unità catastale 2343, la casa 2342 risulta essere un magazzino di proprietà del monastero di Santa Chiara.

Dopo averlo fatto stimare il 23 agosto 1813, il 30 agosto le Monache di Santa Chiara concessero in enfiteusi perpetua al conte don Michele Ciarella il magazzino sito nella Marina in vicinanza alla porta di Sant’Agostino; confinava da un lato col magazzino di Salvatore Melis (2343), dall’altro lato con altro magazzino di don Onorato Cortese (2341), di spalle col giardino del Convento di Sant’Agostino (2321); il monastero l’aveva acquistato dall’eredità Catalan in data non precisata; fu valutato lire 2617, soldi 16, denari 5, ed aveva urgente bisogno di un restauro per impedirne la rovina, con una stima di spesa di altre 1000 lire.

A metà ‘800 apparteneva al negoziante e console Luigi Rogier (1805-1862), originario di Parigi.

 

2343

Faceva parte dei beni che il conciatore mastro Antonio Fais aveva lasciato nel 1780 all’Arciconfraternita di Santa Lucia, che restò proprietaria fino al 1799: nel donativo di quell’anno dell’Arciconfraternita è compreso un magazzino grande composto da 2 piani (e piano terreno) con cisterna esterna, presso la porta di S.Agostino, affittato per scudi 92.

L’eredità del Fais era però legata a due benefici ecclesiastici, destinati uno al figlio di suo nipote notaio Francesco Medda Pani, l’altro al figlio che sarebbe nato alla sua nipote Francesca Satta, cioè Gregorio Medda Cossu ed Effis Carta Satta; i guardiani dell’Arciconfraternita per molti anni trascurarono di fondare i benefici, e furono perciò richiamati dall’Arcivescovo di Cagliari, per l'intervento del quale in data 16.12.1799 i guardiani di Santa Lucia (il dottore in diritto Luis Corda Floris, il negoziante Joseph Vivenet, ed Effis Montelion) rinunciarono ai diritti dell’Arciconfraternita su 5 immobili lasciati dal Fais e li cedettero alla Comunità di Sant’Eulalia, la quale si sarebbe onerata dei benefici stabiliti da Antonio Fais nel suo testamento; uno degli immobili era il magazzino di 3 piani sito nella Marina e strada di S.Agustin extra muros[1], identificato con l’unità catastale 2343, gravato da un censo di 500 scudi e pensione annua di 25 scudi da corrispondere ai padri della Scuole Pie di S.Giuseppe, e censo di 40 scudi con pensione annua di 2 scudi da pagare ai padri delle Scuole Pie dell’Annunziata; in quel periodo non era utilizzato, e confinava da una parte con magazzino di don Juan Bauptista Massa (2344), dall’altra con magazzino del monastero di S.Chiara (2342), alle spalle col giardino del convento di S.Agostino intra muros (2321).

Con atto del notaio Gioachino Moreno del 29.09.1800 la Comunità di Sant’Eulalia vendette “un almazen compuesto de dos altos y sottano con su sisterna, puesto en la Marina y calle de S.Agustin extra muros” al negoziante Salvatore Melis, per £ 4900; detto magazzino, che faceva parte della eredità Fais, con gli stessi confini dichiarati nell’atto precedente, apparteneva ad Antonio Fais dal 11.02.1775; i precedenti proprietari erano i fratelli cavalieri Atzori.

Il Melis versò solo parte del prezzo pattuito, riservandosi di pagare in alcuni anni lire 3500; saldò il suo debito, capitale e interessi, il 07.01.1806.

Il magazzino 2343 appartenne per diversi anni a Salvatore Melis: egli, con atto del notaio Giacomo Sini del 10.01.1809, lo ipotecò per garantire la somma di lire 1500 che gli erano state consegnate dalla monaca Maria Antonia Puddu, suora del Monastero della Purissima Concezione; avrebbe pagato annualmente gli interessi al 6%, cioè 90 lire; nel 1812 il Melis fu citato in giudizio dal convento di Sant’Agostino, a causa di lavori di sopraelevazione che stava effettuando sulla sua casa, limitrofa alla muraglia del convento; i lavori avrebbero ostruito 3 finestre del convento, e venne nell’occasione dichiarato che il convento era stato costruito a spese del Re di Spagna nel 1564 e non era stato mai “molestato”; anche nell’atto del 30.08.1813 relativo alla concessione in enfiteusi della casa 2342, la casa confinante 2343 risulta appartenere a Salvatore Melis; in realtà, con atto notarile del 26.04.1813, Salvatore Melis aveva donato la casa al figlio Gerolamo, che s’era appena coniugato con Efisia Visca; nell’atto di donazione è specificato che Salvatore aveva di recente rifabbricato la casa, composta da 3 piani ed attigua al convento dei padri Agostiniani.

Gerolamo Melis, architetto, restò vedovo pochi anni dopo e si risposò nel 1817 con Antonia Visca, sorella di Efisia; Antonia morì nel 1825 e Gerolamo si sposò per la terza volta, nel 1829, con Grazia Romagnino; dal terzo matrimonio nacque Enrico Melis Romagnino, noto architetto, e da Enrico (1834-1922), coniugato con Annunziata Marini, nacque Felice Melis Marini (1871-1953).

