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Isolato M1: Costa/discesa di Santa Teresa/discesa del Portico di Santa Rosalia/Santa Rosalia

(via Manno, scalette Santa Teresa, via Principe Amedeo, via Torino)

numeri catastali da 2728 a 2766

le bombe del 1943 hanno causato parecchi danni nelle case dell’isolato: fra gli edifici distrutti e sostituiti c’è la chiesa di Santa Caterina dei Genovesi; nuovi edifici si vedono anche nella via Principe Amedeo e nelle scale di Santa Teresa.

 

2728

In data 26.01.1792 il Collegio delle Scuole Pie di S.Giuseppe di Cagliari concesse in enfiteusi al genovese dottore in diritto Nicolò Pittaluga (o Piccaluga) la casa con due facciate, una sulla strada della Costa e l’altra sulla discesa che portava al Regio Stanco del tabacco [1], che aveva alle spalle e di lato la casa del defunto Luis Belgrano (2729); veniva chiamata casa di Tregona (o Trigona), probabilmente dal nome di un antico proprietario, e vi abitava in quel periodo il negoziante Eligio Allemand; era composta da due piani alti, una bottega e un “sòttano”; l’entrata era sulla strada della Costa.

La casa concessa in enfiteusi dai padri Scolopi era però solo una parte della casa Trigona; con atto notarile del 28.09.1793 lo stesso Pittaluga ebbe in concessione enfiteutica anche l’altra parte dello stabile, posseduta dall’Arciconfraternita del Sepolcro.

Nel settembre 1799 morì in questa casa Anna Mameli, vedova del negoziante Gottardo Garibaldo, la quale viveva col nipote (del marito) avvocato Nicolò Piccaluga, suo erede universale.

Nel suo donativo del 22.06.1799 il dottor Nicola (chiamato anche Nicola Antonio o Nicolò) Piccaluga dichiarò la sua abitazione della strada della Costa, laterale alla scale di Santa Teresa, composta da 2 piani con 7 stanze in tutto, una bottega e 3 piccoli locali terreni; pagava ai Padri Scolopi l’annuo canone di lire 150 e all’Arciconfraternita del Sepolcro l’annuo canone di lire 112 e 10 soldi; nel donativo del 1807 del Collegio di San Giuseppe viene confermato il pagamento di lire 150 da parte dell’avvocato Nicolò Pittaluga per una porzione della casa, mentre l’altra porzione della stessa casa apparteneva all’Arciconfraternita del Sepolcro.

Nel 1809 il Piccaluga era in debito verso il Collegio delle Scuole Pie di due pensioni annue, per lire 300, relative all’enfiteusi della casa Trigona, e aveva avuto in prestito 20 scudi (50 lire) dal Reverendo ex provinciale Luigi Emanuele Dela Vallè; inoltre il 13 luglio avrebbe dovuto pagare un’altra annualità; per far fronte al suo debito, con atto del notaio Demetrio Satta del 28.05.1809, cedette al Collegio 3 proprietà censuarie per il totale di scudi 200 (500 lire); si trattave di 3 censi caricati su una casa di Villanova e strada is Argiolas (via Garibaldi), un tempo della vedova Manca e in quell’anno del notaio Francesco Soro.

Il Piccaluga abitava ancora nella casa nel 1812, e continuava a pagare le pensioni enfiteutiche all’Arciconfraternita del Sepolcro e ai padri Scolopi: ciò risulta da un atto notarile del gennaio 1812, vendita della casa 2354, nella quale il venditore avvocato Piccaluga dichiarò di essere in difficolà finanziarie e di avere alcune pensioni arretrate; grazie alla vendita della casa 2354 il Piccaluga poté sanare i debiti ed avviare dei lavori di miglioramento nella sua casa di abitazione 2728: in data 14.04.1812 firmò un contratto col muratore Francesco Mura (o Murru), per eseguire degli importanti lavori per 800 scudi, nel rispetto del contratto enfiteutico con l’Arciconfraternita del Sepolcro e con i padri Scolopi; con atto del notaio Giuseppe Isola del 13.07.1812, furono consegnate lire 2000 (cioè 800 scudi) al muratore Mura (o Murru), e con atto Isola del 20.10.1812 gli vennero consegnate altre lire 666, 13 soldi 2 4 denari, denaro che venne pagato dalla Congregazione del Santissimo Sacramento come saldo del prezzo pattuito per la vendita della casa 2354.

Nicolò Piccaluga morì nel 1819; la moglie Luisa Arthemalle, figlia del negoziante Agostino, morì nel 1847.

Dai dati catastali di metà ‘800 l’unico proprietario di questa casa risulta il Collegio di San Giuseppe.


[1] La discesa del Regio Stanco del tabacco corrisponde alle scalette di Santa Teresa; i locali del Regio Stanco comprendevano i magazzini e gli uffici legati al Monopolio del tabacco, e si trovavano nella case 2762 e 2763

 

2729, 2730, 2765, 2766

Queste 4 unità catastali formavano la proprietà Belgrano: nell’atto notarile del 1792, già citato per l’enfiteusi della casa 2728, la casa 2729, che le stava dietro e di lato, apparteneva al defunto Luis Belgrano, morto nel 1773; in atti del 1796 e 1798 il proprietario della casa 2729 era il dottore in diritto e negoziante Angelo Belgrano (1723-1805) figlio di Luis, e la sua proprietà doveva comprendere anche le piccole case 2765 e 2766 sulla scalinata di Santa Teresa; è citato anche un giardino che doveva confinare con la casa 2764; la casa 2730 nel 1798 era invece una proprietà di Carlo Belgrano (1728-1803), fratello di Angelo, il suo giardino confinava con la casa Paderi 2764 e con la casa Bonorino 2763; nel gennaio 1798 le infiltrazioni provenienti dai giardini delle due case, formati recentemente, crearono notevoli danni alla casa Paderi 2764, più bassa della proprietà Belgrano; con sentenza del tribunale si stabilì che i fratelli dottor Angelo e negoziante Carlo Belgrano avrebbero dovuto pagare agli eredi Paderi la somma di lire 1287 e 10 soldi per i danni e per la mancata rendita della casa 2764, resa inagibile.

Nel donativo del 1799 Angelo Belgrano dichiarò la casa nella strada della Costa, 3 piani e 24 stanze, in parte affittata per lire 115 annue, in parte abitata dal proprietario; avrebbe potuto ricavare per tutta la casa lire 365.

Il 2 maggio del 1803 il negoziante Carlo Belgrano, nella sua casa della contrada della Costa, consegnò a Lucifero Caboni, notaio di Villanova, il suo testamento chiuso con un sigillo di ceralacca con l’impronta di una testa col busto; l’aveva dettato al suo confessore, il Reverendo Prodottore Girolamo Onnis, beneficiato di Sant’Eulalia.

Nel pomeriggio del giorno 8 maggio il notaio Lucifero Caboni fu chiamato in casa del defunto Carlo Belgrano, deceduto fra le 13,30 e le 14,00 dello stesso giorno, dalla vedova Francesca Novaro e dai figli Reverendo Antonio (1773-1818), Giovanni (1772-1826) tenente nel reggimento Reale di Sardegna, e Lorenzo (1776-1844); il corpo era stato sistemato nella camera che guarda verso la contrada di S.Teresa (sembra quindi che Carlo Belgrano abitasse la casa 2729, insieme al fratello Angelo, scapolo). Dopo aver riconosciuto il cadavere, il notaio aprì e lesse il testamento, col quale furono nominati esecutori la vedova e il figlio Antonio, eredi i 3 figli, in parti uguali; per impedire che il tenente Giovanni, per la sua “troppa liberalità” potesse dilapidare il suo denaro, il defunto dispose che la sua parte fosse investita e assicurata dagli esecutori; vennero confermate le donazioni fatte ad Antonio per il suo patrimonio ecclesiastico, e i beni già dati alla figlia Camilla (1770-), monaca del monastero di Santa Caterina, per il suo “parafreno”, cioè la rendita necessaria per mantenersi nel convento.

Con atto del notaio Demetrio Satta del 12.03.1805, la vedova Francesca Novaro e suo figlio negoziante Lorenzo Belgrano, unitamente al socio di quest’ultimo, negoziante Pasquale Ciapella, ottennero in prestito scudi 2000 dal negoziante Francesco Antonio Rossi; madre e figlio ipotecarono la loro parte di casa della strada della Costa (quindi l’unità catastale 2430), mentre Ciapella ipotecò tutti gli attrezzi da lavoro che teneva nelle sue due botteghe; avrebbero pagato a Rossi gli interessi al 6%, cioè 120 scudi annui.

Il testamento di Angelo Belgrano, morto senza eredi diretti, scritto e consegnato al notaio Bardilio Usai il 15.11.1793, fu pubblicato il 04.04.1805, subito dopo la sua morte; l’anno successivo, il giorno 12 aprile 1806, con atto del notaio Nicolò Martini, si arrivò alla divisione dell’eredità col coinvolgimento dei nipoti, alcuni dei quali presenti alla stesura dell’atto notarile, altri rappresentati dai loro procuratori; entrarono nella divisione anche i beni di don Nicolò Belgrano il quale, con testamento del 09.05.1781 aveva nominato usufruttuario di tutti i suoi beni il fratello Angelo; alla morte di Angelo i beni dei due fratelli sarebbero stati divisi come segue: la metà alla sorella Chiara, e un quarto ciascuno ai fratelli Raimondo e Carlo; con esclusione però della casa grande di abitazione e di tutti i mobili, in quanto destinati, con legato testamentario, ai figli del fratello Carlo, cioè il sacerdote Antonio, Giovanni tenente nel Reggimento Sardegna, il negoziante Lorenzo e Camilla monaca professa nel monastero di Santa Caterina da Siena; al momento della morte di Angelo Belgrano erano già defunti i due fratelli e la sorella, perciò i beni furono ereditati, secondo le quote specificate, dai loro figli: per Raimondo dai suoi nipoti Angioi e Cortese; per Chiara dai figli e nipoti Novaro.

In data 29.03.1811 Francesca Novaro, vedova di Carlo Belgrano, dettò al notaio Giuseppe Isola il suo testamento; la donna abitava nella casa della strada della Costa (2730), che lasciò al figlio Antonio, sacerdote di Sant’Eulalia, nominato esecutore testamentario; nella casa confinante, dove aveva abitato fino al 1805 suo cognato dottor Angelo Belgrano, nel 1811 abitavano (e ne erano proprietari) i figli di Carlo Belgrano e di Francesca Novaro, cioè lo stesso sacerdote Antonio ed i suoi fratelli negoziante Lorenzo e tenente Giovanni.

Antonio e Lorenzo furono nominati dalla madre suoi eredi universali; la figlia Camilla, suora di Santa Caterina, ebbe dei legati per il suo mantenimento nel convento, mentre il figlio più grande Giovanni, tenente dei granatieri, rimase erede solo per la parte legittima, “nonostante tutte le ingratitudini e oltraggi ricevuti da lui”.

Non è nota la data di morte di Francesca Novaro; Antonio, il figlio sacerdote, morì nel 1818, e la casa 2730 divenne una proprietà di Lorenzo: egli morì nel 1844 e, nel suo testamento del 1835, dichiarò di abitare nella strada della Costa; le sue eredi erano le figlie Camilla (1815-1897) e Carolina (1819-) Belgrano; nel 1847 ci fu una contesa giudiziaria fra il tenente Ignazio Mereu, marito dal 1843 di Carolina Belgrano, e il vicino di casa negoziante Giacomo Saggiante, a causa della sopraelevazione fatta dal Saggiante nella casa 2731; la casa Belgrano 2730 era affittata in quell’anno al “chincagliere” Bertoglio [1].

Dai dati catastali successivi al 1850 risulta che il proprietario della casa 2729 fosse il negoziante Pietro Marini (1812-1875) che vi aveva casa e bottega, ed era coniugato con Camilla Belgrano, figlia di Lorenzo; sempre dopo il 1850 la proprietaria delle case 2730 e 2765 era invece Carolina Belgrano, coniugata Mereu, sorella di Camilla, mentre la casa 2766 apparteneva a Francesca Novaro (1764-1853) vedova Serralutzu, figlia di Francesco Maria Novaro e di Chiara Belgrano, quest’ultima sorella di Angelo e di Carlo Belgrano.

Una correzione sul registro catastale, databile circa 1854, assegna la proprietà della casa 2766, già di Francesca Novaro, a Caterina Cao di San Marco: si tratta di Caterina Serralutzu (1798-1874), figlia di Giovanni Battista Serralutzu e di Francesca Novaro (1764-1853), coniugata nel 1818 con Efisio Cao conte di San Marco (-1869).

La casa 2765 non esiste più, sostituita da un edificio arretrato rispetto alla vecchia linea, e che comprende anche le case laterali, al di sotto delle scale; la casa 2766 esiste ancora, in precarie condizioni e con i piani alti diroccati.



[1] Si tratta probabilmente del negoziante Raimondo Bertoglio, nato a Corciago (frazione di Nebbiuno, in provincia di Novara), morto in una casa di via Barcellona nel 1881, all’età di 93 anni.

 

2731     

Nell’aprile 1792 il notaio Giuseppe Cossu originario di Sanluri, vicesegretario del Real Patrimonio, possedeva una casa sita in calle della Costa con 3 piani; in quella data affittò la casa, con esclusione del piano terreno, al signor Francesco Laurero Morvillo, che vi abitava ancora nel gennaio 1793, al tempo del bombardamento francese[1]; dall’atto notarile relativo al contratto d’affitto non si può capire quale sia la casa interessata ma, nel suo donativo del 1799, il notaio Cossu denunciò una casa nella strada della Costa affittata per scudi 183, vicino alla chiesa di Santa Caterina dei Genovesi, e proprio all’Arciconfraternita dei Genovesi pagava 65 scudi di canone enfiteutico; dal donativo del 1807 della Chiesa S. Caterina e S. Giorgio, si legge che la chiesa possedeva la casa 2732 a fianco della chiesa stessa, confinante dall’altro lato con la casa del notaio Cossu.

Una causa civile del 1838 ci permette di aggiungere diverse notizie su questa casa: è infatti da identificarsi con una proprietà dell’Arciconfraternita dei Genovesi, cioè di Santa Caterina, alla quale era pervenuta dall'eredità del reverendo Antonio Serra e di Bernarda Airaldo, che a sua volta l’aveva ereditata dai suoi fratelli reverendo Giovanni Battista e reverendo Lorenzo Airaldo, rettore di Scolca; nel 1783 l’Arciconfraternita l’aveva ceduta in enfiteusi al negoziante Ambrogio Conti(-1785), mediante il canone annuo di 65 scudi; il canone fu pagato regolarmente da Ambrogio Conti e poi dalle sue eredi, cioè le due figlie Antonia (-1816) e Anna, sposate rispettivamente col conte Michele Ciarella (-1831) e col notaio Giuseppe Cossu (-1827); la casa faceva parte della quota ereditaria di Anna, e per questo motivo, negli anni intorno al 1800 risulta appartenere al marito, notaio Giuseppe Cossu; dopo la morte di Giuseppe Cossu e Anna Conti fu ereditata dai nipoti Ciarella, figli di Michele e Antonia Conti; nel 1838 Efisio Ciarella rinunciò alla sua quota in favore dei due figli di suo fratello Giuseppe; l’Arciconfraternita dei genovesi in quello stesso anno citò in giudizio i fratelli Ciarella per i canoni non pagati degli ultimi due anni; si giunse a una transazione, e il negoziante Giacomo Saggiante si offrì di acquistare la casa. 

Dal documento del 1847 citato nel precedente paragrafo, risulta che la casa 2731 appartenesse al negoziante Giacomo Saggiante, che l’aveva sopraelevata fino al 6° piano, provocando le ire dei vicini Belgrano Mereu. 

