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Isolato O: discesa Castello/Cappuccine/piazza S.Caterina/piazza Porta Villanova

(via Mazzini, via Cima, piazza Martiri)

numeri catastali da 2427 a 2442

la struttura dell’isolato presenta alcune modifiche: non esiste più la casa 2427, sua estremità occidentale; di alcuni edifici (2436/2438), esattamente di fronte alla scomparsa chiesa di Santa Caterina, rimane il solo piano terreno, frutto di demolizioni belliche e parziali ricostruzioni; le vecchie case fra il numero 2439 e 2442 sono state sostituite da edifici più importanti.

 

2427, 2428, 2429              

Queste 3 unità catastali, insieme a una parte della unità 2430, erano proprietà dell’Ospedale di Sant’Antonio (dei padri di San Giovanni di Dio); la prima testimonianza a riguardo è in un documento datato 11.08.1799 “Stato dei forestieri esistenti in Sardegna” (ASC, Segreteria di Stato serie II, volume 1283) nel quale è scritto che da quella data alloggiava nelle case dell’Ospedale in Porta Cagliari il piemontese Giovanni Gaudio Cocco, che era rimasto molti anni in città come “obergista” (albergatore, oste, in piemontese), e che al momento era ammalato.

Con atto notarile del 12.08.1802 il canonico don Raffaele Ledà, in qualità di deputato della Reverendissima Congregazione dello Spedale di Sant’Antonio, cedette in enfiteusi al mastro Raimondo Mongiu, col canone annuo di scudi 20, “una bottega dello Spedale nella discesa verso le Cappuccine, a man sinistra” (cioè nella discesa della Porta Castello o Porta dei Leoni, o Porta Cagliari), bottega posta fra altre due botteghe dello stesso Ospedale, “dirimpetto alle botteghe delle orfanelle” (2398); il Mongiu già in precedenza utilizzava la bottega in affitto e pagava scudi 12 annui; era situata nella casa 2429 che, a metà ‘800, dal Sommarione dei Fabbricati, risulta appartenere agli eredi del fu mastro Raimondo Mongia (Mongiu).

In data 26.09.1806, fu compilato l’inventario di tutti i beni mobili, semoventi e stabili appartenenti allo Spedale della Marina sotto l’invocazione di Sant’Antonio Abate, allo scopo di consegnarli al procuratore generale dei Reverendi Padri Spedalieri, “in eseguimento degli ordini di S.M. del 15.09.1806”.

L’inventario comprende 4 piccole case “in prospettiva del bastione del Balice come si discende verso il monastero delle Cappuccine”: la prima, corrispondente alla parte destra dell’’unità 2428, formata dalla bottega e un piccolo piano superiore, era affittata al calzolaio Efisio Ullu per scudi 20; la seconda (parte centrale della casa 2428) era affittata al falegname Francesco Cabiddu per scudi 20; la terza (parte sinistra della casa 2428) era affittata alla vedova Anna Uda per scudi 20; i due piccoli piani superiori della quarta (corrispondente al numero catastale 2427) erano affittati al reverendo Giuseppe Tommaso Secci beneficiato di Sant’Eulalia, per scudi 30; il piano terreno di quest’ultima casa, che dava al piazzale della chiesa delle cappuccine, era affittato al falegname Giovanni Ferrari per scudi 15. Nell’inventario viene specificata a parte la bottega 2429 per la cui enfiteusi Raimondo Mongiu pagava 20 scudi dal 12.08.1806. 

Il donativo del 16.10.1807 dei Religiosi Spedalieri conferma esattamente quanto appena detto: vennero dichiarate 4 case “in prospettiva del Bastione del Balice, come si discende verso il Monastero delle Monache Cappuccine a man sinistra”: le prime tre case, che corrispondono all’unità 2428, avevano un piccolo piano sopra la bottega, ed erano affittate per lire 50 l’una; la quarta casetta aveva due piccoli piani superiori, ed era abitata dal reverendo Tomaso Secci che pagava lire 75 annue; quest’ultima casa (unità catastale 2427, ora non più esistente) aveva un piano terreno che dava al piazzale della chiesa delle monache Cappuccine, ed era affittato per lire 37 e 10 soldi.

Con atto notarile del 29.11.1811, i padri di San Giovanni di Dio concessero in “enfiteusi vitalizia”, col canone di lire 225, ai coniugi piemontesi falegname Giovanni Ferraris e Chiara Feroglio, le due case dove già essi dimoravano; si tratta delle ultime due case (cioè la casa 2427 e parte della casa 2428) “site a man sinistra nella discesa del Castello per la chiesa e monastero della madri Cappuccine”: la penultima casa aveva il piano terreno e un piano superiore, l’ultima aveva il piano terreno e due piani sopra, confinanti “da un lato con altre case dell’ospedale (altra parte della casa 2428), dall’altro lato con la chiesa (2404) strada in mezzo, dirimpetto a case delle orfanelle strada in mezzo (2398), per le spalle a casa degli eredi del fu Eligio Allemand (2431)”.

A metà ‘800 le case 2427 e 2428 risultano appartenere all’Ospedale civile; la casa 2429, come si è già detto, apparteneva agli eredi del fu mastro Raimondo Mongiu. 

 

2430     
Dai pochi documenti nei quali è stato trovato un riferimento a questa unità catastale, si deduce che fosse divisa in due parti diverse: la parte più a ovest apparteneva all’ospedale di Sant’Antonio: infatti la casa di Raimondo Mongiu, numero 2429, confinava su entrambi i lati con botteghe dello stesso ospedale (2428 e 2430).

Pochi mesi dopo, il 24.02.1803, l’Ospedale concesse in enfiteusi al negoziante Giuseppe Delorenzo due botteghe, confinanti con quella concessa al Mongiu: si tratta appuno della parte più a ovest dell’unità catastale 2430; il Delorenzo, per garantire il pagamento del canone (lire 123 all’anno, circa 49 scudi), ipotecò una sua casa in Villanova.

In data 30.07.1804 Il Regio Demanio concesse al negoziante Giuseppe Delorenzo un “sito vacuo esistente fuori Porta Cagliari a mano dritta discendendo verso Porta Villanova, in attiguità della sua casa alla quale vuole incorporarlo, superficie 2 trabucchi e 1 piede, di forma semicircolare”; dalla pianta del sito, eseguita dal Marchesino Boyl, si capisce che si tratta dell’unità 2430, la cui parte ovest era già occupata dalla casa del Delorenzo, mentre la parte più a est, di forma “semicircolare”, era ancora non edificata; di fianco a questa parte “vacua” c’era una casa del Capitolo (2434); il Delorenzo chiese anche il permesso di costruire un piano sulla sua casa terrena già esistente.