A metà ‘800 la casa 2343 apparteneva invece a Gaetano Marini, figlio di Salvatore, che vi teneva una “fabbrica di bordati”; da notare che Gaetano Marini era fratello di Efisio, padre di Annunziata Marini, moglie di Enrico Melis. 



[1] cioè quel tratto dell’attuale via Sardegna che portava verso la chiesa di Sant’Agostino vecchio extra muros

 

2344

Dall’atto del 16.12.1799 citato nel precedente paragrafo, relativo alla casa Fais 2343, risulta che la casa 2344 fosse un magazzino appartenente a don Giovanni Battista Massa; la stessa informazione è fornita dall’atto del 29.08.1800 con cui il magazzino 2343 venne ceduto a Salvatore Melis e da atto del 10.01.1809 anch’esso relativo all’unità 2343.

Negli anni '50 del XIX secolo risulta che appartenesse ai fratelli Giuseppe, Raimondo (1848-1892) e Maria Cima, figli del fu Natale Cima (svizzero, morto il 29.11.1851 all’età di anni 40), dal quale probabilmente l’avevano ereditato.

 

2345     

Almeno dal 1792 era un magazzino appartenente al baccelliere Giuseppe Maria Pintor; è quanto risulta da un atto notarile del 01.11.1792, relativo alla casa 2281, sull’altro lato della strada; si ha una conferma da altri due atti notarili del 22.05.1797 e del 21.03.1803, relativi alla casa 2347, che era contigua al “almasen del Bachiller Joseph Maria Pintor”.

Nel donativo (non datato) del Convento del Carmine, è scritto che il baccelliere Giuseppe Maria Pintor pagava una somma al convento per il “frutto compensativo” di un magazzino posto presso la porta di Sant’Agostino.

A metà ‘800 apparteneva a Giovanni Marcello del fu Salvatore, ed era una “casa uso magazzino per granaglie”.

 

2346     

Non si ha nessuna notizia su questa unità catastale, che non è citata negli atti relativi alle case confinanti, in particolare da quelli della casa 2347; per questo motivo è possibile che sia stata costruita in un momento successivo rispetto a quest’ultima, oppure che all’origine facesse parte della stessa casa 2347.

A metà ‘800 apparteneva al conciatore Giuseppe Manca, così come la stessa casa 2347.

 

2347     

In data 18.11.1788 il mastro Antonio Mulas ottenne in concessione enfiteutica un sito all’interno della fortificazione, sotto la Cortina della Porta di S.Agostino, per £ 20 e canone annuo di £ 16 e 5 soldi; il Mulas intendeva costruire una bottega “a man dritta della Porta” per trabucchi 3 piedi 1 e once 6 di lunghezza, e trabucchi 2 di larghezza, superficie 6 trabucchi e piedi 3; il “sito” è identificato con l’area catastale 2347, sulla destra della porta di Sant’Agostino; in data 22.05.1797 venne aperto il testamento del mastro carpentiere Antonio Mulas di Cagliari, figlio del fu Juan, su richiesta della vedova Pepica Urru, figlia del vivente Gregorio, nata e domiciliata in Cagliari; il testamento era stato consegnato al notaio il 16 aprile dello stesso anno nella casa contigua alla porta e muraglia di S.Agostino; i coniugi Mulas Urru non avevano figli, e la moglie era curatrice dell’eredità ed erede principale; la metà della casa di abitazione fu però lasciata alla madre del Mulas, la vedova Miguela Pitzalis, domiciliata in Cagliari ma naturale di Nurri.

Nel mese di giugno venne compilato l’inventario dell’eredità, nel quale era compresa la casa sita nella Marina, appoggiata alla porta e muraglia di Sant’Agostino, frontale alla casa nuova edificata dal conciatore Pasquale Boi (2281), contigua da un lato al magazzino del baccelliere Joseph Maria Pintor (2345); la casa fu avvalorata il 30 giugno dal carpentiere Angelo Cardu e dal muratore Sebastiano Puddu, che la visitarono insieme al notaio Francesco Demontis; comprendeva 3 stanze terrene e una piccola stanza sotto il tetto.

In data 23.03.1803 il mastro muratore Sebastiano Puddu e il mastro carpentiere Salvatore Pau eseguirono un altro estimo della casa, ancora di proprietà di Giuseppa Urru, la quale nel frattempo si era risposata con Bernardo Marcanu; uno dei periti era stato nominato dal conciatore e negoziante Pasquale Boy, proprietario della casa frontale 2281, probabilmente interessato all’acquisto (non si sa se l’affare sia poi stato concluso); il secondo perito era stato nominato dai coniugi Marcanu-Urru, unitamente ai coniugi Francesco Mereu e Anna Cordiglia; non si sa che titolo e che interesse avessero gli ultimi sulla casa: è possibile che avessero ereditato o acquistato la parte che il mastro Antonio Mulas aveva lasciato a sua madre Miguela Pitzalis; i due periti stimarono la casa per £ 2276, soldi 10, denari 11.

A metà ‘800 apparteneva al conciatore Giuseppe Manca, così come la confinante casa 2346.