Dopo il 1850 la casa apparteneva ancora a Giacomo Saggiante, che morì nella casa di via Manno 31 il 09.09.1879, all’età di 78; era nato a Bieno, provincia di Trento; la sua vedova Teresa Negri, nativa di Strigno (Trento), morì nella stessa casa il 02.02.1894 a 94 anni; in via Manno 31 morì il 15.04.1909 a 84 anni la loro figlia Carlotta Saggiante, vedova dell’avvocato Pasquale Marini.



[1] Nel paragrafo relativo alla casa 2922 sono raccontati alcuni dettagli sulle circostanze che portarono Francesco Laureo Morvillo ad abbandonare la casa 2731

 

2732     

Nella sua dichiarazione per il donativo del 1799, la Chiesa di S. Caterina e S. Giorgio (vale a dire l’Arciconfraternita dei Genovesi) denunciò una casa nella strada della Costa, a lato della chiesa, con una bottega e due piani; ne ricavava 115 scudi di affitto annui; nella dichiarazione del 1807 si legge che dalla stessa casa, posta fra la chiesa e la casa del notaio Cossu (2731), si ricavavano lire 287 e 10 soldi, cioè esattamente 115 scudi come nel 1799.

Dal “Libro delle Giunte e Congregazioni di Santa Caterina”[1] risulta che nel 1844 la casa 2732 o parte di essa, col suo giardino, fosse affittata al farmacista Cugusi[2] che vi abitava e aveva la sua spezieria; il 10 di aprile di quell’anno il Cugusi dichiarò di non essere in grado di pagare gli 86 scudi chiesti dai Genovesi, che decisero quindi di affittare la casa al confratello Agostino Costa, che aveva offerto 100 scudi; il 30 aprile dello stesso anno Cugusi accettò di pagare gli 86 scudi e Agostino Costa, tenendo presente la situazione del farmacista, che aveva famiglia numerosa, rinunciò a casa e giardino.

Dai documenti conservati presso l’Arcinconfraternita di Santa Caterina[3] è possibile ricostruire i passaggi di proprietà del secolo precedente: apparteneva alla chiesa dal 1697: in precedenza (1635) era appartenuta al genovese Carlo Francesco Rosso, poi ai suoi eredi (1676), poi a don Antonio Genoves, e l’abitava suo nipote Antonio Copola; nel 1697 Antonio Genoves la cedette all’Arciconfraternita in cambio di una casa sull’altro lato della chiesa, parte dell’unità 2735.

Dopo il 1850 la casa apparteneva ancora alla Chiesa di Santa Caterina. 



[1] Conservato nell’attuale sede dell’Arciconfraternita dei Genovesi, presso la chiesa di Santa Caterina

[2] Giovanni Cugusi, di Gavoi, figlio di Pietro e Maria Grazia Buttu, aveva sposato nel 1829 la cagliaritana Francesca Persi, figlia di Pietro e Maria Anna Uda

[3] Isabella Zedda, “L’arciconfraternita dei Genovesi in Cagliari nel Sec. XVII”

 

2733 e 2734       

Sulla mappa catastale di metà ‘800 questi due numeri non sono segnati: uno corrisponde alla chiesa di Santa Caterina, l’altro potrebbe corrispondere a sue pertinenze, forse a quella grande area senza numero, posteriore alla chiesa stessa, e di sua proprietà; la chiesa, edificata a partire dai primi anni del XVII secolo, fu purtroppo distrutta durante i bombardamenti del 1943; l’area a essa posteriore è forse identificabile con quella che nel 1618 donarono all’Arciconfraternita di Santa Caterina i fratelli genovesi Gerolamo e Giò Batta Cavassa: questi ultimi avrebbero voluto edificare l’area di loro proprietà, e avevano già iniziato a costruire, ma i lavori furono sospesi su richiesta dell’Arciconfraternita, in quanto si temeva che la nuova costruzione avrebbe limitato la luminosità della chiesa. I Cavassa decisero quindi di donare l’area.

Più d’una volta, dal 1635 in avanti, nel corso delle congregazioni dei membri dell’Arciconfraternita, fu espressa la volontà di sfruttare quest’area per la costruzione di un ospedale; allo stesso scopo furono acquistate le due case Puchio e Avernia, forse identificabili con le unità catastali sulla discesa del portico di Santa Rosalia (attuale via Principe Amedeo), confinanti con la proprietà ex-Cavassa. La costruzione dell’ospedale non fu però mai avviata, e sull’area 2734 fu poi costruita la sagrestia[1]. 

 


[1] Isabella Zedda, “L’arciconfraternita dei Genovesi in Cagliari nel Sec. XVII”

 

2735 e 2755       

L’unità catastale 2735 corrispondeva al palazzo di don Bernardino Genoves, duca di San Pietro e marchese della Guardia; dai documenti conservati presso l’Arcinconfraternita di Santa Caterina [1] si sa che apparteneva a don Antonio Genoves (-1694) e poi a suo figlio omonimo che però, fino al 1697, ne possedevano solo una parte: la casa era infatti separata dalla chiesa di Santa Caterina dalla casa di Gio Francesco De Marchi e nel 1654, alla morte di questi, di sua nipote Francesca De Marchi; per una controversia sorta a causa di un censo, le cui pensioni non erano state pagate, l’Arciconfraternita dei Genovesi si impadronì della casa, lasciandone l’abitazione e l’uso di una bottega alla De Marchi; solo nel 1697, e dopo vari tentativi non andati a buon fine, don Antonio Genoves riuscì finalmente a comprare la casa e incorporarla con la sua confinante; nel 1714, dopo la morte di don Antonio, la proprietà passò a suo figlio don Bernardino e, nel 1764, fu ereditata da suo figlio, don Alberto Genoves, che morì senza discendenza nel 1812  [2].

Il duca era proprietario anche della unità immobiliare 2755, posta esattamente dietro il suo palazzo, la quale arrivava fino alla discesa del Portico di Santa Rosalia; nella denuncia per il donativo del 1799, fatta dal dottor Angelo Belgrano per conto del duca, venne dichiarato che il palazzo non era affittato, ma alcune sue parti erano concesse ad altri senza nessun pagamento: il piano nobile era concesso alla marchesa di Villa Clara e baronessa di Capoterra, donna Rita Vico, e in precedenza si affittava per lire 325 annue; il piano basso era abitato “graziosamente”, dal signor Rocco Magnone con la famiglia, e in precedenza si affittava per lire 100 annue; alcuni “studi” erano occupati dagli eredi del notaio Giacomo Massa, si sarebbero potuti affittare a sole lire 50 annue, per essere “sconci”; una stanza attigua agli studi veniva occupata dalle sorelle Caterina e Tommasa Soayal, e in precedenza si affittava per lire 50 annue; nel donativo non è chiaro se si parli del palazzo 2735, nella strada della Costa, o delle costruzioni dell’unità 2755, sul retro; probabilmente i cosiddetti studi occupati dai Massa e la stanza attigua occupata dalle sorelle Soayal non si trovavano nel palazzo 2735 ma nella casa 2755: infatti il 18.02.1794 il notaio Giovanni Onnis si recò nella casa del notaio Giacomo Massa, sita nel sobborgo della Marina e contrada di S.Rosalia (in questo caso del Portico di S.Rosalia) per redigere il testamento del notaio Massa, gravemente ammalato.

Nel maggio 1802 don Alberto Genoves donò all’avvocato Raimondo Emanuele Massa Esquirru, figlio del fu notaio Giacomo Massail valore di tutti i miglioramenti fatti e da farsi nella casa (2755) posta dietro il palazzo di S.E. e strada come si discende dal portico di Sta.Rosalia verso la strada di Barcellona, e (gli donò) l’usufrutto di essa casa durante la vita del detto avvocato”, oltre a varie elargizioni in denaro; tutto questo “Considerando i grandi continui e singolari servigi che ... gli ha prestato e va tutt’ora prestandogli senza mercede, stipendio né onorario alcuno l’avvocato Raimondo Emanuele Massa Eschirru ……. Per processi antichi, scritture, instromenti pubblici la maggior parte dei quali esistono nei Protocolli del fu notaio Giacomo Massa di lui padre, pure informatissimo di tutti i rami e dipendenze della casa Genovese, avendo egli governato per 40 e più anni detto Patrimonio e Feudo, sin da quando viveva il Duca Bernardino”. La donazione escludeva i mezzanelli occupati in quel momento dal parrucchiere Fortunato Immerone e dal calzolaio Francesco Gagè.

Nel giugno 1805, l’avvocato Emanuele Massa Schirru pagò 1286 lire 18 soldi 6 denari a un mastro muratore, un mastro carpentiere e un mastro ferraro, “per l’ammontare di materiali e opere da loro prestate dal mese di settembre 1804 sino a gennaio 1805, per il miglioramento della casa ove il medesimo abita al presente, donata da S.E. il Duca di San Pietro Don Alberto Genovese, posta nel sobborgo della Marina e contrada di Espinosa, ossia Portico di Santa Rosalia, confinante alle spalle col Palazzo del Duca”. Si tratta di una casa con piano nobile e piano superiore.

Con atto notarile del 13.06.1807 il duca Alberto Genoves, dopo aver chiesto il permesso al re, donò tutto il suo patrimonio feudale al nipote Don Francesco Zatrillas marchese di Villa Clara; faceva parte della donazione anche la casa di abitazione 2735, di cui al duca restò l’usufrutto, mentre fu ratificata la donazione fatta nel 1802 all’avvocato Massa Schirru della casa 2755, esclusa quindi dalla donazione al marchese di villa Clara.

Alberto Genoves (1729-1812) affermò che “l’avanzata età ed incomodi cagionati da una seriosa malattia sopraggiunta lo scorso anno” gli impedivano di continuare l’amministrazione del feudo; il marchese di Villa Clara avrebbe avuto l’obbligo di corrispondere al duca, sua vita durante, scudi 1000 ogni mese e scudi 1000 l’ultimo giorno di ogni anno, e l’obbligo di pagare i debiti contratti dal duca, oltre lire 60000. 

Nel 1812, alla morte di don Alberto Genoves, il palazzo 2735 sulla strada della Costa divenne piena proprietà del nipote, marchese di Villa Clara.

Nel mese di luglio 1813 il marchese di Villaclara e l’avvocato Massa Eschirru giunsero a un accordo per cui quest’ultimo rinunciò all’uso ed abitazione della casa 2755; il marchese era disposto a pagare tutte le migliorie fatte nella casa, dopo che era stata quasi interamente rovinata nel 1793, dalla flotta francese; i miglioramenti fino al 1802 furono valutati lire 3708.11.3, e i successivi lire 1286.18.6; inoltre il marchese avrebbe pagato scudi 1500 per l’uso e l’abitazione.
E’ noto che negli anni successivi il palazzo 2735 divenne la sede del Convitto dei nobili.

In data 9 gennaio 1836 gli avvocati Gaetano e Giovanni fratelli Marini iniziarono una causa civile contro gli Amministratori del Real Convittoche da circa 2 anni è stato formato nella casa riedificata del Duca di San Giovanni (in riferimento al titolo ottenuto nel 1823 dai Vivaldi Pasqua, eredi dei Zatrillas) nella strada della Costa, a causa di problemi sorti nella casa dei fratelli Marini”, proprietari della casa confinante 2736.

La lite si protrasse fino al 1850 per il progetto degli Amministratori del Convitto di acquistare la casa Marini, fatto che fece sospendere la causa, ma nel 1850 non si pensava più a questa vendita; i Marini si lamentavano per diversi motivi, e affermavano che nel loro terrazzo gli amministratori del Convittoedificarono un cesso, sporgendo il muro di un palmo e più al primo piano e 3 palmi e più al secondo, e nel muro di pertinenza dei Marini detti amministratori formarono un camino per la loro cucina”.

Il 13.01.1852 il Tribunale d’appello si dichiarò incompetente e rimandò la causa al Tribunale di prima cognizione.

Un documento del Regio Demanio del 1836 ci fa conoscere diverse notizie sulla casa 2755: “Per Superiore disposizione si è determinato far acquisto della casa di proprietà del signor Vincenzo Manca, nella strada del Portico di Santa Rosalia, ed in attiguità al Real Convitto dei Nobili, per unirla al medesimo per maggior comodo e vantaggio”; in data 20.04.1836 fu compilato l’atto di acquisto da parte della Reale Azienda della proprietà di Vincenzo Manca, che “accetta di cedere la casa con i seguenti patti: il prezzo è stabilito in lire 13750, già ribassato rispetto al suo valore intrinseco; gli si dovrà accordare un termine sufficiente per procurarsi un altro alloggio, non meno di due mesi; si accontenta di avere in contanti lire 3000, delle restanti 10750 gli si pagheranno gli interessi al 5%; pertanto Vincenzo Manca di questa città, Luogotenente di Vascello e quartier Mastro di Marina, cede alla Reale Azienda e per essa all’ill.mo don Francesco De Iuge de Picuillet Intendente Reggente l’Intendenza Generale, la casa (2755) che possiede per eredità paterna, nella strada detta, confinante per prospettiva a casa dell’illustrissimo signor cavaliere don Gio Batta Solinas professore di Chiururgia (2771), detta strada frammezzo, per un lato a casa del segretario della Reale Udienza Notaio Giuseppe Isola (2754), per altro lato a casa dell’arciconfraternita dei santi martiri Giorgio e Caterina (2756), e per le spalle al detto convitto dei nobili (2735), giardini frammezzo; dall’estimo, praticatosi allorchè il fu Giovanni Manca, Quartier Mastro della Regia Marina, acquistò la casa sita nel (nella strada del) Portico di Santa Rosalia, risultò il valore della medesima in lire 11399.17.6; i restauri fatti dal fu Giovanni Manca e da suo figlio Vincenzo sono molti, e rilevanti: portone, finestre, pavimenti rifatti con pianelle di Francia, le soffitte delle 4 camere, si rifece la scala con scalini di lavagna, si fece un gran poggiuolo, una nuova cisterna, si ampliò la rimessa con scavi nella rocca, volte e pavimenti dei mezzanelli, con nuova porta e scala per renderli indipendenti, si dipinsero le camere nobili e si abbellì la facciata.

Non è nota la data in cui Giovanni Manca acquistò la casa 2755.

Nel Sommarione dei Fabbricati non risulta nessuna ulteriore informazione sulla proprietà dei due immobili 2735 e 2755. 



[1] Isabella Zedda, “L’arciconfraternita dei Genovesi in Cagliari nel Sec. XVII”

[2] www.araldicasardegna.org

 

2736 

Era dal 1774 la casa del mercante Juan Perfumo (o Prefumo o Profumo, o Prefumu); egli nel 1799 presentò la sua dichiarazione per il donativo (rintracciato, non all’Archivio di Stato come tutti gli altri, ma fra le carte dell’Archivio di Sant’Eulalia) e dichiarò di possedere una casa nella strada della Costa con il piano terreno utilizzato dal proprietario, comprendente una bottega, magazzino con piccola terrazza, una grotta e due piccole stanze per legna e carbone; il primo piano con 3 stanze e terrazzino, affittato a scudi 40; il secondo piano identico al precedente affittato a scudi 36.

Il 24.03.1805 morì Rosa Romualdi, moglie di Juan Perfumu; non lasciò testamento, per cui gli eredi furono il marito e i 3 figli Perfumu-Romualdi: il negoziante Gerolamo, il reverendo Michele, e Rita; i primi due vivevano a Cagliari mentre Rita, sposata col notaio Pasquale Mura di Villanovafranca, viveva a Sinnia (Sinnai), dove Pasquale era delegato di giustizia; con atto del notaio Francesco Demontis del 29.04.1805 Juan Perfumu consegnò ai figli la somma di lire 493, un soldo, un denaro, parte della dote del 10.03.1759 formata dal capitale di 400 scudi caricati sulla casa di famiglia nella strada della Costa, più altri 60 scudi.