Pochi giorni dopo aver ottenuto la concessione del terreno, con atto notarile del 18.04.1804 il De Lorenzo e il cognato Reverendo Narciso Floris, canonico della cattedrale con la prebenda di Samatzai, si associarono per costruire la casa; il canonico aveva già messo a disposizione 400 scudi e poteva metterne a disposizione altri 400; avrebbero diviso oneri e proprietà; la società però non portò vantaggi a entrambi, piuttosto fastidi, e il canonico Floris, secondo accordi presi in precedenza, con atto notarile del 23.01.1806 cedette al De Lorenzo la sua metà per scudi 1200 (cioè lire 3000), nonostante la casa fosse stata stimata in totale lire 5363, soldi 15 e denari 10 (come da estimo del 19.12.1805); a parte il valore attribuito al terreno, la spesa per la edificazione della casa era stato valutato in lire 4030:2:6; De Lorenzo si obbligò a pagare le 3000 lire in otto anni, con 8 rate da 375 lire.

Nell’inventario dei beni dell’Ospedale, datato 26.09.1806, vengono citate le due botteghe concesse in enfiteusi nel 1803 al Delorenzo, per le quali venivano pagati dai suoi eredi 50 scudi annui (in realtà 49 scudi e 10 soldi).

Nel donativo del Capitolo Cagliaritano, del 15.08.1807, è dichiarata la casa 2434, con facciata principale nella discesa di Porta Castello; questa casa aveva da una parte la casa Ladu (2435), e dall’altra la casa dell’avvocato Mancini; quest’ultima corrisponde all’unità 2430, infatti l’avvocato don Girolamo Mancini aveva sposato nel 1806 Rosa Delorenzo, figlia di Giuseppe.

Giuseppe De Lorenzo morì quindi prima del 26.09.1806; i suoi beni furono ereditati dai figli Rosa (1786-) e Giacinto (1788-), e rimasero indivisi fino al 25.08.1810; in quella data, con atto del notaio Francesco Soro, fu effettuata la divisione dell’eredità; la casa 2430, valutata lire 5363, soldi 15, denari 10, fu assegnata al giovane Giacinto (assistito dal suo curatore, causidico Giovanni Boi, essendo minore di 25 anni), insieme ad altri beni, per un totale di lire 11082, soldi 19, denari 2; da questi occorreva però dedurre alcuni debiti e alcune pensini sugli immobili: al netto rimasero solo lire 1957, soldi 19, denari 2.

Con atto notarile del 06.02.1812, Giacinto De Lorenzo, figlio del fu Giuseppe, affittò a Caterina Dessì, per 90 scudi all’anno, una casa con bottega sita presso la Porta Castello, forse solo una parte della proprietà; la donna vi abitava da qualche tempo e volendo essere sicura di poterci abitare a lungo chiese un contratto per 6 anni. 

Nel Sommarione dei Fabbricati di metà ‘800 risulta che l’unità 2430 appartenesse alla chiesa di Sant’Antonio: è specificato però che la proprietà della chiesa era relativa alla sola bottega; in questo caso nel Sommarione mancherebbe il proprietario della parte maggiore, già Delorenzo/Mancini.

 

2431     

Nell’atto notarile del 12.10.1792, col quale le sorelle Sirigu cedettero al negoziante Gio Pietro Sanna Floris la casa 2419, è scritto che questa casa confinava, attraverso la strada delle Cappuccine, con una casa del negoziante Eligio Allemand (numero catastale 2431); il dato è confermato e reso ancora più chiaro dal contratto firmato dal Sanna col muratore Girolamo Marcia per la “fabbrica” di una parte della sua casa 2419, esattamente la parte verso la strada delle Cappuccine, confinante “per Ponente strada frammezzo al Monastero delle Monache Cappuccine (2405), per Levante a scuderia e piano abitabile di case del Duca di San Pietro (2423), e dirimpetto strada framezzo a case del negoziante Eligio Alemand (2431)”.

Con atto notarile del 13.05.1802 il duca di San Pietro donò le sue scuderie site nelle vicinanze del Monastero delle Cappuccine, numero 2423, confinanti a tramontana, strada mediante, con casa (2431) di Eligio Allemand.

La situazione non è cambiata alla fine del 1803, quando venne compilato l’inventario dei beni del fu Gio Pietro Sanna: la sua casa 2419 confinava con la casa Allemand, “strada delle Cappuccine mediante”.

Nei donativi del 1799 e del 1807 Eligio Allemand dichiarò di possedere 4 casette contigue con piano terra e primo piano, affittate a vari inquilini per il canone annuo complessivo di lire 377 e 10 soldi; pagava un canone enfiteutico alla chiesa del Sepolcro.

Vi sono alcuni documenti, rintracciati nell’Archivio Ballero (ASC), che riportano notizie sulle proprietà Fancello/Allemand: nell’ottobre 1819 il “Maestro di pulizia” Giovanni Carta ricevette 3 scudi dal conte Fancello (genero di Eligio Allemand) per pulire il canale della casa sita vicino alle Monache Cappuccine; nel 1837 la proprietà era divisa in diverse case: il piano alto della prima casa era affittato a tale Rolando per lire 60, la bottega a tale Pisà per £ 50; la seconda casa era utilizzata da Vincenzo (Fancello) e non rendeva affitto; il piano superiore della terza casa era affittato a tale Carta (forse lo stesso Maestro di pulizia prima nominato) per £ 60, la bottega rendeva £ 45, (non è chiaro se affittata allo stesso Carta); il piano alto della quarta casa era affittato a tale Muscati per £ 60, la bottega a tale Tamasconi per £ 42 e soldi 10; infine alla vedova Canelles “si diede per 2 anni in affitto uno dei piani delle case suddette per £ 40”.