Con atto del notaio Demontis del 02.04.1805, il negoziante Juan Perfumu concesse in affitto la bottega con il banco e gli arredi esistenti, le stanze interne, il sotterraneo e il primo piano della sua casa della strada della Costa a Juan Puddu di Ozieri; l’affitto sarebbe partito dal primo maggio e avrebbe avuto la durata di 6 anni; Puddu avrebbe pagato 143 scudi annui pagabili a mezza annata; al primo piano, al momento della stipula dell’atto, abitava il greco Anastasio Staico.

Con altro atto del notaio Demontis del 14.09.1809 Juan Perfumu, domiciliato in quel periodo a Sinnia (Sinnai), forse a casa della figlia, vendette la casa 2736 al sassarese reverendo Gavino Defraya, professore di Canoni presso l’Università di Cagliari, abate di San Giovanni di Sinis e San Nicolò di Bari; il giorno prima il Defraya aveva ricevuto 750 lire dal negoziante Francesco Ravenna, altre 750 dal notaio Gio Batta Azuni, promettendo di impiegare la somma nell’acquisto della casa Prefumo; si impegnò a restituire il prestito in 6 mesi e a pagare il 6% annuo di interessi.

La casa si trovava nella strada della Costa, detta anche di Santa Caterina martire, era composta da due piani alti e il piano terreno con la bottega, aveva i balconi di ferro, due cisterne e sotterranei (gragatus), e confinava da una parte con la casa del duca di San Pietro (2735), dall’altra con la casa del canonico Floris che prima era del negoziante Giacinto Delorenzo (2737); fu stabilito il prezzo di 4000 scudi, e Defraya ne versò subito 900; 600 scudi li avrebbe trattenuti per far fronte ad alcuni legati di cui era onerata la casa, per i quali occorreva pagare 5 scudi annui ai Padri Carmelitani, altri 5 scudi ai Padri Claustrali, 4 lire ai Padri Paolini, 17 lire e 10 soldi alla chiesa di Santa Caterina, e 23 lire, 5 soldi, 2 denari per il donativo della Regina; i restanti 2500 scudi li avrebbe pagati entro 2 anni con gli interessi al 6%. E’ riportato nell’atto che il negoziante Prefumu aveva ricevuto la casa in donazione da Maria Clara Valenciano y Sanna, con donazione “intervivos” del 18.06.1774, confermata nel testamento della donatrice datato 08.03.1787. Non si conosce la parentela o la relazione fra Clara Valenciano Sanna e il Prefumu[1].

Con atto Demontis del 18.09.1810 il professor Gavino Defraya del fu Antonio, sassarese domiciliato in Cagliari, pagò l’annuo canone di 150 scudi, con ricevuta firmata da Juan Prefumu del fu Miguel, cagliaritano domiciliato in Sinnia (Sinnai).

In data 25.03.1810 il Defraia si onerò di un censo di £ 1000 avute dal reverendo Filippo Ponsiglione, a cui avrebbe pagato il canone annuo al 6%, con ipoteca della casa nella strada della Costa o di Santa Caterina Martire; con atto notarile del 03.07.1811 il canone fu ribassato dal 6% al 4,5%, riduzione che fu accordata dal Ponsiglione “ben volentieri per la considerazione e i rapporti di amicizia” che lo legavano al professore sassarese.

Gavino Defraja rivendette la casa al negoziante greco e console reggente di Tripoli Anastasio Staico (noto fabbricante di cappotti) con atto notarile del 08.02.1816; come già detto, Staico vi aveva già abitato in affitto fino al 1805.

Come già riportato nel paragrafo precedente, nel 1836 la casa 2736 apparteneva agli avvocati Gaetano e Giovanni fratelli Marini, che ne erano ancora i proprietari dopo il 1850, come risulta dai dati del primo catasto urbano. Gaetano (1789-1864) e Giovanni Marini (1792?-1860) avevano rispettivamente sposato, nel 1819 e nel 1834, le due sorelle Elena (1796-1871) e Maddalena Staico (1813-1896) figlie di Anastasio Staico, precedente proprietario della casa.



[1] Non si hanno molte notizie su questo commerciante: figlio di Michelangelo Prefumu e di Maria Geltrude Piga, nacque a Cagliari nel 1731; il cognome dovrebbe essere di origine ligure: in Liguria esiste tuttora sia Prefumo (raro, presente anche a Cagliari e Carloforte), sia Perfumo (diffuso in Liguria e Piemonte), sia Profumo (diffuso in Liguria); il figlio reverendo Michele, ordinato parroco nel 1788, beneficiato di Sant’Eulalia, ricevette nel 1809 dal padre la somma di 100 scudi pochi giorni dopo che fu venduta la casa della Costa, in acconto dell’eredità. Il testamento di Giovanni Prefumo fu pubblicato il 24.03.1821, presumibilmente dopo la sua morte (a 90 anni?!).

 

2737

Era fino al 1786 la casa del negoziante Giacinto Delorenzo (defunto nel 1788); nel dicembre 1797 apparteneva al canonico e Protonotaio Narciso Floris, che è citato come suo proprietario anche nelle seguenti dichiarazioni per il donativo: in quella del 1799 di Speranza Tuveri Paglietti, proprietaria della casa confinante 2738; in quelle del 1799 e 1807 del collegio di San Giuseppe, proprietario di 4 botteghe di fronte alla casa Floris.

Con atto notarile del 28.09.1801, l’intagliatore di marmo milanese Giovanni Battista Franco rilasciò ricevuta al canonico Narciso Floris, cattedratico emerito dell’Università e Giudice delegato Apostolico, per 2284 lire 11 soldi e 8 denari: si trattava del pagamento parziale del debito di cui il Floris si era onerato in data 13.10.1786 per l’acquisto della casa che aveva comprato per 4000 scudi, unitamente al negoziante Juan Prefumo (proprietario della confinante 2736) il quale cedette la sua parte appena acquistata al medesimo canonico Floris); i venditori erano i coniugi Jacinto Delorenzo e Maria Francesca Oquino; la casa era “sita in calle della Costa come si scende alla chiesa di Santa Caterina Martire”.

Nel suo donativo del 1807, il marmoraro Giovanni Battista Franco dichiarò di ricevere dal Floris la pensione su un censo di 750 scudi caricato sulla casa della Costa, in ragione del 4% annuo.

Con atto del notaio Francesco Demontis del 20.01.1809 il Franco firmò una ricevuta per 178 scudi e 10 soldi, a lui pagati dal canonico Floris, a saldo del debito residuo risalente al 13.10.1786.

Da una causa civile del 1824, relativa alla casa confinante 2738, la casa 2737 risulta ancora in quell’anno abitata dal canonico Floris, il quale morì nel 1826.

Dopo il 1850, dal Sommarione dei Fabbricati, apparteneva agli eredi dello stesso canonico Narciso Floris, amministrati dal canonico Francesco Floris.

 

2738     

Era la casa del boticario (speziale, farmacista) Antioco Tuveri di Forru (Collinas), morto nel 1769; venne quindi  ereditata dal figlio, lo speziale Michele Tuveri, come si legge da atti del 1797, uno dei quali relativo alle botteghe Bollolo (2442), di fronte alla casa Tuveri, l’altro relativo alla casa 2753, sul retro, che confinava col giardino della casa Tuveri.

In data 12.08.1798 si procedette al disigillamento e pubblicazione del testamento del fu speziale Michele Tuveri, morto verso le ore 7 di sera del giorno 11 agosto. Lasciò alla sua vedova Annica Fundoni l’usufrutto di molte proprietà, erede universale era l’unica figlia Speranza, conigata Paglietti; il testamento fu scritto il 01.07.1788 nella casa di abitazione (2738) in Porta Villanova, “come si scende alla chiesa di Santa Caterina dei Genovesi, e consegnato al notaio Gio Francesco Picci.

In data 20.04.1799 Speranza Tuveri, col consenso della madre Anna Fundoni, cedette per 300 scudi la spezieria del padre, sita in una bottega della sua casa presso Porta Villanova (2738), allo speziale Antioco Luigi Cossu di Iglesias.

Pochi giorni dopo, il 26 aprile, venne firmato fra la Tuveri e il Cossu il contratto di locazione della bottega, con una stanza sul retro e altre 3 stanze nel magazzino posteriore alla bottega, con accesso al terrazzo e al piccolo giardino della casa, con la possibilita di utilizzare il giardino per piantare le piante medicinali, “purché non siano nocive agli alberi esistenti”; venne anche affittata un’altra stanza “oscura” al secondo piano della casa, accessibile dalle scale; l’affitto fu concordato per 7 anni, 70 scudi per i primi 3 anni.

Nel suo donativo del 21.06.1799 Speranza Paglietti nata Tuveri dichiarò, fra i molti immobili che possedeva, una casa nella strada della Costa, attigua alla casa del Canonico Floris (2737), composta da 2 piani alti e il piano terreno, con 7 camere, una bottega e due sotterranei; il piano superiore era abitato dalla madre Anna Fundoni Tuveri; alcune stanze erano utilizzate dagli eredi Medail, che abitavano nella casa attigua (2739); avrebbe potuto ricavare scudi 70 annui dall’affitto del piano terreno, 30 scudi dall’affitto del piano superiore; la vedova non conteggiò fra i redditi le stanze degli eredi Medail, in quanto essi ne avevano diritto ereditario, come figli di Maddalena Tuveri sorella di Michele.

Con atto notarile del 28.03.1803 Speranza Tuveri affittò i due piani alti della casa a Giuseppe Cagliero, “oste ossia albergatore” che l’avrebbe usata per abitazione personale e per esercitare il suo mestiere di albergatore; l’affitto fu concordato per 3 anni, per 35 scudi per ogni semestre.

Con atto notarile del 14.06.1803 Maddalena Tuveri, vedova di Juan Medail, affitto per 3 anni, per 100 scudi annui, la casa e la bottega site vicino alla porta Villanova al negoziante Juan Puddu.

Il 22.06.1807 donna Speranza Paglietti affittò al negoziante Giuseppe Mannai una bottega e un magazzino nella sua casa nella piazza di Villanova, attigua a bottega di sua zia Maddalena Tuveri; l’affitto fu stabilito per 6 anni per scudi 80 annui, pagabili a semestri anticipati.

Con atto notarile del 06.11.1807, i due piani alti della casa furono affittati da donna Speranza a Pasquale Pirisi, “direttore dell’ufficio di Posta”, per 80 scudi annui.

Maddalena Tuveri morì il 23.01.1809; il suo testamento, curato dal notaio Francesco Angelo Randaciu, era del 08.12.1808, eredi i suoi figli Andrea, Luigi, Simone e Anna Medail; il 14.06.1809 fu completato dal notaio Venanzio Campus l’atto di inventario dei suoi beni mobili e immobili, fatto dal figlio Simone Medail, a cui fu dato il permesso, nonostante l’assenza dei suoi fratelli e coeredi, dal Reggente della Reale Cancelleria; la donna era morta nella sua casa di abitazione nel quartiere di Stampace, nella strada di Santa Restituta; oltre alla casa in Stampace possedeva anche una bottega nella Marina, presso la Porta di Villanova, nella casa 2738, e una casa nel portico di Padri Osservanti di Santa Rosalia (2753); la bottega fu stimata lire 2106, soldi 2, denari 10, la casa lire 3657, soldi 10, denari 7.

Nel 1824 la Guardia del corpo di Sua Maestà Gaetano Medail (1803-), figlio del fu Andrea (nato nel 1765, figlio di Giovanni Medail (-1792) e Maddalena Tuveri), per conto di suo fratello maggiore Giovanni (1796-) assente dal Regno, citò suo zio Luigi Medail (1771-) che pretendeva di occupare i mezzanelli e una bottega della casa Tuveri lasciati da Antioco Tuveri (nonno di Luigi e bisnonno di Gaetano), col suo testamento del 1767, alla figlia Maddalena, trasmissibili agli eredi maschi con diritto di primogenitura; alla morte di Maddalena il diritto sarebbe dovuto andare a Benedetto Allemand (1757-) figlio di primo letto di Maddalena, ma egli era assente dal regno da 40 anni e si ignorava dove fosse e se fosse ancora in vita; per cui il diritto fu goduto da Andrea Medail, primogenito del secondo matrimonio, padre di Giovanni e Gaetano, e alla morte di Andrea ne avrebbe dovuto godere Giovanni, ma lo pretendeva Luigi Medail fratello di Andrea.

L’altra parte della casa era ancora di Speranza Tuveri Paglietti, che morirà nel 1847 in una casa del Castello.

Nel 1840 ebbe inizio una causa fra la vedova Isabella Paglietti nata Nossardi, tutrice dei figli impuberi Carlino, Speranza e Francesco, vedova di don Raffaele Paglietti (morto nel marzo 1838), e la suocera donna Speranza Tuveri, vedova di don Carlo Paglietti; la Nossardi chiedeva che la suocera contribuisse al mantenimento dei nipoti, ma il rapporto fra le due donne era molto difficile: la Nossardi era la seconda moglie del fu Raffaele Paglietti, che aveva contratto il secondo matrimonio all'insaputa della madre; la nuora era stata allontanata anche dai suoi genitori, risentiti per il matrimonio fatto di nascosto, nonostante fosse stato per loro, agiati commercianti, un matrimonio non certo degradante; la Nossardi affermò tra le altre cose “…di essersi sempre comportata bene nonostante il marito la maltrattasse”.

Al fascicolo della causa è allegata la lista delle numerose case che appartenevano alla vedova Speranza Tuveri Paglietti, fra queste la gran casa della Costa, con 2 piani e botteghe.

Dai dati catastali di metà ‘800 i proprietari risultano don Gavino Paglietti (1822-) figlio del primo matrimonio del fu don Raffaele, e il militare Gaetano Medaglia (Medail), la cui parte era utilizzata come bottega e magazzino: evidentemente Gaetano riuscì a far riconoscere le sue ragioni nella causa del 1824; una correzione poco successiva segnala il cambio di proprietà da Gaetano Medail all’orefice Efisio Cixi.

 

 

2739     

Era la casa del ricco mercante di Savona Ambrogio Conti, morto nel 1785; un atto notarile del settembre 1794, relativo alla confinante casa 2740, ripercorre la storia e i passaggi di proprietà di quella e delle case vicine, senza soffermarsi però sulle date: la casa 2739 era anticamente del “droguero” Juan Carta, poi passò al “droguero” don Gavino Rustarello, poi a Juan Bauptista Massa e ai suoi figli, ed infine ad Ambrogio Conti e le sue eredi; queste ultime erano la moglie Anna Porru (morta nel 1796) e le figlie Maria Antonia e Anna, la prima coniugata col conte Michele Ciarella, la seconda in prime nozze col notaio Antonio Serra, in seconde col notaio Giuseppe Cossu; nel 1799 il conte Michele Ciarella denunciò nel donativo la sua parte di casa nella piazza di Porta Villanova: il 2° piano dove abitava il denunciante, con 9 stanze e cucina e il “passadisso”, che si sarebbe potuto affittare per scudi 75, e anche il piano della bottega e i sotterranei cha avrebbero potuto rendere scudi 75 annui; la stessa dichiarazione fu presentata nel dicembre 1806.

Nel giugno 1799 il notaio Giuseppe Cossu dichiarò di abitare il 1° piano della stessa casa, ereditata dal suocero Ambrogio Conti, e ne avrebbe potuto ricavare 75 scudi.

Un atto notarile del 17.10.1810, relativo alla casa 2740, riferisce che la casa confinante 2739 apparteneva alle sorelle Anna e Antonia Conti, e in precedenza apparteneva a don Antonio Ventimiglia; quest’ultimo dato è confermato da un atto del gennaio 1806, relativo alla casa Russui 2740, e non è in contrasto con quanto si trova scritto nell’atto del settembre 1794, che non menziona il Ventimiglia: infatti don Antonio Ventimiglia (o Vintimiglia) aveva sposato nel 1738 donna Maria Vittoria Massa, figlia di don Gian Battista; è possibile quindi che il Conti avesse acquistato la casa dagli eredi Massa, fra cui Maria Vittoria, moglie di don Antonio Ventimiglia.

Nel 1816 il conte Michele Ciarella (-1831) abitava nella casa; erano morti in quell’anno la moglie Antonica Conti e i figli avvocato Giuseppe e Annica, dopodiché, il 9 maggio, il conte scrisse un testamento che consegnò al notaio Efisio Ferdiani.

Il 24.03.1821 il notaio Ferdiani si recò alla casa di abitazione del conte e gli fu consegnato un codicillo al testamento; la casa si trovava nella Marina, e piazza dove si vendono i commestibili, di fronte all’ufficio dell’Amostassen; corrispondeva perciò all’unità catastale 2739; gli eredi nominati nel testamento e nel codicillo (segnalatimi da Vincenzo Spiga e presenti fra gli atti antecedenti il 1890, fra quelli del notaio Ferdiani) erano i figli viventi Efisio e Antonio, e i figli del defunto figlio Giuseppe (1781-1816), Michelino (1815-) e Giuseppino (nato nel 1816 dopo la morte del padre omonimo).

Nel fascicolo della causa civile del 1824, citata nel paragrafo precedente, relativa alla casa 2738, si legge che la casa 2739 era ancora in quell’anno degli eredi di Ambrogio Conti.

Infine, dai dati catastali di metà ‘800 risulta che la casa appartenesse in parte a don Efisio Ciarella (1785-1855) del fu Michele, e in parte ai fratelli Michele (1815-1859) e Giuseppe Ciarella (1816-) del fu Giuseppe.

 

 

2740     

Nel 1792 era la casa del negoziante di Sarule Antonio Gemiliano Russuy Lixi[1] il quale in quell’anno ne affittò l’ultimo piano per 6 anni e per il totale di 450 scudi al console di Malta Michele Ciarella (la cui moglie Maria Antonia Conti era una delle proprietarie della casa 2739) per abitazione della sua famiglia, eccettuate due stanze sotto la terrazza.

Con atto notarile del 02.09.1794 Russui ottenne il prestito di 1300 scudi da Juan Antonio Giorgelli, e dovette ipotecare la casa: era composta da due piani e due botteghe, era appartenuta in precedenza al defunto Juan Bauptista Massa, che era stato proprietario anche della confinante casa 2739; il 15.09.1763 fu comprata in asta pubblica dal mercante Vissente Lixi (da cui ereditò Russui grazie al testamento del 31.12.1772) per scudi 5120, e nel 1794 poteva valere 9000 o 10000 scudi, a causa delle migliorie apportatevi nel corso degli anni.

Nel dicembre 1797 Russuy rinnovò l’affitto di una bottega al negoziante Francesco Vodret, che già la utilizzava da diversi anni.

Il 23.06.1799 Antonio Gemiliano Russuy presentò il suo donativo, e denunciò la casa di Porta Villanova, con il piano terra composto da una bottega e una stanza affittati per lire 250, altra bottega e 4 stanze affittate a lire 337 e 10 soldi (affittate al Vodret), il primo piano “nobile” composto da 7 stanze e cucina, sua abitazione, che affittata avrebbe potuto rendere lire 187 e 10 soldi, il secondo piano di 6 stanze e cucina affittato a lire 187 e 10 soldi, e quest’ultime dovrebbero essere quelle affittate a Michele Ciarella (che aveva versato 450 scudi per 6 anni, cioè 75 scudi per anno, cioè lire 187 e 10 soldi), il cui contratto scadeva nel marzo del 1799, non si sa se poi rinnovato.

Negli atti notarili dell’agosto 1800 relativi alla vendita della confinante casa 2741, si legge che la casa Russuy era in precedenza di Juan Bauptista Massa, dato che conferma l’atto notarile del 1794.

Il 16.03.1802 venne pattuito con congruo anticipo il rinnovo per altri 5 anni dell’affitto al negoziante Vodret, a partire dal 27.03.1803, ma venne innalzato il prezzo: da scudi 135 che si pagavano (lire 337 e 10 soldi) venne portato a 180 scudi annui (e nel luglio 1804 si decise di rinnovare l’affitto fino al 18.07.1810).

Con atto notarile del 12.07.1803 il Russuy ottenne da Francesco Vodret un prestito di 300 scudi; nell’atto si riferisce che con scrittura privata del 16 marzo 1803 il Vodret aveva già consegnato al Russuy 270 scudi, mediante il pegno di alcuni pezzi d’argenteria; il Russuy aveva promesso di restituire la somma entro un anno; nel mese di luglio, avendo “preciso bisogno di tutti i pezzi di argenteria”, ne chiese al Vodret la restituzione, e chiese altri 70 scudi, col patto di pagare interessi al 5%. Inoltre, se non avesse saldato il debito entro il marzo del 1808, alla scadenza del contratto di affitto della bottega in piazza Villanova (con camere annesse) che il Vodret aveva da lui in locazione e che aveva già pagato anticipatamente per tutti i 5 anni, il debito sarebbe stato scalato dal nuovo contratto. Con questi accordi Vodret restituì l’argenteria al Russuy, nel particolare “una suppiera col suo coperchio e tondino, un bacile, una caffettiera, una sottocoppa, un paio di candelieri colle sue rosette, una zuccheriera, di peso tutto libbre 9 ed oncie 9 e mezza, compreso il manico di legno della caffettiera”.

Con atto del notaio Efisio Melis Armerin del 07.11.1803 il Russui, sempre a corto di soldi e in debito verso il Capitolo Cagliaritano di lire 682 e 10 soldi (pensioni scadute su un censo investito nella casa di Porta Villanova), dovette cedere allo stesso Capitolo il fitto che riscuoteva da Giuseppe Mannai per una bottega della casa: il censo annuo gli costava 162 lire e 10 soldi, col fitto incassava esattamente il doppio, cioè 325 lire, pertanto così facendo pagava il censo e restituiva altre 162 lire e 10 soldi per scalare il suo debito in poco più di 4 anni; fu costretto a cedere il fitto in quanto il Procuratore Generale del Capitolo lo avrebbe altrimenti costretto al sequestro dei suoi beni tramite il Tribunale.

Da altro atto notarile del 18.07.1804 risulta che sulla casa gravasse un censo di scudi 1300, la cui pensione veniva pagata al Capitolo Cagliaritano: è più che probabile che si tratti dello stesso censo acceso il 02.09.1794, capitale di proprietà del negoziante Juan Antonio Giorgelli; molti beni (o forse tutti) del Giorgelli, dopo la sua morte avvenuta nel 1796, diventarono infatti una proprietà del Capitolo. Nello stesso atto si riferisce che la casa era precedentemente gravata di una pensione annua di scudi 58 per una cappellania di cui godeva il Sacerdote Antonio Lixi (vincolo imposto dal testamento di Vincenzo Lixi, forse fratello di Antonio), e Russui aveva diversi debiti verso lo stesso sacerdote e verso Francesco Vodret; per estinguere tutti i debiti, per estinguere il censo del Capitolo di 1300 scudi e il censo di 300 scudi del Vodret (e provvedere all’educazione dei 4 figli), Russui ottenne da Vodret la somma di scudi 3500; per assicurare la pensione annua al 6% di 210 scudi , gli avrebbe ceduto gli affitti delle due botteghe, una affittata allo stesso Vodret per 180 scudi, l’altra locata a Giuseppe Mannai[2] per scudi 170; da questi affitti Vodret si sarebbe incaricato di pagare i 58 scudi della Cappellania (di cui già si occupava per un accordo del 17.01. 1801) restituendo al Russui gli 82 scudi che avanzavano. Questo dopo che il Russui, in data  10.03.1804, riuscì ad avere una carta Reale con la dispensa del vincolo imposto nel testamento dallo zio Vincenzo Lixi, vincolo che impediva di vendere la casa e di gravarla di ulteriori oneri.

Nel 1806 Russui fu costretto a pagare 840 lire ai fratelli Salvatore e Giuseppe Demeglio per una sentenza della Reale Udienza, e dovette pagare le spese processuali; inoltre doveva completare la “fabbrica” della stessa casa (nella quale nel frattempo era stato costruito un altro mezzo piano) per rendere più comoda l’abitazione e ricavare un fitto più vantaggioso; con atto notarile del 20.01.1806 ottenne quindi da Francesco Vodret un ulteriore prestito di 1500 scudi, con censo onerativo al 6%, e cedette al Vodret gli altri fitti percepiti su altre parti della casa, oltre a queli già ceduti delle due botteghe.

Viene specificato, negli atti del 1804 e del 1806, che la casa era stata comprata in pubblico incanto per 5120 scudi, il 15.09.1763, dal fu mercante Vincenzo Lixi, e proveniva dal “concorso” del fu Pietro Giovanni Mirello; il Lixi l’aveva legata al nipote Russui nel suo testamento del 31.12.1772. Non è chiaro il passaggio di proprietà fra Juan Bauptista Massa, già citato come antico proprietario, e il Mirello; quest’ultimo dovrebbe essere successivo al Massa.

Con atto notarile del 17.10.1810, Antonio Gemiliano Russuy ottenne altri 4000 scudi dal negoziante Francesco Vodret per far fronte a ingenti spese, e per garantire la restituzione ipotecò ancora la casa di Porta Villanova; in detto documento è scritto che il Russuy aveva già caricato la casa di due censi, uno di 3500 scudi, costituito nel 1804, e l’altro di scudi 1500, costituito nel gennaio 1806; entrambi erano in possesso di Francesco Vodret; il denaro era stato impiegato per pagare dei debiti, per ultimare la costruzione della casa, e per far fronte alle spese di mantenimento dei 4 figli, per i loro studi e per la carriera militare di due di loro; Russuy promise di restituire gli ulteriori 4000 scudi in 3 anni, pagando il 6% di interessi; la casa era composta da 2 piani e mezzo, oltre il piano terreno, ed era confinante da un lato con la casa Cima (2741) e con la casa dell’oratorio della Vergine d’Itria (2742), dall’altro lato con la casa delle sorelle Conti (2739); nell’atto è anche specificato che il nuovo censo (che sommato ai due precedenti portava il debito del Russuy verso il Vodret a 9000 scudi) era l’unica alternativa alla vendita della casa stessa.

Con atto del notaio Rocco Congiu del 25.04.1812 Gemiliano Russui si risolse a vendere la casa a Francesco Vodret, per un prezzo complessivo di 40000 lire (16000 scudi); prima della vendita fu valutata in lire 37687 soldi 5 e denari 11; Russui coinvolse nella vendita anche i suoi figli: Efisio e Michele sottotenenti nelle truppe provinciali, l’avvocato Luigi e Pasqualina; fra loro Efisio era l’unico di maggiore età (sopra i 25 anni), gli altri erano assistiti dal loro curatore Bernardo Rattu.

Russui nel corso del 1813 acquistò una casa in Quartu, dove forse si trasferì, e dove si sa che abitava nel 1825[3]

Nell’inventario dell’eredità del fu negoziante Francesco Vodret, del febbraio 1813, fra i numerosi beni del defunto è compresa (e dichiarata per prima) anche una casa grande di 2 piani e mezzo con due botteghe al piano terra e sotterraneo, situata nella piazza interna di Villanova, valutata lire 24304, cioè 9721 scudi e 30 soldi; confinava con la casa Cima, e con casa delle sorelle Anna e Antonia Conti; il fu Francesco Vodret l’aveva comprata da Antonio Gimiliano Russui. E’ probabile che la casa fosse diventata l’abitazione della famiglia Vodret; in data 13.12.1813 fu eseguita una nuova stima e il valore (utile per completare la divisione ereditaria) fu fissato in lire 31736, soldi 15 e un denaro; vi abitavano la vedova Grazia Vodret nata Isola e “altri affitavoli”.

Dopo il 1850 la casa 2740 apparteneva al negoziante e console di Roma Gregorio Vodret (1786-1863), figlio di Francesco e della sua terza moglie Grazia Isola.



[1] Antonio Gimiliano Russuy (o Russui), figlio di Giovanni Antonio e di Caterina Vera, era nato circa nel 1752, secondo una fonte a Desulo, ma più probabilmente a Sarule; secondo altra fonte era nato a Cagliari ed erano quindi i genitori provenienti da un paese dell’interno; il cognome sembra ora estinto, rimane la forma Rusui per lo più a Orani (a pochi km da Sarule); si sposò nel 1774 con Giovanna Demeglio, figlia di Gianuario, di origine napoletana, con la quale ebbe diversi figli

[2] Il Mannai, che sembra abitasse nella stessa bottega, probabilmente interruppe l’affitto della proprietà Russui nel corso del 1806: risulta infatti che in data 22.06.1807 ottenne in affitto una bottega con magazzino da donna Speranza Paglietti in una casa vicina, numero catastale 2738.
Giuseppe Mannai, mercante nativo di Ghilarza, utilizzava la bottega della casa 2470 insieme alla moglie Giuseppa Marini di Cagliari; i coniugi Mannai Marini il 18 marzo 1804 consegnarono al notaio Michele Cappai il loro testamento congiunto; Giuseppa Marini morì nel 1812, in quell’anno lei e il marito abitavano nei pressi della chiesa di San Bernardo (zona dell’attuale corso Vittorio Emanuele, all’altezza di via Tigellio).

[3] Risulta che il Russui abitasse in Quartu dal fascicolo di una causa civile del 1825, iniziata per i debiti che egli aveva verso diverse comunità religiose (ASC, Reale Udienza, Cause Civili, Cause civili, Pandetta 59, busta 8 fascicolo 11)

2741

Un atto notarile del settembre 1794, relativo alla casa Russui 2740, riporta alcune informazioni risalenti probabilmente al 1763, data di un precedente passaggio di proprietà della stessa casa 2740: secondo questo atto la casa 2741 apparteneva in precedenza a Pedro Calabres, poi a Juan Vassallo, poi a Juan Thomas Cuttis ed infine ai suoi eredi. Non vi sono conferme a queste notizie, e non vi sono collegamenti con coloro che risultano proprietari almeno dal 1788, come è riferito da altri documenti.

Un atto notarile del 15.07.1792 registra la divisione dei beni lasciati dal reverendo canonico Joseph Lebio ai suoi fratelli: il dottore in diritto Estevan e il negoziante Miguel Lebio di Stampace. Il canonico morì senza testamento il 12.12.1791, e fra gli altri beni aveva lasciato una porzione di casa e bottega sita nella Marina e piazza di Villanova, di fronte all’ufficio dell’Amostassen (2450).

La porzione di casa venne anche dichiarata nel donativo del 12.07.1799 da Miguel Lebio, che scrisse di esserne comproprietario col fratello Estevan, e precisò che la casa aveva 2 piani e una bottega; la sua parte di reddito annuo era soltanto di 20 scudi[1].

Il donativo del fratello dottor Estevan, per quanto senza data, è più preciso: dalla casa, composta da una bottega e 2 piani alti con 4 stanze in tutto, si ricavavano 100 scudi di affitto di cui 10 in elemosina; dei 90 rimanenti, a Estevan spettavano 4 parti delle 7 in cui era divisa; 35 scudi erano pagati pagati a suor Angela Pugu per la pensione relativa a un censo caricato sulla casa.

E’ stato rintraccaiato anche il donativo di Anna Lebio, sorella dei precedenti, presentato da suo marito dottore avvocato Francesco Antonio Guiany (Ghiani), dimoranti nella strada di Sant’Efisio in Stampace: possedeva la settima parte della casa sita presso la porta di Villanova; l’affitto totale era 100 scudi annui, la sua parte era circa 32 lire (considerando l’elemosina dichiarata dal fratello Estevan il calcolo è giusto, infatti 90 scudi equivalgono a 225 lire, la cui settima parte è poco più di 32 lire).