In data 06.05.1844 venne firmato l’atto di locazone col tipografo e negoziante Antonio Timon delle 4 casette contigue, composte da un solo piano, situate nella strada delle Cappuccine; una apparteneva al cavalier don Vincenzo Fancello beneficiato di S.Anna, due appartenevano al di lui cognato don Francesco Mossa Senatore nel Real Senato di Genova, e l’ultima alla consorte di questi, donna Rita Fancello; il Timon vi collocò il suo stabilimento tipografico e negozio di carta ed oggetti di cancelleria. La locazione fu stabilita “per lo spazio di 20 anni, col fitto annuo in lire nuove 763 e 20 centesimi, pari a lire sarde antiche 397 e soldi 10”.

Anche nel Sommarione dei Fabbricati del 1854 i proprietari dell’unità catastale 2431 risultano la contessa Rita Fancello, coniugata col conte Francesco Mossa, e il sacerdote don Vincenzo Fancello, figlio del fu conte Pietro; era utilizzata come casa di abitazione e come tipografia.

Ancora dall’archivio Ballero si sa che nel 1856 la vedova contessa donna Rita Mossa nata Fancello, tutrice dei figli minori Marianna, Giuseppina, Annunziata, Rosina, Carolina, Carlo, Giulietta, dovendo pagare un debito al cavalier Nater, voleva vendere 2 delle case della contrada delle monache Cappuccine, già stimate dall’architetto Girolamo Melis in franchi (cioè lire nuove) 5922.50 e 5081.47; il negoziante Timon offrì franchi 11.500 più le spese notarili; venne quindi eseguita un’ulteriore perizia sulle case Mossa date in locazione ad Antonio Timon, formate da 4 piani terreni e 4 piani alti, confinanti davanti con case Rossi (2419 e 2423), alla destra col convento, alla sinistra con casa del segretario Isola (2432), alle spalle con case di Sant’Antonio (2427/2430).

Nella casa di via Monache Cappuccine, al numero civico 5, morì il 04.10.1883 il settantacinquenne Antonio Timon, figlio del fu tipografo Carlo e della fu Rosalia Scartacci, vedovo di Rita Oppo e marito di Chiara Muscas; il 20.05.1898 nella stessa casa, ormai al numero 5 della via Gaetano Cima, morì a 76 anni la cagliaritana Chiara Muscas, figlia dei furono Luigi e Teresa Agnese, vedova di Antonio Timon.

 

2432, 2433

Nella denuncia per il donativo di Pasquale Denegri (figlio di Marcantonio), datata 23.06.1799, oltre alle case nelle strade is Tagliolas (2369) e del Fortino (2497) è inserita una terza casa situata nella strada delle Monache Cappuccine, formata da un piano terra e un primo piano, con sala, alcova, una stanza e la cucina, affittata per scudi 45 annui; non sono riportate informazioni utili alla identificazione della casa ma, da un atto notarile del 14.05.1806 relativo alla casa Valle, parte sinistra dell’unità 2425 (sull’altro lato della strada), è scritto che la casa Valle aveva di fronte alla sua facciata posteriore una casa di Pasquale Denegri, che si può quindi identificare con l’unità catastale 2433.

Vi è conferma in atto notarile del 24.11.1806, relativo alla casa 2434, confinante con la casa del Tenente delle Porte Pasquale Denegri.

Non sono stati trovati documenti che citino la casa 2432, a parte la perizia del 1856 sulla casa 2431, di cui si è parlato nel precedente paragrafo: in quell’anno la casa 2432 apparteneva al segretario Isola; il dato è confermato dal Sommarione dei Fabbricati, nel quale risulta che entrambe le case 2432 e 2433 appartenessero (dopo il 1850) a Giuseppe Isola, segretario di Corte d’Appello; in base a questo si può ipotizzare che 50 anni prima le due case, unite a formarne una grande, appartenessero entrambe a Paquale Denegri: infatti il notaio e segretario Giuseppe Isola era figlio di Giovanni Battista Isola e di Francesca Denegri, quest’ultima sorella del segretario Pasquale Denegri, di cui non sono noti discendenti diretti.

Non si esclude che una delle due case della strada delle cappuccine fosse quella dove abitava e dove morì, alla fine del 1795, il canonico Giuseppe Benito Isola, fratello di Giovanni Battista, sita nei pressi della piazza di Porta Villanova, e non identificata. 

 

2434

Nell’inventario dei beni del fu Giovanni Sisinnio Ladu, del 21.03.1797, la sua casa 2435 confinava da un lato con una casa dell’Ospedale (2436), dall’altro lato con una casa del Capitolo (2434).

Altri due atti notarili relativi alla stessa casa 2435, del settembre 1802 e del luglio 1803, confermano la proprietà del Capitolo; la casa 2434 è citata anche nella concessione del luglio 1804, da parte del Demanio al negoziante Giuseppe Delorenzo, del terreno “vacuo” situato fra la casa dello stesso Delorenzo (2430) e una casa del Capitolo (2434), alla quale il Delorenzo doveva “allinearsi”.

Con atto del notaio Gio Batta Azuni del 24.11.1806, Monsignor don Pietro Sisternes d’Oblites, Proto notaro Apostolico e decano della Primaziale, a nome del Capitolo cagliaritano, concesse in enfiteusi, ossia locazione perpetua, una parte della casa 2434 al falegname Salvatore Murru con il canone annuo di scudi 40; la parte che ottenne il Murru comprendeva un piano terra con una bottega e un primo piano con sala, alcova e cucina; l’ingresso era nella strada delle Cappuccine; l’altra parte della casa era formata da altri 2 piani con ingresso nella strada superiore, detta di Porta Cagliari (l’attuale via Mazzini, chiamata altre volte discesa di Porta Castello, cioè la Porta dei Leoni), di fronte al Bastione di Sant’Andrea; vi era anche la cisterna che riceveva acqua dal tetto, e aveva una bocca di accesso ad ogni piano; Murru avrebbe fatto dei miglioramenti, spendendo nel giro di un anno almeno 200 scudi; per garantire il pagamento del canone accese un’ipoteca su altri suoi beni nel quartiere di Villanova.