Con atto notarile del 10.08.1800 i fratelli dottor avvocato Estevan e Miguel Lebio, e i coniugi dottor Francesco Antonio Guiany e Annica Lebio, vendettero la casa per 1880 scudi al sassarese Ignazio Campus, domiciliato a Cagliari; nell’atto è chiarito che la casa era in precedenza del reverendo Bartolomeo Lebio che, col suo testamento pubblicato il 03.11.1788 dal notaio Francesco Antonio Porru istituì suoi eredi i fratelli dottor Estevan, il canonico Joseph, e Miguel Lebio, con legato alla sorella Annica Lebio; in particolare lasciò tutta la casa nella Marina e piazza della Porta di Villanova, sita davanti alla loggia dell’Amostassen, confinante da un lato a casa che era dell’Oratorio della Vergine d’Itria e poi di Bartolomeo Zenuardo (2742), dall’altro lato a casa che era di Juan Bauptista  Massa e poi di Antonio Gimiliano Russui (2740).

Il giorno successivo all’acquisto, Ignazio Campus vendette la casa Lebio per 1880 scudi al cioccolatiere e negoziante del Canton Ticino Filippo Cima, suo cognato[2]; Cima non pagò subito: restò un censo di scudi 1000 da restituire in 15 anni al cognato Campus, inoltre tenne per sé la somma di scudi 125 per pagare il frutto di altri piccoli legati a cui era soggetta la casa, e ottenne 700 scudi dal Monastero di Santa Chiara; avrebbe pagato sia a Ignazio Campus, sia al Monastero, gli interessi al 5%.

Due anni dopo, con atto notarile del 28.11.1802, pagò lire 3410, soldi 17 e denari 7 a diversi mastri artigiani per la “riedificazione” della casa., che venne sopraelevata di due piani.

Con ricevuta del 06.03.1804 estinse il censo di scudi 700 verso il Monastero di Santa Chiara ma, volendo spendere per la sua bottega, il cui fondo delle merci negli ultimi anni si era ristretto troppo, e trovandosi a corto di contanti, ottenne in data 17.06.1804 un ulteriore prestito di 1000 scudi da Ignazio Campus, anche in questo caso con interessi al 5%; dovette ipotecare la casa che, a seguito della riedificazione del 1802, era diventata ben più alta e di valore: aveva piano terra e 4 piani alti, contro i soli 2 piani alti dichiarati nel 1799 da Michele Lebio.

Con atto del notaio Carlo Franchino Amugà del 11.08.1808, Filippo Cima estinse il debito col cognato Campus: gli consegnò a saldo 1000 scudi più gli interessi dovuti, in tutto 1050 scudi. Non è chiaro se avesse già estinto l’altro censo, anch’esso di scudi 1000, o se dovesse ancora estinguerlo.

Filippo Cima risultava proprietario della casa 2741 ancora nel 1813, e lì nacquero i suo figli, avuti con Anna Maria Marchisoli, sposata nel 1790; Filippo morì nel 1828, la moglie nel 1846; dopo il 1850 la casa risulta appartenere al figlio Giovanni (1803-1873), morto celibe nella casa della piazza di Porta Villanova, ma è probabile che fosse una proprietà in comune con altri fratelli: fra questi , l’architetto Gaetano (1805-1878), e la sorella Rosa (1817-1883), morti, celibe e nubile, nella stessa casa.

Abbattuta a causa dei bombardamenti del 1943, è stata sostituita da un altro edificio, sulla cui facciata è stata posta una targa, copia di una più antica andata distrutta: “in questa casa nacquero e abitarono modestamente illustri Antonio Cima fisico, Gaetano Cima architetto”.



[1] I conti non tornano: 4 parti erano di Estevan, una di Anna; Miguel avrebbe dovuto avere 2 settimi della proprietà, circa 26 scudi sul totale di 90 dichiarato da Estevan.

[2] Campus e Cima erano coniugati con le due sorelle Maria Teresa e Anna Maria Marchesoli

 

 

2742     

Nel suo donativo del 22.06.1799, redatto dal suo procuratore Bartolomeo Zenoardo, l’Oratorio della Beata Vergine d’Itria dichiarò di possedere una casa in vicinanza alla Porta di Villanova, composta al piano terra da una bottega, dietro la quale vi erano una stanza ed una grotta, al 1° piano una saletta e due stanze, al 2° piano una saletta, una cucina ed un terrazzo; la casa era affittata allo stesso Bartolomeo Zenoardo, che doveva utilizzarla già da diversi anni, come risulta dall’interrogatorio di Giovanni Battista Gastaldi in una causa criminale del gennaio 1793: “....mi ritirai sotto la Casa di Bartolomeo Zanuardo posta dirimpetto all'ufficio dell'Amostassen”, e dalla testimonianza del muratore Giuseppe Schirru, nella stessa causa: “...siccome pur vidi chiusa la porta di Villanova, ci ritirammo un poco sotto le botteghe di Vodret (2743), e Bartolomeo Zanuardo (2742)”.

Dalla dichiarazione per il donativo del 1799 risulta che questa casa, come altre proprietà dell’Oratorio, provenissero da un legato testamentario del 1728 del confratello Gio Batta Alard di Nizza, col vincolo di “distribuire tanti vestiti a Signore povere.

Dagli atti dell’agosto 1800 citati per la casa Lebio (2741), si potrebbe desumere che la casa fosse in quell’anno una proprietà del Zenoardo, ma si tratta semplicemente di un riferimento poco preciso, non al proprietario ma all’occupante della casa.

Bartolomeo Zenoardo morì nel 1802; con atto notarile del 28.04.1803, del notaio Efisio Melis Armerin, il negoziante Eligio Alemand, in qualità di procuratore generale della confraternita della Ss.ma Vergine d’Itria, e confratello egli stesso, concesse la casa che era stata abitata dal defunto confratello Bartolomeo Zenoardo al confratello Francesco Baille, console (di Toscana); la casa fu concessa per anni 9, per il prezzo di scudi 152 annui, pagabii a mezza annata anticipata. La locazione fu accordata solo dopo che i membri della confraternita deliberarono su una disputa sorta fra lo stesso Baille e l’altro confratello Giacomo Arthemalle, che chiedeva anche lui la casa; fu scelto il console Baille perché la sua offerta era la migliore; nell’atto fu specificato che la casa, sita presso la piazza di Porta Villanova, proveniva dal “legato Alardo” e si trattava di una casa grande, composta da due piani alti e da una bottega. Dei pagamenti da parte del Baille si fece garante il cavalier Onorato Cortese, che sarebbe intervenuto in caso di inadempienza.

In data 12.12.1807 il canonico Domenico Rapallo, l’avvocato Michele Onnis e il negoziante Francesco Casale, “Governatore e congiunti della venerabile Confraternita dell’Oratorio della SS. Vergine d’Itria”, firmarono l’atto di enfiteusi della casa in favore dello “speziale dei poveri” Antioco Cossu di Iglesias, dimorante nella città di Cagliari[1]. La casa di due piani alti e il terreno è di certa identificazione grazie ai vicini già individuati: Russui (2740), Cima (2741), Vodret (2743), alle spalle la chiesa di Santa Rosalia (2748); fu concessa l’enfiteusi per la vita del Cossu, di sua moglie e dei suoi figli, col canone di scudi 150, col patto che l’enfiteuta avrebbe eseguito le riparazioni necessarie per scudi 500; la proprietà era ancora sottoposta al legato Alardo, ed era affittata fino ad allora al console e confratello Francesco Baille, a cui era stata offerta e che non intendeva però valersi della preferenza accordatagli.

Nell’inventario Vodret del 1813 la casa 2742 risulta “dell’oratorio della SS.ma Vergine d’Itria, posseduta dallo speziale Antioco Cossu”; il termine “posseduta” deve essere inteso in senso lato, cioè “occupata, utilizzata”, e si riferisce al contratto di enfiteusi.

Dopo il 1850 la casa risulta ancora appartenere all’Oratorio della Beata Vergine d’Itria.  



[1] dal 1799 il Cossu aveva la spezieria nella casa Tuveri/Paglietti 2738; era coniugato dal 1803 con Efisia Arthemalle, figlia di Lorenzo Leger Arthemalle e di Rosa Rapallo

 

2743 e 2744       

Appartenevano entrambe al negoziante Francesco Vodret, non si esattamente da quale anno: in atto notarile del 1792 relativo alla casa 2747 (nella strada di Santa Rosalia), è scritto che la casa dei guardiani della chiesa di S.Rosalia confinava “alle spalle a detta chiesa e a case della chiesa del S.Sepolcro e del neg.te Francesco Fodreti”: a parte quindi i confini che non coincidono esattamente con quanto risulta dalla mappa catastale, da quanto si è letto una delle case in questione doveva essere già da quell’anno di Francesco Vodret, mentre l’altra apparteneva alla chiesa del Sepolcro; in atto notarile dell’agosto 1799, relativo alla casa 2452 nella piazza di Porta Villanova, questa aveva di fronte le case di Francesco Vodret: in quell’anno era quindi proprietario di entrambe le case.

Un atto del notaio Rocco Congiu, del 14.04.1810, che risulta però annullato (ogni pagina è segnata con tre ricghe verticali), riporta una donazione fatta dal negoziante Francesco Vodret e da sua moglie Grazia Isola al figlio negoziante Gregorio: “Per dimostrare la riconoscenza e gratitudine per i viaggi fatti in tanti anni e per l’attendenza del negozio e per la docilità e obbedienza e affetto, e avendo contratto sponsali con la zitella Teresina Nossardi” viene confermata la donazione “di tutti i pegno d’oro e di argento e tutti gli abiti che ha avuto fino al presente”, e “gli concedono per anni 6 l’alimentazione e l’abitazione nel piano nobile della casa dove al presente vive il sig. Pietro Crobu Arthemalle, e per le nozze gli fanno donazione di scudi 2000, per acquistare tutti i mobili e suppellettili della casa, e il residuo lo impiegherà nel negozio per suo proprio vantaggio; detta casa è vicina e contigua a quella dove abita il donatore”.

La casa messa a disposizione di Gregorio dovrebbe essere quella con numero catastale 2744, quella di abitazione dei coniugi Vodret dovrebbe essere la 2743. Non si sa per quale motivo l’atto sia stato annullato, forse altri documenti potranno fare chiarezza.

Francesco Vodret morì “alle ore 6 circa del dopo pranzo” del 16.02.1813, nella sua casa di abitazione “nella piazza interna della Porta di Villanova nel quartiere della Marina”; il cadavere, vestito dell’abito di San Francesco fu sistemato in un letto piccolo di una stanza al piano terra; qui fu visto, per il riconoscimento, dal notaio e dai testimoni che avevano presenziato alla consegna del testamento (in data 24.08.1808), che fu aperto e letto il 17 febbraio dal notaio Rocco Congiu. Fra le tante disposizioni, confermò di aver donato alla moglie Grazia Isola, in data 14.04.1783, la casa della strada Barcellona, da lui comprata (2953). Eredi particolari sono i figli Ignazio, Gregorio, Anna, Angela, Giuseppa, Grazia e Marica Vodret Isola, nella legittima che comprende le doti già consegnate. Grazia Isola è erede usufruttuaria, e dopo la sua morte tutti i beni torneranno ai figli; i maschi Ignazio e Gregorio avranno, nelle loro porzioni, le case della Porta di Villanova, per le quali devono essere preferiti alle donne.

E’ inserito un legato di scudi 100 per Gaetano Desogus, agente di bottega, e uno di 50 scudi al di lui fratello Pasquale garzone di bottega; 15 scudi vanno a ciascuna serva, Francesca Mattana di Meana e Mariantonia Fois di Cagliari; 10 scudi vanno al garzone di casa Nicolò d’Angeli, napoletano.

Il 19 febbraio venne dato inizio alla compilazione dell’inventario dei beni del defunto, mobili e immobili; sicuramente ci volle parecchio tempo per completarlo: fu inserito dal notaio Rocco Congiu nel volume degli atti notarili insinuati del mese di agosto di quell’anno. Era stato richiesto dalla vedova Grazia Vodret nata Isola e dal curatore ed esecutore testamentario, il Reverendo Ignazio Vodret, figlio del defunto, beneficiato di Sant'Eulalia.

Il primo immobile dichiarato, probabilmente l’abitazione, è la casa 2740 acquistata di recente, valutata lire 24304; poi venne dichiarata la casa grande (2743) posta nella piazza interna della porta di Villanova, di 2 piani oltre il terreno con la bottega, confinante da un lato a casa dell’oratorio della SS.ma Vergine d’Itria (2742), per altro lato a casa della stessa eredità Vodret (2744); fu valutata lire 14367 e vi abitava l’avvocato Michele Floris, che vi ospitava già dal 1808 il maiolo Giuseppe Soggiu di Tiana; venne dichiarata un’altra casa grande nella stessa piazza (casa 2744), 2 piani e terreno, che “sporgeva nella strada di S.Rosalia” (cioè aveva una facciata su quella strada), confinante, dalla parte della piazza di Villanova, da un lato ad altra casa dell’eredità Vodret (2743), per altro lato a casa del Regio Ospedale (2745), dalla parte di Santa Rosalia da un lato a casa del distillatore La Rosa (casa De Rose 2746), per altro lato alla casa dell’Ospedale prima citata (2745), per le spalle alla chiesa di Santa Rosalia; valutata Lire 11357, era stata presa in enfiteusi dal Vodret dalla chiesa del Sepolcro con l’annuo canone di scudi 80, capitale scudi 1600, e vi abitava Gregorio Vodret, (che si era sposato nel 1810 con Teresa Nossardi).

Il 13.12.1813 fu eseguito un nuovo estimo su entrambe le case: quella con numero 2743 fu valutata lire 15531, soldi 4 e denari 7, quella con numero 2744 lire 17989 e soldi 5.

La casa 2743 potrebbe essere quella dove aveva abitato fino a poco tempo prima lo stesso Francesco Vodret, con la moglie Grazia Isola e con i figli sacerdote Ignazio e Angela, separata dal secondo marito Primo Lezzani e tornata a vivere con i genitori; Francesco Vodret, nel suo testamento aveva espresso il desiderio che, dopo la sua morte, la sua vedova con i figli continuassero a vivere insieme; ma è probabile che la famiglia si fosse da poco trasferita nella casa 2740, acquistata di recente.

Dopo il 1850 la casa 2743 apparteneva in parte al barone Salvatore Rossi (1775-1856), il quale aveva sposato Grazia Vodret (1779-1862), figlia di Francesco, in parte ad Angela Vodret vedova Lezzani (1774-1855); la casa 2744 apparteneva agli eredi del negoziante Giacomo Ignazio Federici (-1829) che aveva sposato nel 1790 Maria Anna Vodret (1771-1849), altra figlia di Francesco. Fra i proprietari della casa 2744 è inserito anche il medico Giovanni Floris Cojana con i figli Marco Aurelio e Luigi: egli aveva sposato nel 1829 Luigia Federici (-1843), una delle figlie di Giacomo Ignazio.

Probabilmente il negoziante Federici abitava in una delle case Vodret già dal 1808, come risulta dall’elenco dei maioli di quell’anno, dove è riportato che in casa Federici, nella piazza di Porta Villanova, viveva il maiolo Giuseppe Cosseddu di Bitti.

 

2745

Era la casa all’angolo fra la piazza di Porta Villanova e la discesa di Santa Rosalia e fu venduta nel 1775 dalla “Regia Congregazione Deputata dall’Ospedale di Cagliari” e acquistata (probabilmente in enfiteusi) dal nuorese Juan Guiso; il Guiso morì nel 1777 senza poter fare le riparazioni di cui la casa necessitava; nel 1792 la proprietaria era sua figlia Rita (vedova del notaio Giovanni Battista Tanda) che, dovendo riparare con urgenza la casa, si accordò col negoziante Michele Gianone: la casa consisteva in 3 piani e 2 botteghe, una dalla parte della Piazza di Porta Villanova, dirimpetto all’ufficio dell’Amostassen, l’altra nella strada di S.Rosalia; Gianone avrebbe procurato alla vedova Guiso i materiali e la mano d’opera che le servivano, e le avrebbe procurato tutto il caffè e lo zucchero necessario per la caffetteria che la vedova pensava di stabilire nella bottega in S.Rosalia; la Guiso si impegnò a dare in locazione al Gianone l’altra bottega davanti all’Amostassen e il 1° e il 3° piano della casa, per 120 scudi annui, riservandosi per il proprio utilizzo il 2° piano e l’altra bottega.