Nel donativo del Capitolo Cagliaritano, del 15.08.1807, è compresa la casa Caro, posta nella discesa di Porta Castello fra le case Ladu (2435) e Mancini/De Lorenzo (2430); è scritto nel donativo che la casa Caro, del valore di lire 3800 lire, rendeva 300 lire annue; la parte della strada delle Cappuccine, con bottega e piano di sopra, era stata data in enfiteusi nel 1806 al mastro falegname Salvatore Murru che pagava 100 lire (40 scudi); le altre 200 lire provenivano evidentemente dalla parte sulla discesa di Porta Castello con 4 stanze al piano terreno e 4 stanze al piano superiore;

Con atto del notaio Gio Batta Azuni del 09.08.1809, don Pietro Maria Sisternes de Oblites, a nome del Capitolo della Primaziale, concesse una parte della casa Caro in enfiteusi, per la durata delle loro vite, ai coniugi Giovanni Batta Riccardi, ebanista piemontese, e Luigia Gamba; la parte concessa era la bottega e un piano che si aprivano sulla discesa di Porta Castello; il canone pattuito fu di 80 scudi annui, anticipati; i coniugi si impegnarono ad eseguire a proprie spese tutte le piccole riparazioni necessarie, e fu vietato a Riccardi di eseguirvi lavori particolarmente impegnativi legati alla sua professione; per garanzia Luigia Gamba ipotecò degli immobili di famiglia in Stampace, che condivideva co la sorella Giusta e col fratello Giorgio nelle strade di Sant’Efisio e dei Barbaricini (altro nome della strada di Santa Restituta).

Con altro atto dello stesso notaio Azuni, del 21.08.1809, il canonico Sisternes concesse in enfiteusi vitalizia il piano superiore della casa Caro al reverendo Antonio Visca, canonico prebendato della Primaziale, preside del Seminario dei chierici e protonotaro apostolico; il canone stabilito fu di scudi 60 annui, la parte concessa aveva l’ingresso nella discesa di Porta Castello.

Con atto notarile del 24.01.1812, il Capitolo Cagliaritano, rappresentato dal decano Monsignor don Pietro Maria Sisternes de Oblites, concesse in locazione per 6 anni un piano della casa Caro, situata presso la Porta Castello, all’orefice e argentiere cagliaritano Michele Piga. Nell’atto è scritto che la casa era stata concessa in locazione per 60 scudi annui (cioè 150 lire), a partire dal 22.08.1808, al canonico Antonio Visca; questi non la abitava, ma ne aveva dato l’utilizzo alla famiglia della sorella Anna[1], coniugata con Michele Piga, che vi aveva anche la bottega; dopo la morte del canonico, il Piga presentò al Capitolo la richiesta di poter avere la casa in enfiteusi vitalizia, per la vita della moglie e della cognata che viveva con la famiglia Piga, insieme alla madre “cadente”; l’enfiteusi non gli fu accordata, ma gli fu concessa la locazione per 6 anni, con il canone di 63 scudi annui. L’aumento di 3 scudi era dovuto alla necessità di pagare il donativo per la Regina, e fu stabilito l’aumento di un soldo per ogni lira di rendita; il calcolo è esatto: 60 scudi equivalgono a 150 lire; i 150 soldi di aumento corrispondono esattamente a 3 scudi; anche i confini specificati sono corretti: da una parte la casa Ladu (2535), dall’altra la casa De Lorenzo (2530), alle spalle una casa dei Padri Scolopi (2525), e davanti le mura, cioè il cosiddetto Orecchione del Balice e la Porta Castello.

A metà ‘800 risultano due proprietari: il Capitolo per la parte della casa sulla attuale via Mazzini, in quel periodo chiamata via Argentari, cioè la discesa di Porta Castello del 1800; la parte sulla strada delle Cappuccine, attuale via Cima, apparteneva in enfiteusi ad Antonia Murru, coniugata col pittore Gio Efisio Sanna; la donna era figlia del falegname Salvatore Murru e di Ignazia Porcu; morì vedova settantaseienne in una casa di Villanova il 05.04.1873; il marito Giovanni Efisio Sanna era già morto settantaquattrenne il 26.01.1870 in una casa del quartiere Castello.



[1] Il canonico Antonio Visca (defunto fra l’agosto 1811 e il gennaio 1812) e la sorella Anna (1769-) erano fratello e sorella del negoziante Francesco (1762-), figli del sassarese Giovanni Visca e di Antonia Bizarria; Francesco era proprietario delle case 2315 in Sant’Agostino e 2702 in Fontana Nuova. 

 

 

2435     

Era la casa del negoziante Giovanni Ladu; in data 01.03.1797 il notaio Sisinnio Antonio Vacca “è chiamato alla casa di abitazione del negoziante Giovanni Sisinnio Ladu di Ollolai, domiciliato in questa città, in una casa nella Contrada delle Monache Cappuccine in vicinanza di quella della Costa, e della Porta del Castello, nella quale trovasi detto Ladu ditenuto in letto da malattia corporale, bensì in suo fermo e sano senso e chiara favella…”; alla presenza di 7 testimoni venne consegnato al notaio un plico sigillato contenente il suo testamento; Giovanni Sisinnio Ladu, che gestiva due botteghe, “una di droghe e una di pelletterie”, appartenenti agli eredi di Ambrogio Conti, morì verso le ore 10 della sera del giorno 13 marzo “a causa di scottature di fuoco”; il giorno 14 si aprì e si pubblicò il testamento; gli eredi universali erano i 4 figli pupilli Maria Anna, Michelina, Francesca, e Michele Ladu Onnis, e fu nominato loro tutore e curatore testamentario il dottore in Teologia reverendo Girolamo Onnis, Beneficiato di S.Eulalia e loro zio; nell’inventario, che si iniziò a compilare il 21 marzo, si specifica che la casa del Ladu, nella contrada delle Cappuccine, sita fra una casa del Capitolo e una casa dell’Ospedale, era stata acquistata con atto notarile del 22.12.1790 dall’Azienda ex Gesuitica; il prezzo totale era £ 5000, di cui il Ladu pagò solo un terzo, e si obbligò a pagare il resto, cioè £ 3333, soldi 6, denari 8, entro 10 anni, con i frutti compensativi al 5%; dal 1790 al 1797 il Ladu costruì altri due piani, e nel 1797 la casa venne stimata £ 12080, soldi 2, denari 2.

In data 28.09.1802 il reverendo Gerolamo Onnis, tutore dei nipoti Ladu, figli del defunto Giovanni Ladu e di Isabella Onnis (morta dopo il marito nello stesso 1797) ottenne £ 2083, soldi 6 e denari 8 a censo al 5% dal negoziante Francesco Vodret; tale somma serviva per ridurre il debito con l’azienda ex-gesuitica; per garantire la restituzione al Vodret, i Ladu ipotecarono la casa di 3 piani alti di loro proprietà, sita nella strada delle Cappuccine, con i confini già specificati. Lo stesso giorno gli eredi Ladu consegnarono la somma al regio economo dell’azienda ex-gesuitica, il reverendo abate don Filiberto Malliano, che aveva minacciato “di immettersi nuovamente in possesso della casa”.