Rita Guiso si risposò nel 1793 col notaio e segretario Agustin Vissente Bonatto il quale, nel donativo congiunto dei coniugi, senza data, dichiarò la proprietà della casa al primo ingresso della strada di Santa Rosalia, composta di 3 piani, 7 stanze e 2 botteghe, da cui ricavavano 120 scudi annui; la Guiso ne occupava ancora due stanze che si sarebbero potute affittare per scudi 16 annui.

In data 25.08.1808 il notaio Bonatto, infermo nel suo letto, dettò il testamento al notaio Francesco Antonio Cica; nominò curatrice ed erede universale la “carissima moglieRita Guiso, chiedendo di essere sepolto nella chiesa dei padri Osservanti di Santa Rosalia oppure nella chiesa di San Mauro di Villanova; la casa di abitazione era “propria della moglie, nella Marina e strada di Santa Rosalia, vicino alla Porta di Villanova”; morì nel 1809.

Nell’inventario Vodret del 1813, già citato per le case confinanti, la casa in questione è indicata come “casa del Regio Ospedale, posseduta (in enfiteusi) dalla vedova Rita Ghisu”.

Dopo il 1850 apparteneva a Salvatore Brundu (1785-1867), colonnello in ritiro, che vi morì il 06.05.1867.

E’ interessante aggiungere alcuni particolari genealogici: i genitori di Rita Guiso erano il nuorese Juan Guiso Mannironi e Maria Angela de Romagnino; questa è la trascrizione del battesimo di quest’ultima, registrato in S.Eulalia il 10.11.1725: “...cristiana nuova, niña, natural del lugar de Gigiri (Algeri) en Barberia, no se saben los nombres de sus padres; y la niña es esclava de edad de seis annos ad summum”; padrini, e probabilmente padroni, erano il mercante di Varazze Giuseppe Romagnino (che diede alla bambina il suo cognome, preceduto dal “de”) e sua moglie Maria Isabella Lay; in data 07.07.1753 Maria Angela de Ramonino (o Ramognino, Romagnino), ancora definita “cristiana nuova”, sposò in Sant’Eulalia Juan Guiso Manirony di Nuoro, figlio di Giovanni Antonio Guiso Manironi e di Barbara Nieddu.

 

2746     

In atto notarile del 23.04.1792 questa casa risulta appartenere al convento dei Padri Mercedari di Bonaria.

Con atto del notaio Francesco Antonio Vacca del 17 aprile 1804, i Padri Mercedari rappresentati dal Reverendo Eusebio Natter, Commendatore del Convento, e il distillatore svizzero Alessandro De Rose, fecero stimare l’immobile dal muratore Francesco Usai; egli constatò che si trattava di una casa con piano terreno e due superiori, con facciata nella strada della chiesa di Santa Rosalia; vi erano due porte nella facciata per il sottano e un’altra porta piccola che portava ai piani alti; nella sala al primo pano vi erano due balconi in ferro che davano sulla strada, una piccola cucina con una finestrina sulla facciata, poi l’alcova, un’altra stanzina e una scala di tavole vecchie che portava al secondo piano; qui si trovava una piccola cucina con accesso alla cisterna, con una piccola finestra che dava su un tetto, mentre sul davanti vi era la camera con alcova con due finestre sulla strada, con balaustre di legno, ed un’altra stanzina stretta con una finestrina che dava alla medesima strada. La casa fu stimata per lire 2932, soldi 16, denari 8.

Due giorni dopo, il 19 aprile, venne stabilita l’enfiteusi della casa ai coniugi Alessandro De Rose ed Elena (Ruggeri) Valdes, che avrebbero dovuto costruire un altro piano; fu stabilito il canone di scudi 70 e De Rose ipotecò il “dominario di case" che possedeva in Quartu, nel vicinato di Santa Maria.

Nel 1806 il distillatore di Basilea Luigi Alessandro De Rose dichiarò nel suo donativo la casa di abitazione nella strada di Santa Rosalia, in enfiteusi dal Convento di Bonaria, a cui pagava 70 scudi all’anno; i Padri Mercedari, nel loro donativo del 1812, dichiararono di ricevere annualmente dal De Rose lire 175 (cioè 70 scudi) per il canone di una casa nella strada Santa Rosalia. A conferma di quanto detto, in un atto del luglio 1813, relativo alla casa 2747, la casa confinante a quest’ultima è quella De Rose (chiamato Bellarosa); inoltre, nel già citato inventario Vodret del 1813, la casa 2744 risulta confinante dalla parte della strada di Sante Rosalia con la casa della vedova Ghisu (cioè Guiso) (2745) e con la casa del distillatore La Rosa (cioè De Rose), casa 2746.

Luigi Alessandro Derose morì nel 1825; in data 21.10.1827, Elena Derosas nata Ruggeri Valdes, proveniente da Quartu e stabilita in Cagliari da molti anni, vedova del fu Luigi Alessandro Derosas, scrisse il suo testamento nella propria abitazione posta nella Marina e strada di Santa Rosalia e lo consegnò al notaio Pietro Doneddu; designò suoi eredi i figli Rafaele, Efisio, Carlino, Pietro, mentre alla figlia Marianna, coniugata col dottor Bernardino Serafino, destinò solo la quota legittima; Elena Derose (o Derosas) aveva delle proprietà anche a Quartu, in particolare una casa nel quartiere di Santa Maria Cipudda (Cepola), che destinò ai figli Pietro ed Efisio; morì nel 1839. 

Dopo il 1850 la casa 2746 apparteneva al caffettiere Giovanni Murgioni figlio del fu Raffaele.

 

2747     

In atto notarile del dicembre 1789 la casa 2747 risulta appartenere alla “nacion siciliana”, vale a dire alla congregazione di Santa Rosalia; in altro atto (già citato nel precedente paragrafo) del 23.04.1792 i “Guardiani della Chiesa di S.Rosalia Martire della Nazione Siciliana” firmarono un censo onerativo di 1200 scudi con pensione al 5% in favore delle nobili sorelle Caterina e Giovanna Alesani, e ipotecarono la loro casa sita in calle di Santa Rosalia, composta da due piani alti con i sottani, confinante da un lato con la chiesa di Santa Rosalia, e dall’altro con una casa del Convento dei Mercedari (2746); detta casa era stata fabbricata su un terreno della “città di Cagliari”, cioè municipale, e messo a disposizione dei guardiani di S.Rosalia, con atto del notaio Antiogo Delvecho del 26.08.1695.

Nel donativo del 1799, scritto dal guardiano secondo Paolo Cojana, la Congregazione di Santa Rosalia denunciò una casa in vicinanza della chiesa, composta da 2 piani con 12 piccole stanze e 2 botteghe; se ne ricavavano 300 lire di affitto annuo, e si pagavano 150 lire (cioè 60 scudi, il 5% dei 1200 scudi di censo) alle sorelle Alesani per annua pensione.

Con atto notarile del 30.08.1801, il guardiano in capo e il guardiano terzo dei nazionali Siciliani, cioè il nobile barone di Samatzai don Pietro Cervellon e Pietro Gianquinto, affittarono all’orefice Pasquale Coiana, per anni 6 a partire dal 01.09.1801, tutta quella casa composta da due piani e due sottani situata al lato della chiesa di S.Rosalia, per scudi 110 annui, pagabili a mezze annate anticipate.

Pochi giorni dopo, il 12 settembre, ebbe inizio una causa civile fra Pasquale Coiana[1] contro il caffettiere Nicolò Scano; Pasquale Coiana pretendeva che Nicolò Scano lasciasse subito libera la casa della Nazione Siciliana situata nella Marina e contrada di S.Rosalia, dovendo egli disporre della casa; lo Scano occupava come locatario il primo piano, sua abitazione, e la bottega, ed il primo di ottobre scadeva la mezza annata del suo contratto d’affitto; lo Scano si rifiutò di abbandonare la casa, dichiarando di abitare nella casa sin dal 19.10.1784, e di aver sempre pagato il dovuto.

Si riportano testuali alcune parole di Nicola Scano:il Coiana sostiene un collusivo contratto, con grandissimo pregiudizio degli interessi della nazione (siciliana), con la tema di venire scoperte le inutili spese che per suo comodo ha fatte nella casa senza vantaggio per la casa stessa”; inoltre afferma che “…non ha mai inteso competere con una persona potente e capricciosa, che non bada a qualunque spesa per sortire il di lui intento; …….atteso il caro prezzo delle mercanzie negli scorsi anni, al presente trovasi ridotto a termini quasi di mendicare, e per conseguenza non pensa sostenere lite alcuna”.

Il 19.12.1801 Nicolò Scano venne costretto a sloggiare dalla casa, ma solo dal 01.04.1802, cioè alla fine del suo contratto annuale.

Nel novembre del 1811 i coniugi Pasquale Coiana (1749-) e Anna Maria Palmas consegnarono il loro testamento al notaio Gio Battista Cicalò Galisai; la consegna avvenne nella loro casa di abitazione, sita nella strada di Santa Rosalia, al lato della chiesa; non è nota la data di morte dei coniugi Coiana; Anna Maria Palmas era la seconda moglie dell’orefice, sposato una prima volta nel 1773 con Chiara Sciacca, da cui ebbe diversi figli.

Con atto notarile del 13.07.1813 i guardiani nazionali di Santa Rosalia (il cavalier Ignazio Aimerich Zatrillas, il misuratore reale Pasquale Piu e Sebastiano Gianquinto) concessero in enfiteusi vitalizia la casa, confinante con la chiesa, a Carlo Conti tenente Amostassen, per 130 scudi annui; il Conti però avrebbe potuto prendere possesso della casa solo nell’agosto del 1814, allo scadere dell’affitto con l’argentiere Pasquale Coiana, che pagava 110 scudi annui; era una casa composta da 2 piani terreni e 2 superiori, quindi era divisa in due corpi distinguibili.

Dopo il 1850 la casa risultava appartenere a donna Matilde Decesaroni, vedova Pollini. 



[1] i fratelli Paolo, Pasquale e Bernardo Cojana erano di origine trapanese; il loro cognome originario era Guaiana o Guajana, ancora presente in Sicilia, tra Palermo e Trapani

 

2748     

Corrisponde alla chiesa di Santa Rosalia

 

2749     

Da atti notarili del 1800, del 1802 e del 1806 risulta essere una proprietà della chiesa di Santa Rosalia, e da altre notizie riportate in atti notarili del 1810, 1812 e del 1813 si identifica con la sagrestia.

Fra i dati del catasto di metà ‘800 non è stato rintracciato nessun riferimento a questa unità immobiliare, con tutta probabilità annessa alla chiesa, come dimostrano le mappe catastali di primo ‘900, nelle quali l’unità 2749 è tutt’uno con la chiesa di Santa Rosalia.

 

2750     

In atto dell’aprile 1798 ci si riferisce a questa casa come quella che era del defunto canonico Contu, mentre nel donativo di Michele Ciarella del 1807 è scritto che era “casa delle Orfanelle”; quest’ultimo dato è confermato da atto notarile del 22.04.1812, quando l’avvocato Raimondo Lepori, come sindaco del Reale Conservatorio delle figlie della Provvidenza, vendette una casa in “stato rovinoso” identificata con l’unità catastale 2750, sita fra la sagrestia di Santa Rosalia (2749) e la proprietà Ciarella (2751), all’orologiaio Antonio Besson; il prezzo pagato da Besson fu di scudi 1100, inferiore a quanto stimato dai periti (scudi 1356 e spiccioli); la proprietà negli anni successivi tornò al Conservatorio, così risulta dal Sommarione dei Fabbricati di metà ‘800.

 

2751     

Un atto dell’aprile 1798 ci fornisce alcune informazioni su questa proprietà: era una casa adibita a magazzino composta da un “sòttano” e due piani alti, ed era appartenuta, anni prima, al canonico don Giuseppe Zenugiu, poi a don Michele Humana [1]; quest’ultimo l’aveva ceduta al Capitolo Cagliaritano con atto del 09.01.1798; in data 21.04.1798 il reverendo don Pasquale Manca, Presidente del Capitolo, la cedette al conte Michele Ciarella per 600 scudi.

Nel suo donativo del 1799 il conte Ciarella dichiarò di possedere un magazzino, detto di Senuccio (cioè Zenugiu) con piano alto e piano basso, non affittato, da cui poteva ricavare lire 75; nei donativi presentati nel 1806 e nel 1807 dichiarò invece che la casa era composta da un “sòttano” e due piani alti ognuno di 6 stanze, aveva il valore di lire 5500, e ne ricavava 250 lire; evidentemente in quegli anni aveva potuto ricostruirla e sfruttarla al meglio.

Dopo il 1850 risultava appartenere al segretario Pietro Frau (1790-1864), figlio del fu Stanislao. 



[1] il passaggio di proprietà fra i Zenugiu e gli Humana potrebbe essere legato a una parentela: si ha notizia del matrimonio fra don Antonio Zenugiu, giudice della Reale Udienza, e donna Gerolama Humana (defunta vedova fra il 1792 e il 1798), probabilmente cugina prima di don Michele (1740-1813)

2752

Da una causa civile iniziata nel 1793 (relativa alla casa 2805) risulta che la casa 2752 appartenesse, nel 1772, agli eredi del mastro Antonio Del Valle, morto nel 1767; da atto notarile di aprile 1798 (relativo alla casa 2751) risulta invece appartenere al dottore in diritto Giuseppe Maria Tarena; dal donativo delle sorelle Giovanna e Caterina Alesani, del 1799, si sa che il dottor Tarena pagava alle sorelle Alesani la pensione di 7 scudi e mezzo per un censo di 150 scudi, al 5%, caricato sulla casa della strada del Portico di Santa Rosalia, detta anche strada di Espinoza; il dottor Tarena, nel suo donativo del 12.03.1804, dichiarò che si trattava della sua abitazione, era composta da un “sòttano” e due piani di 4 stanze, pagava 5 scudi annui di pensione agli eredi Ponsiglione, e altri 7 scudi su un censo di 150 scudi al 5% (dovrebbero essere in realtà 7 scudi e mezzo) a Luisa Melis e Francesca Revest, le quali probabilmente avevano acquisito il censo delle sorelle Alesani.

Un atto del notaio Efisio Usai Todde, del 17.09.1804, spiega meglio la situazione: l’avvocato Giuseppe Maria Tarena comprò la casa per 800 scudi dalle sorelle Anna Maria, Maria Ignazia e Rosa Del Valle (sicuramente eredi di Antonio Del Valle, forse sue figlie) in data 04.12.1786[1]; l’avvocato Tarena, in quell’occasione, ottenne in prestito 300 scudi dal medico Pietro Giovanni Demelas, a cui pagava l’interesse al 5%, con ipoteca sulla casa; dopo la morte del medico Demelas, i suoi figli, in data 23.07.1793, cedettero la proprietà censuale di 300 scudi alle nobili sorelle Caterina e Giovanna Alesani; con atto del 10.01.1795 il dottor Tarena consegnò alle sorelle Alesani 150 scudi, dimezzando il censo, la cui pensione si ridusse a 7 scudi e mezzo annui; in data 14.09.1802 le sorelle Alesani dichiararono che il censo, prima di 300 scudi, poi di 150, era in realtà una proprietà di donna Giovanna Armerin alla quale avevano già consegnato i 150 scudi restituiti dal dottor Tarena; donna Govanna Armerin in data 01.07.1802, poco prima di morire, aveva donato il censo residuo di 150 scudi alle sue nipoti Luigia Melis vedova Caxini e Francesca Revest, moglie di Giacomo Arthemalle; il dono fu fatto per ringraziare le due nipoti per tutti i favori da loro sempre ottenuti, lasciando loro l’incarico di far celebrare in perpetuo una messa annuale nella chiesa di Sant’Eulalia; col citato atto del notaio Todde, del 1804, le due cugine Melis e Revest[2], “bramando entrambe avere la loro porzione”, cedettero il censo alla Congregazione del Santissimo Sacramento.