Con atto notarile del 28.07.1803, il reverendo prodottore Girolamo Onnis, in qualità di tutore e curatore testamentario dei nipoti pupilli Michele e Michelina e della minore Marianna fratello e sorelle Ladu, ottenne in prestito lire 2083, soldi 6 e denari 8 dalla signora Francesca Navarro vedova Belgrano; fu pertanto estinto il debito verso il Vodret; la convenienza di questo cambiamento di creditore stava nel fatto che la vedova Belgrano aveva accettato un interesse al 4% (con risparmio di poco più di 20 lire annue) e inoltre, per espresso riguardo verso i minori Ladu, la Belgrano stabilì che la pensione sarebbe stata calcolata  a decorrere dal successivo 28 settembre, data di scadenza della pensione dovuta al Vodret.

Non è stato rintracciato il donativo degli eredi Ladu; la loro proprietà è citata però nel donativo dell’Azienda ex-gesuitica, dove si dichiara di ricevere dal loro curatore £ 104.3.6 per gli interessi annui sul debito del fu Giovanni Ladu; è citata inoltre nel donativo del 1807 del Capitolo, in quanto la casa Ladu era confinante alla casa 2434; ed è citata nel donativo del 1807 della chiesa dei Santi Caterina e San Giorgio, che possedeva la parte sulla strada della Costa della casa 2436; è ancora citata in atti dell'agosto 1809 e del gennaio 1812, relativi alla casa confinante 2434. 

A metà ‘800 la casa 2435, con facciate sulla strada Argentari e sulla strada delle Cappuccine, apparteneva in parte a Marianna Ladu, in parte all’orefice Vincenzo Peluffu; essi morirono a distanza di pochi mesi l’uno dall’altra in una casa al numero civico 16 della via Argentari: Marianna Ladu morì ottantaseienne e nubile il 09.02.1876; il Peluffu morì settantaseienne il 10.05.1876.

 

2436/2442           (si vedano anche i successivi paragrafi “2437, 2438”, “2439” e “2440, 2441, 2442”)

Queste case, con una facciata nella discesa di Porta Castello, l’altra nella strada della Costa, avevano due proprietari: la parte sulla discesa apparteneva all’Ospedale, mentre la parte sulla strada della Costa apparteneva alla chiesa o Arciconfraternita di Santa Caterina e San Giorgio, al Collegio delle Scuole Pie, o ad altri proprietari.

La prima citazione rintracciata per la casa 2436 è nell’inventario dei beni del fu Giovanni Sisinnio Ladu, del 21.03.1797: la casa del Ladu, numero 2435, confinava da una parte con casa del Capitolo (2434), dall’altra con una casa dell’Ospedale, numero 2436; con atto notarile del 14.12.1803 la “Reverendissima Congregazione dello Spedale di Sant’Antonio” concesse in enfiteusi perpetua, a partire dal 01.01.1804, al mastro lattoniere Raimondo Mongiu, la bottega esistente nella casa posta nella discesa del Regio Castello, al fianco della casa che era del fu negoziante Giovanni Ladu (2435), con l’obbligo di migliorarla e accomodare il tetto che era totalmente in rovina, e metterla in ottimo stato entro 3 mesi, con il canone annuo di scudi 32 da pagare l’ultimo giorno di dicembre del 1804.

Secondo le consuetudini, per garantire il pagamento, Mongiu ipotecò una casa che possedeva in Villanova e strada San Mauro, e l’altra bottega concessagli in enfiteusi dalla stessa Congregazione in data 18.08.1802 (casa 2429).

Il Mongiu utilizzò la casa fino al 13.02.1810, quando, con atto del notaio Nicolò Martini, rinunciò all’enfiteusi col patto che gli venissero pagate lire 450 per i miglioramenti da lui effettuati sull’immobile in quei 6 anni.

A conferma di quanto detto sopra sui diversi proprietari di queste case, con un atto del dicembre 1797 si giunse a un accordo fra la chiesa di Santa Caterina e San Giorgio e il reverendo Girolamo Onnis (curatore e tutore dei pupilli Ladu) per una lite risalente al 1793 riguardante le due case 2435 e 2436: la chiesa si addossò le spese per elevare la canna del camino sino all’altezza della casa (retrostante) dell’ospedale, inoltre “sarà ritirata fino al terreno la canna dell’aquadera del Ladu” per evitare di bagnare i muri delle case, e “il balcone e cucina (della casa della chiesa) si tireranno fino ad appoggiarsi alla casa del Ladu, con dei capitelli nella sua muraglia”.

Gli stessi confini vengono confermati in atti del 1802 e del 1803, relativi anch’essi alla casa 2435.

Nel donativo del 1799 della chiesa di San Giorgio e Santa Caterina dei nazionali genovesi sono comprese “5 botteghe dirimpetto alla chiesa, con le sue stanze di sopra”; dovrebbero corrispondere alle unità fra 2436 e 2439 (per quest’ultima sembrerebbe la sola parte di sinistra).

Nel donativo della stessa chiesa del 17.08.1807, per le stesse case vengono fornite alcune informazioni in più: “5 case nella strada della Costa col primo piano e la bottega, confinano da un lato con la casa degli eredi di Giovanni Ladu (2435), dall’altro lato con casa dell’illustrissima città (parte destra della casa 2439), avanti con la stessa chiesa (2733) strada in mezzo, dietro con case del regio ospedale (la parte sulla discesa di Porta Castello degli stessi numeri catastali); in tutto rendono £ 602 e 10 soldi per i fitti”.