Il conte Ciarella, nel suo donativo del 1807, citò il Tarena come vicino della proprietà Ciarella 2751.

In atti notarili del 1801, del 1802, del 1809, del 1811 e in una causa del 1812, la casa 2752 è invece indicata ancora come quella degli eredi del già citato Antonio Delvalle; in atto notarile del 28.12.1810, relativo alla vendita della casa 2753, questa confinava dalla parte di maestrale con “la casa che possedeva mastro Antonio Delvalle vettriere, ed oggi il signor Andrea Tarena”.

Giuseppe Maria Tarena, sposato con Rosa Dugoni, morì nel 1816; non si sa esattamente chi fosse Andrea Tarena, è ovvio pensare che fosse un figlio di Giuseppe Maria, sempre che il nome Andrea sia stato usato correttamente [3].

Dal Sommarione dei Fabbricati, dopo il 1850, la casa 2752 apparteneva al negoziante e cappottaro greco Cristoforo Pachi.

 



[1] Non si hanno molte informazioni su questa famiglia: Antonio Del Valle (o Delvalle), mastro vetraio, morì nel 1767; nel 1786, quando fu venduta la casa, Anna Maria Del Valle, una delle sue eredi, era vedova; la sorella Maria Ignazia era coniugata con Giacinto Buffa da cui ebbe almeno due figli (una figlia nata nel 1773); non si hanno notizie dell’altra sorella Rosa.

[2] Donna Giovanna Armerin era figlia del cavaliere Giovanni Battista Armerin (-1781) e di Maria Agnese Codoneo (1709-1780); sua sorella Rosa, nata nel 1738, sposò il francese Pietro Revest e da loro nacque Francesca la quale sposò nel 1802 Giacomo Arthemalle (1762-1840); l’altra sorella Anna Maria era invece sposata dal 1761 col notaio Pietro Giuseppe Melis, e da loro nacque Luisa, che sposò nel 1795 Antonio Caxini, e nel 1804 era vedova. 

[3] Giuseppe Maria Tarena, figlio del medico Salvatore e di Teresa Marcello, sposò Rosa Dugoni nel 1773; da loro nacquero almeno 7 figli fra il 1776 e il 1786; non risulta nessun figlio chiamato Andrea, da qui l’ipotesi che il nome Andrea, riportato nell’atto notarile del 1810, sia un errore.

 

2753     

Nel luglio 1797 apparteneva a Maddalena Tuveri che, vedova e in difficoltà finanziarie, fu costretta a ipotecarla per far fronte alle richieste di suo genero, il negoziante Pasquale Ponsillon; questi rivendicava un credito di 470 scudi, prestati il 01.02.1792 al suocero Giovanni Medail, marito di Maddalena Tuveri, pochi mesi prima della morte dello stesso Medail.

La casa proveniva dai beni dello speziale Antiogo Tuveri, il quale possedeva anche la casa 2738, alle spalle della casa 2753; nel 1769 la prima fu ereditata dal figlio Michele, mentre la casa 2753 fu ereditata dalla figlia Maddalena.

Un atto notarile del settembre 1801 ci informa infatti che la casa era appartenuta alla defunta Giuseppa Floris, poi al Capitolo, e poi agli eredi del “Boticario” Antiogo Tuveri di Forru (Collinas), morto nel 1769.

Da atto notaile del 16.03.1803, relativo alla casa confinante 2754, risulta che la casa appartenesse alla vedova Cordilia nata Tuveri; si tratta sicuramente di Maddalena Tuveri e venne fatta una certa confusione sulla sua situazione familiare: la donna era infatti vedova, dal 1792, di Giovanni Medail, il quale aveva sposato in prime nozze Anna Cordiglia, in seconde Maddalena Tuveri, già vedova di Pietro Allemand; non risulta che la Tuveri si sia sposata in terze nozze con un Cordiglia; la confusione potrebbe essere nata anche dal fatto che nello stesso atto viene citato don Giuseppe Olivar come proprietario della casa frontale 2771: in realtà la casa apparteneva a sua moglie, donna Francesca Cordiglia.

Maddalena Tuveri morì il 23.01.1809; il suo testamento, curato dal notaio Francesco Angelo Randaciu, era del 08.12.1808, eredi i suoi figli Andrea, Luigi, Simone e Anna Medail; il 14.06.1809 fu completato dal notaio Venanzio Campus l’atto di inventario dei suoi beni mobili e immobili, fatto dal figlio Simone Medail, a cui fu dato il permesso, nonostante l’assenza dei suoi fratelli e coeredi, dal Reggente della Reale Cancelleria; la donna era morta nella sua casa di abitazione nel quartiere di Stampace, nella strada di Santa Restituta; oltre alla casa in Stampace possedeva anche una bottega nella Marina, presso la Porta di villanova (2738), e una casa nel portico di Padri Osservanti di S.Rosalia corrispondente al numero catastale 2753[1], composta da piano terreno e due piani alti; la bottega fu stimata lire 2106, soldi 2 denari 10, la casa fu stimata lire 3657, soldi 10, denari 7.

Per le sentenze del tribunale del 07.10.1809 e del 21.02.1810, gli eredi Medail, cioè i fratelli Andrea, Luigi e Simone Medail Tuveri figli dei defunti Giovanni Medail e Maddalena Tuveri, e i fratelli Giovanna, Efisia, e Michele Ponsiglione Medail, figli dei defunti Pasquale Ponsiglione e Anna Medail (sorella dei precedenti), dovettero vendere due case e due proprietà censuarie provenienti dalla eredità “della fu loro madre e avola Maddalena Tuveri vedova Medail”; la vendita fu stabilita per lire 4699, soldi 3 e un denaro; si arrivò alla cessione dei beni per poter effettuare la divisione dell’eredità dopo la morte di Maddalena Tuveri e per i disaccordi fra gli eredi; le due case erano situate una alla Marina, strada del Portico di Santa Rosalia, l’altra in Stampace, strada di Santa Restituta; provenivano entrambe, unitamente alle proprietà censuarie, dall’eredità di Antioco Tuveri, secondo la divisione fra Maddalena e Michele Tuveri.

I beni furono venduti in data 28.12.1810 al causidico Bernardo Rattu; la casa di S.Rosalia era composta da due piani ed un magazzino.

Pochi giorni dopo, il 02.01.1811, i fratelli Ponsiglione ricomprarono gli stessi beni dal causidico Rattu, che in accordo con loro si era prestato per permettere la transazione e per dare il tempo ai compratori di racimolare la somma richiesta.

In una causa del 1817, fra i beni degli eredi Posiglione sono compresi una casa col suo magazzino nella strada di Santa Rosalia (cioè del portico); nel catasto di metà ‘800 la proprietà dell’unità 2753 risulta del negoziante Michele Ponsiglione (1799-), figlio di Pasquale e di Anna Medail.  



[1] Nell’atto di inventario è scritto che questa casa si trovava "nella Marina e strada di Fra Luis Grech, ossia nel portico di Padri Osservanti di S.Rosalia"; il riferimento è decisamente errato ed insolito: infatti la strada di Fra Luis Grech corrispondeva a una parte della strada di Monserrato; è giusta invece la collocazione nella strada del Portico degli Osservanti, ossia l’attuale via Principe Amedeo; si può forse attribuire al notaio Campus, che abitava in Stampace ed era nativo di Quartu, una scarsa conoscenza del quartiere La Marina 

 

2754

Dall’atto di ipoteca della casa Tuveri 2753 si sa che nel 1797 la casa 2754 era una proprietà del Capitolo Cagliaritano; questa informazione è confermata dall'atto di donazione del 1802, relativo alla casa 2755; con atto notarile del 16.03.1803 il Capitolo Cagliaritano vendette la casa per 600 scudi (pagabili con rate annue da 100 scudi) al Reverendo Beneficiato Cerimoniere del medesimo Capitolo, Dottore Ignazio Deplano, col patto che se il Deplano fosse morto entro 3 anni il Capitolo avrebbe avuto il diritto di riacquistare la casa con le stesse condizioni di vendita, comprese le eventuali migliorie apportate dal Deplano; una preziosa informazione fornita da quest’ultimo atto è che l’edificio era chiamato “casa Moi”, dal nome di un più antico proprietario.

In data 15.08.1806 l’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignore Ignazio Deplano, Proto Notaro Apostolico e Canonico Prebendato della Primaziale, Teologo Collegiato, fece eseguire l’estimo della sua casa, situata nella strada e Portico di Santa Rosalia, dal mastro muratore Rocco Puxeddu e dal mastro falegname Francesco Crobu; essi la valutarono per scudi 1441 e soldi 4; viene specificato che nel 1803 era in stato rovinoso e inabitabile.

La proprietà è confermata da un atto del dicembre 1810, relativo alla casa 2753, la quale confinava lateralmente “alla casa che era del Reverendo Capitolo, ed oggi la possiede il Reverendo Canonico Deplano”; le stesse informazioni sono riportate in altro atto notarile del 1813, relativo alla casa 2755; in un documento rintracciato nell’archivio di Sant’Eulalia, datato 08.03.1815 e relativo alla casa 2736, è invece citato il Capitolo come proprietario della casa 2754; potrebbe essere una inesattezza, ma è possibile che il Capitolo, forse dopo la morte del Deplano, avesse riacquistato la casa.

Un documento del Regio Demanio, datato 20.04.1836, relativo alla casa 2755, riferisce invece che la casa confinante  apparteneva al segretario della Reale Udienza Notaio Giuseppe Isola (-1860). 

Dopo il 1850 la casa 2754 apparteneva ancora a Giuseppe Isola, Segretario della Corte d’Appello.

 

2755      vedi 2735

 

2756, 2757, 2758, 2759                   

Tutte le case, ovvero le 4 unità catastali, comprese fra la 2755 (proprietà del duca di San Pietro) e la 2760 (casa Carta), risultano appartenere alla chiesa di San Giorgio e Santa Caterina, quindi all’Arciconfraternita dei Genovesi. Posteriormente avevano il giardino e la sagrestia della chiesa, e sono citate in diversi atti notarili fra il 1792 e il 1813, oltre che nei donativi della stessa Arciconfraternita.

E’ possibile che possano corrispondere, così come l’area 2734, a una donazione fatta all’Arciconfraternita nel 1618 dai fratelli genovesi Gerolamo e Giò Batta Cavassa, ed anche alle case di Barbara Puchio e Nicolao de Avernia, acquistate dall’Arciconfraternita nel 1635 con lo scopo di edificare un ospedale, progetto che non fu però mai realizzato[1].

Nell’agosto 1798 furono spese lire 7182, soldi 1 e denari 4 per farle riedificare dai mastri Efisio Atzeri muratore, Marcantonio Mereu falegname, e Vincenzo Lugues ferraro; le tre case servivano alla chiesa come garanzia dei legati lasciati da Luigi Belgrano, Gio Domenico Asserotto e Bernarda Ayraldo, per un totale di lire 4240.1.4, e nel 1798 vi vennero caricati anche i pesi dei legati di Giacomo Beltran e di Domenico Ottone.

Nel loro donativo del 1799 i guardiani dell’Arciconfraternita di Santa Caterina dichiararono di possedere nella strada di Spinosa, cioè strada del Portico di Santa Rosalia, una casa piccola con piano terreno e 2 piani, e la casa di fianco alla precedente; quest’ultima era una casa grande che derivava dall’unione di 2 piccole, comprendeva 2 sottani, e 2 piani. Le stesse informazioni sono presenti nella dichiarazione per il donativo del 1807 della stessa Arciconfraternita, e in questo caso è specificato che le due case, confinanti fra loro, erano comprese fra la casa della marchesa d’Albis (ex casa Carta, numero 2760) e la proprietà del duca di San Pietro (2755), e avevano davanti le case Pau (2768 e 2769).

Questa descrizione non coincide con quel che si vede nella mappa (di metà ‘800), dove son segnate ben 4 case o unità catastali: la casa grande, unione di due più piccole, potrebbe essere la casa 2758, la casa piccola potrebbe essere la 2759, che probabilmente non era così profonda come riporta la mappa, mentre le due piccole unità 2756 e 2757 è possibile che fossero aree libere da costruzioni, tenute a giardino o cortile, e a ingresso per il giardino interno e la sagrestia (2734).

L’ipotesi che il cortile o giardino fosse in passato più grande è avvalorata anche da alcuni atti notarili di quegli stessi anni, relativi alla casa Bonorino 2761/2763, e ad atti relativi alla casa Carta 2760: queste case avevano alle spalle il giardino di Santa Caterina che, evidentemente, negli anni successivi fu smembrato e venduto per allargare le case o i cortili confinanti.

Nel documento del 1836 rintracciato fra le carte del Regio Demanio, relativo alla casa 2755, lateralmente a questa e corrispondente all’unità 2756, vi era una casa dell’Arciconfraternita dei Santi Martiri Giorgio e Caterina.

Fra i dati del Catasto urbano di metà ‘800 non si è trovato nessun riferimento alle unità 2756 e 2757, mentre le unità 2758 e 2759 risultano appartenere anche in quell’anno all’Arciconfraternita. 



[1] Isabella Zedda, “L’arciconfraternita dei Genovesi in Cagliari nel Sec. XVII”

 

2760     

Era la casa del muratore Demetrio Carta; se ne ha notizia da una causa civile del 1781, iniziata per una disputa fra il Carta e la chiesa di Santa Caterina, e vi si legge che il Carta era proprietario della casa almeno dal 1766.

La disputa riguardava l’apertura di una finestra nella casa Carta che guardava verso la casa e il giardino della Chiesa, nonché l’utilizzo dell’acqua piovana che il Carta, modificando le pendenze del tetto, era riuscito a convogliare verso la sua cisterna a discapito della casa confinante.

Demetrio Carta morì nel giugno del 1792, lasciando la vedova Gerolama Cervia e i 3 figli Michele, Raimondo e Simone, di cui gli ultimi due minori di 25 anni, quindi ancora minorenni. Nell’inventario dei suoi beni, compilato nel mese di luglio, è compresa la casa alta in calle di Santa Teresa (chiamata in altro punto dello stesso atto strada di Santa Rosalia), che aveva davanti la chiesa di S.Teresa (o meglio la parete laterale della chiesa), di spalle il giardino della chiesa di S.Caterina martire (che era più grande di quanto ci fanno capire le mappe, dato che da altre fonti si sa che questo giardino arrivava anche fino alla proprietà Bonorino 2761/2763), da un lato la casa di Juan Bollorino (Bonorino), dall’altro lato una casa della chiesa di S.Caterina (2759), e fu stimata lire 3433.12.6. Non inganni il riferimento alla strada di Santa Teresa: era uno dei diversi nomi con cui veniva chiamata l’attuale via Principe Amedeo.

Nell’inventario è anche specificato che la casa fu comprata dal Carta con un censo ottenuto dal monastero di S.Caterina da Siena il 31.03.1764, con atto del notaio Juan Francisco Pichy. La vedova non firmò l’inventario per non saperlo fare, firmò invece il figlio Michele Carta.

Come spesso avveniva dopo il decesso del capofamiglia, unica fonte di reddito, nel novembre 1799, a causa dei debiti accumulati, la casa venne sequestrata alla vedova Carta e venduta in pubblica asta su richiesta della marchesa Maria Francesca Zapata, e aggiudicata per 832 scudi al sacerdote Gavino Cocco nativo di Bolotana e dimorante in Cagliari. La casa è descritta “de un patio con dos sostres”, cioè con un cortile e due piani alti, come conferma altro atto notarile del 6 marzo 1800, quando il sacerdote Gavino Cocco, ammettendo un precedente accordo con la marchesa Francesca Zapata vedova di Giovanni Manca marchese d’Albis (1714-1776), le cedette la casa di 3 piani (compreso il terreno) acquistata all’asta, dato che la marchesa vantava il credito di 2500 lire di censo caricato sulla casa stessa.