Una di queste botteghe, forse quella con numero 2437, fino al 1803 fu utilizzata dal negoziante tirolese Matteo Saggiante; in data 10.02.1803 il negoziante Matteo Saggiante nativo del villaggio di Bieno nel Tirolo italiano, figlio del fu Giacomo, consegnò il suo testamento al notaio Francesco Marini; nominò tutrice dei figli impuberi la moglie Agata Saggiante nata Dellamaria; egli gestiva una bottega di chincaglierie nella Marina dove lavoravano i garzoni Giuseppe Biasione e Liberato Dellamaria, rispettivamente suo nipote e suo cognato; nominò curatore della eredità lo svizzero Carlo Cima; nominò sue eredi le due figlie Caterina e Giovanna Saggiante Dellamaria; morì il 21 febbraio e il giorno successivo il testamento venne pubblicato; il 02 marzo venne iniziato l’inventario e l’estimo delle merci di bottega, che si trovava nella strada della Costa dirimpetto alla chiesa di Santa Caterina Martire; l’inventario comprendeva un vasta scelta di merci: ventagli, coltelli, rasoi, chiavi, compassi, forchette, serrature, lucerne, bugie, calamai, fibbie, rocchetti per calze, bottoniere, giochi, brocche d’ottone, cornici, parapioggia, guanti, pettini, rosari, libri, ecc.

In data 26.09.1806, fu compilato l’inventario di tutti i beni mobili, semoventi e stabili appartenenti allo Spedale della Marina sotto l’invocazione di Sant’Antonio Abate, allo scopo di consegnarli al procuratore generale dei Reverendi Padri Spedalieri, “in eseguimento degli ordini di S.M. del 15.0.1806”.

L’inventario comprende 9 piccole case “incominciando dall’angolo per cui si volta e discende per la contrada della Costa, salendo per la sinistra verso Porta Castello”; non è semplice trovare la giusta associazione fra case e inquilini, date le dimensioni ridotte delle singole proprietà; i loro numeri catastali dovrebbero però essere compresi fra il 2437 e il 2442, con l’esclusione della casa 2436 che era stata già data in enfiteusi a Raimondo Mongiu e che viene specificata a parte nello stesso inventario; le unità 2437, 2439 e 2442, date le loro dimensioni maggiori dovrebbero corrispondere a due case o botteghe diverse; si propone quindi la seguente ipotesi:

la prima casa corrisponderebbe all’estremità destra dell’unita 2442 ed era affittata a Domenica Pompilla (o Pompiglia) per 55 scudi; era più grande delle altre; le successive case erano tutte affittate per scudi 30 ciascuna; la seconda, la terza e la quarta (parte sinistra dell’unità 2442, unità 2441 e 2440) erano affittate al parrucchiere Luigi Cancedda; la quinta (parte destra dell’unità 2439) all’argentiere Pasquale Cojana; la sesta (parte sinistra dell’unità 2439) alla vedova Rosa Dessì; il piano di sopra della settima casa (unità 2438) all’argentiere Giovanni Melis, il piano terreno a (Giovanni?) Capurra; l’ottava casa (parte destra dell’unità 2437) all’argentiere Franco Secci; la nona (parte sinistra dell’unità 2437) al lattoniere Raimondo Fadda.

L’utilizzo di alcune botteghe da parte di Luigi Cancedda è confermato da un atto notarile del 30.05.1804 col quale la Congregazione dello Spedale gli concesse in enfiteusi due botteghe, per tutta la sua vita e quella della moglie, col patto che egli si occupasse di eseguire le riparazioni necessarie; in effetti Cancedda aveva già in affitto le due botteghe per scudi 35 ognuna ma, in considerazione delle spese che aveva affrontato per una bottega, circa 250 scudi, e per quello che avrebbe dovuto spendere per la seconda (almeno 200 scudi), gli si concesse l’enfiteusi vitalizia per soli 30 scudi annui, per ogni bottega.

Il donativo del 1807 dei Religiosi Spedalieri del convento di Sant’Antonio Abate conferma le proprietà e gli affitti elencati nell’inventario, ma l’unica affittuaria citata è Domenica Pompiglia che abitava la casa più grande. 

Da un atto notarile del 1812, di cui si parlerà nel successivo capitolo, si sa che la proprietà dell’Ospedale corrispondente al primo piano della casa 2439 era affittata in quell’anno a Luigi Cannella (ma probabilmente quest'ultimo cognome va letto Cancedda, e si tratta quindi del parrucchiere Luigi Cancedda, prima nominato).

Nel 1839 nella casa 2436 abitava l’argentiere mastro Raimondo Gessa di Cagliari, che il 13 maggio di quell’anno ebbe il permesso di sopraelevare la casa che aveva avuto in enfiteusi (non si sa in quale data) dal “Regio Spedale di Sant’Antonio”; la casa era sita nella discesa di Porta Cagliari, sotto la fortificazione, ed aveva il solo piano terreno, una lunghezza di trabucchi 2, piedi 2 e oncie 6 (in tutto metri 7,60 circa), ed era attigua alla casa dello scarparo mastro Filippo Cintura (2437), alla cui altezza il Gessa doveva allinearsi.

A metà ‘800 la parte sulla strada della Costa delle case 2436 e 2437 apparteneva ancora all’ Arciconfraternita di S.Caterina; la parte che dava sulla strada degli Argentari della casa 2436 era dell’Ospedale civile, e quella della casa 2437 era di Maria Degioannis (vedova di Filippo Cintura) e di Raffaele e Raimondo Fadda Dessì; nello stesso registro catastale di metà ‘800 la proprietà Fadda Dessì viene attribuita, intorno al 1854, all’orefice Vincenzo Peluffo, figlio di Pasquale.

In effetti l’unica fonte che permette di attribuire a Filippo Cintura la casa 2437 (e di conseguenza a Raimondo Gessa la casa 2436) è il Sommarione dei Fabbricati, che riporta la proprietà, dopo il 1850, della vedova Cintura; è stata poi rintracciata una causa civile del 1817, che vedeva contrapposti la chiesa dei Santi Giorgio e Caterina e lo scarparo Priamo Degioannis, per il canone di un locale situato davanti alla chiesa stessa; senza averne certezza, è possibile che Maria Degioannis, moglie e poi vedova dello scarparo Filippo Cintura, fosse figlia dello scarparo Priamo Degioannis, dal quale potrebbe aver ereditato l’enfiteusi della casa.

 

2437 e 2438           (si veda anche il precedente paragrafo 2436/2442)

In data 13.09.1797 il mastro “platero e orefice” Ignazio Capurra (Campurra), dovendo assentarsi dalla città, fece fare un inventario di quanto c’era nella sua bottega, posta nel “arrabal dela Marina y bajada de este Real Castillo a la puerta de Villanueva”; i beni presenti, per il valore di scudi 872, reali 8, soldi 3 e denari 6, vennero affidati al suo “mozo orefice y platero Francisco Perra natural de Gergei”, durante l’assenza di Capurra.

In data 30.06.1798 il notaio Lucifero Cabony, su richiesta di Ignazio Capurra, si recò con i testimoni nella sua casa, sotto la muraglia dello Sperone come si ascende alla Porta Castello, entro il sobborgo della Marina; Ignazio Capurra gli consegnò il suo testamento sigillato.

In data 17.09.1801, il notaio Caboni si recò nella casa Capurra su richiesta di Giovanni, Raffaele, Marianna Capurra, figli del fu Ignazio, e su richiesta del curatore testamentario, l’argentaro ed orefice Giovanni Atzori, per la pubblicazione del testamento del defunto Capurra. Gli eredi erano i 3 figli; il defunto in particolare lasciò a Giovanni e Raffaele 200 scudi a ognuno, tutti i mobili di casa e tutti gli attrezzi della sua professione, da consegnare “quando saranno esaminati nella professione di orefice” (per essere nominati mastri), e incaricò Giovanni Atzori di seguire il loro apprendistato. Aveva già dato alla figlia Maria Anna una dote di scudi 124 quando si era sposata col tenente del Battaglione delle Milizie Urbane Priamo Biancu. Chiese che si restituissero alla moglie Francesca Bazzella quanto aveva portato con la dote, oltre a tutte “le robbe e pegni d’oro e d’argento che essa ritiene presso di sé”.

La casa e l’officina dove finì i suoi giorni detto Capurra” era situata nella Marina, “nella contrada a man sinistra come si ascende dalla porta di Villanova a quella del Regio Castello, ed è di pertinenza dello Spedale”.

Dai documenti citati non è chiaro quale sia esattamente la casa del Capurra: casa e bottega erano nell’attuale via Mazzini, sulla sinistra salendo, ma non si può essere più precisi; si può però ipotizzare che la casa Capurra corrispondesse all’unità 2438, dove un Capurra aveva in affitto una bottega nel 1806.

Con atto notarile del 30.01.1811, i Padri Ospedalieri concessero in enfiteusi vitalizia, mediante l’annuo canone di lire 112.10, agli argentieri ed orefici Michele Piga e Giovanni Campurra, una bottega che i padri ospedalieri possedevano nella Marina e discesa della porta del Castello che va a porta di Villanova, confinante da entrambi i lati con case dello stesso ospedale; Piga e Campurra si impegnarono a pagare anche un debito di lire 87.10 dovute dall’argentiere Francesco Secci per una annata arretrata sulla stessa bottega.

Giovanni Campurra era sicuramente figlio del defunto Ignazio Capurra, di cui continuava la professione; dalla descrizione delle case confinanti, la bottega data in enfiteusi potrebbe corrispondere all’unità catastale 2437 che, secondo l’ipotesi fatta in precedenza, nel 1806 era affittata all’argentiere Francesco Secci; è possiile che il Capurra abbia mantenuto l’affitto della bottega nella casa 2438, a cui si aggiunse la bottega 2437 divisa con Michele Piga. 

Nel Sommarione dei Fabbricati risulta che a metà ‘800 la casa 2438 apparteneva a due proprietari: la parte sulla strada della Costa era dell’ Arciconfraternita di S.Caterina, mentre la parte sulla strada degli Argentari era di Gerolamo Campurra (orefice, figlio dell’orefice Giovanni e di Anna Piga), in enfiteusi dall’Ospedale CivileGerolamo Campurra morì a 74 in una casa di via Manno il 20.01.1879.

Una considerazione sul cognome di questa famiglia: il cognome Capurra attualmente non sembra esistere in Italia; il cognome Campurra è rarissimo, presente con pochi individui in Sardegna, fra Cagliari e Quartu Sant’Elena, e con pochissimi individui nella penisola, presumibilmente originari di Cagliari; è invece ben rappresentato in Campania, e ancora di più in Liguria, il cognome Capurro, da cui è probabile che sia derivato Capurra e da questo Campurra; nel 1745 si sposò in Carloforte il ligure di Sturla (attualmente quartiere di Genova) Giovanni Capurro, con la carlofortina Anna Maria Tagliafico: senza averne certezza potrebbero essere i genitori dell’orefice Ignazio: quest’ultimo infatti ebbe un figlio Giovanni e una figlia Maria Anna, nomi dei coniugi Capurro-Tagliafico.

 

2439      (si veda anche il precedente paragrafo 2436/2442)

Si è già detto che questa casa, dai documenti di fine ‘700 e inizio ‘800, risulta appartenere parte all’Ospedale, parte alla chiesa di S.Caterina; dopo il 1850, anche dal Sommarione dei Fabbricati risultano i medesimi proprietari: la parte sulla strada della Costa era dell’Arciconfraternita di S.Caterina, mentre la parte sulla strada degli Argentari era dell’Ospedale Civile; ma dal Sommarione risulta anche che una parte della stessa casa, con facciata su entrambe le strade, appartenesse in enfiteusi a Giuseppe, Raimondo (1848-1892), e Maria Cima, figli del fu Natale (svizzero, morto il 29.11.1851 all’età di anni 40), e di Domenica Ambrogi; si può supporre che la parte alta della casa fosse quella della famiglia Cima, mentre le botteghe fossero rimaste ai proprietari originari.

Per precisione, la parte sulla strada della Costa della casa 2439 apparteneva solo per metà alla chiesa di Santa Caterina, l’altra metà, quella destra, era “dell’illustre Citta di Cagliari”, e questo è desunto dal testamento di Michele Tuveri, del 1798, dove è scritto che la casetta 2440 di sua proprietà confinava con una casa della città di Cagliari, ed è confermato dal citato donativo del 1807 dell’Arciconfraternita, e da un atto notarile del 1808, relativo all’affitto della bottega 2440.

Con atto del notaio Gioachino Carro, datato 23.05.1812, il Magistrato Civico, a nome della Città, cedette in enfiteusi perpetua una bottega e una stanza all’ospedale di Sant’Antonio Abate; la bottega era abitata dal mercante cioccolatiere Carlo Cima; si trovava nella contrada della Costa davanti alla casa del duca di San Pietro (2735), e su entrambi i lati confinava con proprietà della chiesa di Santa Caterina; il piano superiore era già appartenente all’Ospedale ed era affittato a tale Luigi Cannella (o forse si tratta del già nominato Luigi Cancedda?); il Cima pagava un fitto di 50 scudi annui, vale a dire 125 lire, che sarebbero rimaste alla Città; dal momento che l’Ospedale riceveva dalla casse comunali lire 800 l’anno, il versamento sarebbe stato ridotto a lire 675.