La marchesa Zapata era ancora proprietaria della casa nel 1807, a quanto risulta dal donativo della chiesa di Santa Caterina, e lo era ancora nel 1814 quando citò in giudizio Maurizio Arthemalle, figlio del fu Paolo Maurizio, per problemi legati all’affitto per scudi 60 annui della stessa casa, e del subaffitto di un piano, da parte dell’Arthemalle, al tenente don Giovanni Porcile. Francesca Manca Zapata morì nel 1817.

Nel primo catasto successivo al 1850 la casa apparteneva a donna Giuseppina Manca dell’Asinara (1792-1860); una registrazione di poco successiva attribuisce la casa ex Manca al barone Salvatore Rossi (1775-1856).

 

 

 

2761 e 2763

Sono legate a Gio Batta Bonorino e al Regio Stanco del Tabacco: in ordine temporale, il primo documento che ne fa menzione, fra quelli consultati, è l’inventario dei beni del fu Demetrio Carta, del giugno 1792: gli eredi Carta dichiararono che la loro casa (2760) confinava da una parte con casa di Santa Caterina (2759), dall’altra parte con casa di Gio Batta Bonorino; il dato è confermato da altri atti relativi alla casa Carta, del 1799 e del 1800; per cui, la casa 2761 era di Gio Batta Bonorino (o Bollorino, Bollerino), direttore del “Regio Stanco del Tabacco” (il magazzino del monopolio del tabacco).

Vi sono poi 2 atti, uno del luglio 1796, l’altro del gennaio 1798, che riguardano la casa 2764 (Paderi Ventimiglia), confinante da una parte con la casa Belgrano (2729 e 2765) e dall’altra lato con casa Bonorino: per cui anche la casa 2763 era del Bonorino.

In un atto del dicembre 1798 si legge che la casa Sciaccaluga, unità 2714 sulle scalette di Santa Teresa, aveva di fronte sia la casa Bonorino (che prima era di Giuseppe Ventimiglia), sia il Regio Stanco del Tabacco; in altri due atti del febbraio e del luglio 1799 relativi alla stessa casa Sciaccaluga, si legge che la casa davanti era quella dello Stanco, e non è nominato il Bonorino; in atto del settembre 1799 relativo alla casa Rapallo (2715) si legge che detta casa confinava “por delante al estanco mayor donde se vende el tabacco, detta calle de S.Teresa por medio”; da questi ultimi atti sembra di capire che il Regio Stanco occupasse entrambe le case 2762 e 2763.

Altra fonte di notizie sono le denunce per il donativo: il 22.06.1799 Gio Batta Bonorino firmò il suo, dichiarando i beni che facevano parte della dote della moglie Francesca Rodella, sposata nel 1749: la loro proprietà aveva una facciata sulle scale del Regio Stanco, un’altra sulla strada di S.Rosalia; la parte sulle scale, che dovrebbe coincidere con l’unità catastale 2763, aveva un sóttano con 4 stanze “affittato al Re per lo Stanco per lire 150, e due piani alti ognuno di 4 stanze, abitati dal Bonorino; era una casa “molto diroccata”, se affittata avrebbe potuto fruttare lire 150; la parte sulla strada di Santa Rosalia aveva un piano alto e un piano terreno, ciascuno con una stanza, ed era affittata per lire 60.

Gio Batta Bonorino morì tra il 1799 e il 1804; in una causa civile fra l’ Economato del Capitolo Cagliaritano e la vedova Francesca Bonorino nata Rodella e sua figlia donna Vittoria Armerin nata Bonorino, vedova del cavaliere Francesco Giuseppe Armerin (-1797), apprendiamo alcuni fatti interessanti: nel 1786 Gio Batta Bonorino aveva ottenuto 600 scudi in prestito dal canonico Filiberto Magliano, allora Regio Economo della abolita Compagnia di Gesù; per garantirne la restituzione dovette ipotecare la casa con l’assenso della moglie Francesca Rodella che ne era proprietaria in quanto l’aveva ereditata dal padre Francesco; fu necessario anche l’assenso della figlia Vittoria Bonorino, in quanto unica futura erede della madre, e l’assenso del marito della figlia, cavalier Francesco Giuseppe Armerin; il prestito servì per coprire un equivalente ammanco nelle casse della Regia Gabella del Tabacco, di cui Bonorino era amministratore; il censo di 600 fu accordato con la pensione al 5% di 30 scudi annui, che furono pagati fino al 1794; nel 1805 il Capitolo citò le due vedove Bonorino e Armerin alle quali era stato chiesto inutilmente più volte di saldare il debito; questo comprendeva, oltre al capitale di 600 scudi, anche le pensioni non pagate da oltre 10 anni; fra i documenti della causa è allegato un atto di donazione datato 06.09.1804 giurato dal canonico Filiberto Magliano: egli aveva donato all’Economato del Capitolo il debito dei Bonorino.

La causa si protrasse fino al dicembre del 1806: le due vedove, non avendo altri mezzi, proposero al Capitolo di comprare la casa di loro proprietà sita sulle scale di Santa Teresa, ma il Capitolo in un primo tempo si rifiutò, non avendo a disposizione la somma per pagare il “sovrappiù” che valeva la casa rispetto al debito; non si è trovata la fine di questa vicenda giudiziaria, ma fu infine trovato un accordo fra le parti: infatti, con atto notarile del 14.08.1807, le “signore vedove Francesca Rodella e la di lei figlia donna Vittoria Bonorino” cedettero al Capitolo Cagliaritano la loro abitazione, formata da una casa grande sulle scale di Santa Teresa e una casa piccola nella strada di S.Rosalia, per lire 10541, soldi 5, danari 2; le due donne dovevano pagare al Capitolo le pensioni arretrate per lire 750 su un censo di lire 1500 (scudi 600); per estinguere il debito cedettero quindi le due case, indennizzate del maggior valore con un’altra casa del Capitolo; venne loro ceduta la casa denominata Carola (unità 2796) sita nella strada di Santa Teresa (vico Collegio), al prezzo dell’estimo di lire 4394, soldi 12, denari 6. Sono riportati i confini delle due case, che corrispondono a quanto risulta dagli atti già citati, con una novità per la casa 2762, che è detta in questo documento di proprietà del monastero di Santa Chiara. Le stesse informazioni vengono riportate in atto poco precedente, del 17 aprile dello stesso 1807: in quella data vennero infatti stimate le due case delle due vedove Rodella e Bonorino e la casa del Capitolo del vico Collegio.

Il 15.08.1807 (un giorno dopo l’acquisto) il Capitolo presentò il suo donativo e, fra le tante case che possedeva è compresa anche la casa Bonorino nella strada di Santa Teresa: composta da un piano terreno con 3 stanze, il primo piano con 8 stanze, il secondo con 6 stanze e un terrazzino, confinante da una parte con la casa dell’eredità Paderi Ventimiglia (2764), dall’altra con casa della Comunità di Santa Eulalia (2762).

Con atto del notaio Gio Batta Azuni del 28.02.1809, il Capitolo della Primaziale caricò sulla casa detta di Bonorino, sita nelle scalette di Santa Teresa, un censo di lire 1000 avute dal sacerdote Michele Ligas, beneficiato della chiesa di Sant’Eulalia; la casa era la medesima ceduta al Capitolo dalle vedove Rodella e Bonorino, e vi si trovava la “Regia Bottega dei Tabacchi; era in fase di riedificazione, una volta terminata il sacerdote Ligas avrebbe avuto a disposizione un appartamento nella casa o in quella confinante (2761) sulla contrada di Santa Rosalia, “ad un prezzo d’affitto discreto”.

Fra tutti questi dati, a volte contraddittori, si può fare qualche ipotesi:

la casa 2763 era la casa di abitazione dei Bonorino, proveniente dalla dote di Francesca Rodella che l’aveva ereditata dal padre Francesco, e in precedenza era di Joseph Ventimiglia; il piano basso era affittato allo Stanco del Tabacco; in realtà l’attribuzione a Giuseppe Ventimiglia appare incerta: i Ventimiglia possedevano infatti la casa 2764, laterale alle 2763, per cui in quel documento del 1798, la citazione del Ventimiglia come proprietario precedente il Bonorino potrebbe essere frutto di confusione;

la casa 2761 o parte di essa dovrebbe coincidere con la casa Bonorino-Rodella sulla strada di S.Rosalia, ma dalla mappa di metà ‘800 è assolutamente troppo grande rispetto a quanto dichiarato dal Bonorino nel suo donativo: sicuramente le mappe di quel periodo non sono sufficienti per capire la situazione di mezzo secolo prima, anche per la loro poco precisione; in alcuni atti relativi alla casa Bonorino è scritto che questa confinava alle spalle con il giardino della chiesa di Santa Caterina, e una spiegazione, come già accennato in precedenza, è che la chiesa di Santa Caterina avesse un giardino ben più grande di quanto si vede dalla mappa di metà ‘800, giardino poi smembrato e rimpicciolito a vantaggio delle case limitrofe; nei documenti del 1805 inseriti nella causa civile col Capitolo è scritto che la proprietà Bonorino confinava sul retro col giardino del fu Carlo Belgrano, la cui casa era la numero 2730; nella carta di metà ‘800 questo confine non è presente, a conferma della poca precisione della mappa, specie sul retro delle case, oppure dei cambiamenti intervenuti in 50 anni.

Dopo il 1850 la casa 2761 apparteneva al negoziante Giuseppe Birocchi; la casa 2763 era ancora del Capitolo Cagliaritano.

 

2762

Non mancano le incertezze sui proprietari della casa 2762, all’angolo fra la salita di Santa Teresa e la strada del Portico di Santa Rosalia; il donativo del 15.08.1807 del Capitolo Cagliaritano, proprietario (dal giorno prima) delle case 2761 e 2763, riferisce che in quella data apparteneva alla Comunità di Sant’Eulalia; potrebbe corrispondere alla casa Natta della strada di S.Rosalia, compresa nel donativo del 1799 dalla Comunità di S.Eulalia; la dichiarazione presentata è però estremamente sintetica e non ci permette di identificare meglio la casa; inoltre quanto detto non corrisponde a ciò che riportano due atti del 1807, relativi alle case Bonorino 2761 e 2763, secondo cui la casa 2762 era una proprietà del monastero di Santa Chiara: è probabile però che si tratti di una informazione inesatta, ormai superata, copiata da un precedente documento; questa ipotesi è rafforzata dal fatto che, nei due atti citati, l’ormai defunto Demetrio Carta risulta proprietario della casa 2760, che era da diversi anni proprietà del sacerdote Gavino Cocco.

Così come la casa Bonorino 2763, era forse affittata al Regio Stanco del Tabacco; lo si potrebbe dedurre dall’atto del settembre 1799 relativo alla casa Rapallo (2715), dove si legge che detta casa confinava “por delante al estanco mayor donde se vende el tabacco, dicha calle de S.Teresa por medio”; in realtà in diversi documenti è scritto che era la casa Rodella-Bonorino (che ospitava sicuramente lo Stanco del tabacco) frontale alla casa Rapallo, per cui il fatto di essere “una di fronte all’altra” è forse da intendere con meno precisione di quanto sarebbe utile.

Dopo il 1850 era ancora una proprietà della Comunità di S.Eulalia.

 

2763      vedi 2761         

 

2764

Questa unità catastale era formata da due piccole case che appartenevano a donna Geltrude Ventimiglia; alla sua morte[1] le due case divennero proprietà dei due figli Raimondo e Domenico (1786-) Paderi, i cui beni, essendo i fratelli Paderi minori di 25 anni, venivano amministrati dal padre don Sisinnio Paderi Areso di Oristano, conte di Sant’Anna; nel 1796, a causa di ingenti spese a cui doveva far fronte, don Sisinnio avrebbe voluto vendere le due case insieme ad una “tienda” fuori Porta Stampace, ma fu venduta solo la bottega; le due piccole case, site nelle scale del Regio stanco, avevano davanti le case Laines (2713) e Sciaccaluga (2714), di lato casa Bonorino (2763), e dall’altro lato e dietro la casa e il giardino Belgrano; anche in questo caso la mappa di metà ‘800 non aiuta: la casa Belgrano evidentemente aveva un giardino molto più vasto di quanto lì appare, e in atto notarile del gennaio 1798 è chiarito che la proprietà di lato (con casa e giardino) era quella dell’avvocato Angelo Belgrano (2765 e 2729), mentre il giardino sul retro era quello della casa di Carlo Belgrano (2730); questo è più comprensibile nelle carte catastali successive, dove è evidente che l’unità 2730 si spingeva sino alle spalle dell’unità 2764.

In atto del gennaio 1798, che riguarda lo spostamento di un censo da un’altra proprietà e di cui dovevano godere i minori Paderi Ventimiglia (Raimondo minore di 25 e maggiore di 15, Domenico in “pupillare età”), è specificato che le case erano due contigue, ed erano state proprietà della contessa donna Orosia Vintimiglia Bonet, poi di sua figlia Maddalena Vintimiglia che le lasciò al fratello don Pantaleo, padre di donna Geltrude; don Sisinnio Paderi affermò che al tempo dell’invasione dei Francesi le case site nelle scale del Regio Stanco furono ridotte in condizioni tali da non essere abitabili; solo dopo i lavori di restauro, fatti dal mastro muratore Antonio Ignazio Carta, furono avvalorate in tutto 1200 scudi.

Nel donativo del 1799 I fratelli Paderi Ventimiglia, con il padre loro curatore, dichiararono le due casette ciascuna con un piano alto e con un basso, una rovinata del tutto, l’altra che minacciava rovina; in quell’anno non erano affittate, mentre in precedenza erano affittate per scudi 35 ciascuna.

Con atto notarile del 19.06.1807 si effettuò la divisione dei beni dell’eredità materna tra don Raimondo e don Domenico Paderi Ventimiglia; facevano parte dell’eredità, oltre ad altri beni, le due casette nelle scalette di Santa Teresa, in stato di rovina, stimate in lire 2004. Le due case furono assegnate a Raimondo, insieme alla somma di lire 1287 e soldi 10 che dovevano versare gli eredi Belgrano: per sentenza della Reale Udienza, essi furono costretti a ripagare ai Paderi i danni e i mancati frutti delle due case, rese inabitabili nel gennaio 1798 a causa del giardino, formato da Angelo e Carlo Belgrano, “sopra la muraglia di dette case, la quale non ne ha potuto sostenere il peso”.

Appartenevano ai fratelli Paderi Ventimiglia ancora nel 1807, secondo il donativo del Capitolo, proprietario della confinante casa Bonorino.

La proprietà Paderi è citata anche negli atti notarili del 14.08.1807 e del 28.02.1809, relativi alla casa 2763, e nella denuncia per il donativo del Capitolo, proprietario della stessa casa 2763, datata 15.08.1807.

Con atto del notaio Nicolò Martini, del 19.01.1809, gli eredi Belgrano si accordarono con il mastro muratore Antonio vincenzo Manca, e con altri artigiani, perché venissero riparate le due case Ventimiglia; fu pattuito un costo di lire 1210, soldi 10, denari 10; viene ribadito nell’atto notarile che le due case, di proprietà degli eredi di donna Geltrude Ventimiglia, erano state gravemente danneggiate al tempo dell’invasione dei Francesi, e che successivamente avevano subito pesanti danni per il crollo dovuto al giardino Belgrano; erano quindi ancora diroccate; fu interessato, come intermediario, don Gregorio De Cesaroni, che si occupò di accordarsi con gli eredi Paderi Ventimiglia.

Dopo il 1850 la casa 2764 apparteneva a donna Anna Maria Cugia vedova di don Luigi Rapallo (1776-1852); una registrazione di poco successiva attribuisce la casa, già Cugia, al canonico Efisio Casula.



[1] la data non è nota; donna Geltrude si sposò con don Sisinnio Paderi nel 1776, era ancora in vita nel 1793 al tempo dell’attacco francese; don Sisinnio si risposò nel 1796   

 

 2765 e 2766        vedi casa 2729