 

2440, 2441, 2442                               (si veda anche il precedente paragrafo 2436/2442)

In data 13.12.1797 il reverendo padre Luis Emanuel dela Vallè di Santa Maria, procuratore del Collegio delle Scuole Pie, concesse in affitto al negoziante Antonio Tuveri figlio del fu Andrea, nativo di Tortolì, 4 botteghe contigue site nella strada della Costa o di Santa Caterina martire, la prima delle quali aveva la parete laterale rivolta verso la Porta di Villanova; davanti vi erano le case del “poticario” Miguel Tuveri (2738), del Canonico Narciso Floris (2737), e del negoziante Juan Prefumo (2736); di spalle vi erano le case del Conservatorio delle orfanelle e la tettoia dell’Amostassen (2450), strada in mezzo, e sul lato la bottega del citato Miguel Tuveri (2441); dette botteghe, identificate con la casa 2442 e chiamate botteghe di Bollolo (Bogliolo)[1], erano state utilizzate in affitto dal defunto Juan Ladu (lo stesso proprietario della casa 2435); visto che gli eredi Ladu non potevano tenerle, vennero affittate ad Antonio Tuveri; si precisa che non risulta nessuna parentela fra lo speziale Michele Tuveri, la cui famiglia proveniva da Forru (Collinas), e il negoziante Antonio Tuveri, nativo di Tortolì.

In data 12.08.1798 venne aperto e pubblicato il testamento di Michele Tuveri, morto il giorno prima; l’unica erede era la figlia Speranza Tuveri in Paglietti; il Tuveri col suo testamento destinò per messe da celebrare in S.Rosalia i frutti di uno dei locali (2440) che aveva in calle della Costa, di fronte al palazzo del duca di San Pietro (2735), con alle spalle le case dell’ospedale, di lato una casa della città di Cagliari (2439, parte) e dall’altra parte un’altra bottega dello stesso Michele Tuveri (2441).

In data 22.06.1807 il Collegio delle Scuole Pie di S.Giuseppe concesse in enfiteusi ad Antonio Tuveri (per la sua vita e quella della moglie) le botteghe che egli utilizzava in affitto già dal 1797, e per le quali pagava 100 scudi annui, cioè 250 lire.

Nel donativo (senza data) del collegio di San Giuseppe delle Scuole Pie è confermata l’enfiteusi ad Antonio Tuveri delle 4 botteghe di Bollolo; il Tuveri pagava ogni anno lire 387 e 10 soldi.

Con atto notarile del 15.12.1807 Speranza Tuveri, figlia di Michele, affittò la bottega 2441 ad Antonio Piccaluga, per 5 anni e scudi 40 annui; con atto del 14.01.1808 affittò la bottega confinante 2440, per lo stesso periodo e per lo stesso canone, al mercante Michele Dodero.

Antonio Piccaluga utilizzava già da due anni la bottega 2441: infatti, con atto notarile del 28.12.1805, suo fratello Nicolino, che utilizzava la bottega di proprietà di Speranza Tuveri, mise a disposizione di Antonio una quantità di merci del valore di circa lire 1500 per permettere al fratello, che si trovava in difficoltà, di gestire un commercio come “ufficiale di bottega”.

Con atto del notaio Lucifero Cabony del 20.10.1810 il negoziante Antonio Tuveri concesse in affitto per anni 8 e 30 scudi annui una delle sue botteghe al negoziante tirolese Giuseppe Biasione; si trattava dell’ultima bottega della fila, all’angolo fra la strada della Costa e la discesa di Porta Castello; il Biasione avrebbe dovuto ribassare il pianterreno al livello della strada della Costa e formare due nuove porte: una sulla Costa, l’altra sull’angolo, rivolta verso la Porta di Villanova. Nell’atto viene specificato che il Tuveri, nativo di Tortolì, dimorava nella Marina da lungo tempo con la sua famiglia; anche il Biasione dimorava alla Marina; in un atto del notaio Stefano Garroni di 3 giorni prima, egli aveva sciolto una società col negoziante Ludovico Della Maria, anch’egli tirolese e dimorante alla Marina: condividevano dal 04.08.1806 nel quartiere una bottega di “Galanteria” di cui non si conosce la posizione; nel 1810 decisero di separarsi dividendo in due uguali porzioni le merci, i crediti, i debiti; forse la vecchia bottega restò al Della Maria, mentre il Biasione se ne cercò una nuova[2].

Nel 1815, nell’atto di vendita della casa 2736, è scritto che detta casa aveva davanti alcune case dei padri Scolopi e del Regio Spedale; si tratta delle casette comprese nell’unità catastale 2442.

Le botteghe 2440 e 2441 appartenevano alla vedova Speranza Paglietti Tuveri ancora nel 1840: sono inserite in un elenco dei suoi beni immobili, rintracciato nel fascicolo di una lite civile iniziata in quell’anno fra la stessa vedova Paglietti e la nuora Isabella Nossardi.

Nel Sommarione dei Fabbricati la parte sulla strada della Costa delle case 2440 e 2441 è attribuita a Carlo, Francesca, e Carolina Paglietti, nipoti di Speranza Tuveri; la parte della casa 2440 sulla discesa di porta Castello, chiamata a metà secolo strada degli Argentari, era del chirurgo Giuseppe Pollone, mentre la analoga parte della casa 2441 era del farmacista Domenico Marramaldo che l’aveva in enfiteusi.

L’unità catastale 2442 apparteneva a metà ‘800 ancora al collegio degli Scolopi per la parte prospicente la strada della Costa, mentre la parte sulla strada degli Argentari apparteneva in enfiteusi a Giuseppe, Raimondo, e Maria Cima, gli stessi che possedevano il piano alto della casa 2439.



[1] I Bollolo o Bogliolo, provenienti da Moglio frazione di Alassio (SV), arrivarono in Sardegna con Lorenzo, che si sposò a Cagliari nel 1695

[2] Il Biasione e il Della Maria provenivano dal “borgo di Strigno, giurisdizione di Vano”: attualmente Strigno, con poco più di 1.400 abitanti, è una frazione del comune di Castel Ivano (poco più di 3.200 abitanti), a circa 45 km da Trento.