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Isolato Q: piazza di Porta Villanova/S.Rosalia/Piazza del Monserrato

(piazza Martiri, via Torino, via Porcile)

numeri catastali da 2454 a 2474

dopo l’abbattimento delle mura e del bastione del Monserrato, quasi tutte le case che sorgevano in quest’isolato sono state sostituite da palazzi più importanti; l’unica eccezione è la casa Martini, all’angolo con la nuova via intitolata a San Salvatore da Horta; l’apertura di questa strada verso il viale Regina Margherita ha portato alla divisione in due dell’isolato; da notare la costruzione dell’ex albergo La Scala di Ferro sul bastione di Monserrato, nella seconda metà dell’800. Le costruzioni edificate nel XIX secolo, al di sotto dell’unità catastale 2474, hanno unito la parte bassa di questo isolato con il successivo, fino alla attuale via dei Pisani.

 

2454 e 2455       

E’ stato più volte citato il testamento dello speziale Michele Tuveri, morto alle 7 della sera del giorno 11 agosto 1798; egli stabilì che la sua vedova Annica Fundoni avesse l’usufrutto di diversi immobili, fra cui las tiendas nel restrillo dela puerta de Villanova a mano isquerda bajando a la iglesia de Santa Rosalia; si tratta delle unità catastali 2454 e 2455, le prime a sinistra scendendo per la strada di Santa Rosalia.

Con atto del notaio Efisio Ferdiani, del 19.04.1808, donna Speranza Tuveri, assistita dal marito don Carlo Paglietti, affittò le due botteghe al negoziante Svizzero Alessandro Derosa (Luigi Alessandro De Rose); egli le aveva in affitto già da alcuni anni, nel 1808 il contratto venne rinnovato con le stesse condizioni; furono concesse per altri 6 anni, col fitto annuo di scudi 100; si trovavano nella discesa che da Piazza Villanova va alla chiesa di S.Rosalia, sotto la muraglia di Porta Villanova, confinanti con la stessa muraglia e da una parte con la bottega del Segretario e Cavaliere Don Giuseppe Cossu.

Nell’inventario dei beni di Speranza Tuveri, figlia di Michele, datato 1840, sono ancora comprese le due botteghe vicine alla Porta Villanova; inoltre nel Sommarione dei Fabbricati risulta che dopo il 1850 entrambe le unità catastali appartenessero a Francesco Paglietti (1838-1852), figlio del fu Raffaele Paglietti (figlio di Speranza Tuveri) e di Isabella Nossardi.

 

2456     

Sono pochissime le notizie raccolte su questa casa: dovrebbe identificarsi con una proprietà del dottore e censore generale Giuseppe Cossu; il fascicolo di una causa civile del 1798, rintracciato all’Archivio Comunale, ci fa sapere che il canonico Agostino Cossu, prebendato della cattedrale, agendo come procuratore generale di suo fratello dottor Giuseppe Cossu, citò in giudizio il carnicero Mauro Mereu che aveva piazzato il suo banco per vendere la carne fra le due botteghe della casa Cossu, danneggiando il tavernaro Sebastiano Porcu che le aveva in affitto; i dati forniti dalla causa non sarebbero sufficienti per identificare le botteghe ma, nel donativo (senza data) del Collegio di San Giuseppe delle Scuole Pie, vengono dichiarate 4 botteghe nella strada di Santa Rosalia identificate con l’unità catastale 2457 e le 3 successive, confinanti con una casa del dottor Giuseppe Cossu.

Il dato è confermato dal contratto di affitto delle botteghe Tuveri (2454 e 2455) che confinavano con una bottega di don Giuseppe Cossu.

A metà ‘800, dal Sommarione dei Fabbricati, risulta che la casa 2456 appartenesse al Legato di beneficenza dei poveri di Stampace.

 

2457, 2458, 2459, 2460                  

Dovrebbero corrispondere a 4 botteghe di proprietà dei padri del Collegio delle Scuole Pie di San Giuseppe, cioè i Padri Scolopi; la prima notizia rintracciata è del 1777, quando venne concesso a Giuseppe Martini un terreno nella strada di S.Rosalia in vicinanza della Regia Muraglia della porta di Villanova, sito fra case dei padri Scolopi e dei padri Mercedari; le case del Martini sono identificate con le unità catastali 2461 e 2462, la casa dei Mercedari con l’unità 2463, per cui la casa dei padri Scolopi è l’unità 2460; si è già detto, nel precedente paragrafo, che nel donativo (senza data, ma successivo al 1805) del Collegio di San Giuseppe delle Scuole Pie, vennero dichiarate 4 botteghe in fuga nella strada di Santa Rosalia, i cui confini erano i seguenti: da una parte una bottega di Emanuela Martini (2461) dall’altra una casa del dottor don Giuseppe Cossu; di spalle la muraglia; erano 4 botteghe di una sola stanza, date in enfiteusi a madama Gattu per £ 50, ad Anna Pani per £ 75, ad Antonio Firenz per £ 62 e 5 soldi, a madama Giorgio per £ 62 e 5 soldi.

Con atto notarile del 30.09.1807 il Collegio delle Scuole Pie concesse una di queste case “terrene” in enfiteusi al commerciante svizzero Alessandro De Rose, per tutta la durata della sua vita e di quella della moglie Elena Ruggeri Valdes. 

De Rose avrebbe pagato scudi 35 annui, pari a lire 87 e 10 soldi; era una delle case centrali, cioè la 2458 o la 2459, in quanto confinante da ambi i lati con la proprietà degli stessi Scolopi; è più probabile che si tratti dell’unità 2459, in quanto sul davanti aveva una casa del convento dei Padri Mercedari, numero 2746, che lo stesso De Rose aveva avuto in enfiteusi nell’aprile 1804; potrebbe corrispondere alla casa che in precedenza aveva Antonio Firenz (o Ficenz, o Vicentz), svizzero/tedesco, distillatore di liquori come Alessandro De Rose.

Con atto notarile del 06.03.1812 i padri Scolopi concessero allo stesso De Rose, in enfiteusi vitalizia, altre due case confinanti con la precedente; se è corretto identificare la prima casa con l’unità 2459, queste ultime dovrebbero coincidere con le unità 2457 e 2458. Il De Rose si impegnò per pagare 35 scudi annui per ogni casa, ipotecò dei beni che possedeva in Quartu, e si impegnò a eseguire dei lavori di miglioramento: avrebbe rifatto la facciata, i pavimenti, avrebbe aggiunto una finestra e dei “poggiuoli” in ferro, e avrebbe costruito un “mezzo sostre”, vale a dire una soffitta.

Un’altra fonte che le cita è l’inventario dei beni del fu negoziante Francesco Vodret, compilato nel 1813: la casa 2744 del Vodret aveva una facciata anche sulla strada di S.Rosalia, davanti alla quale vi erano le case di San Giuseppe, cioè le case 2458 e 2459.

Infine, nel Sommarione dei Fabbricati risulta che le 4 unità catastali fossero, dopo il 1850, ancora di proprietà del Collegio San Giuseppe.

 

2461, 2462, 2463           

In data 17.12.1777 venne firmata la concessione enfiteutica per poter fabbricare in un pezzo di terreno situato nella strada di S.Rosalia, in vicinanza della Regia Muraglia della porta di Villanova, in favore del negoziante Giuseppe Martini, mediante l’introggio di scudi 10 e l’annuo canone di lire 2; Giuseppe Martini (1750-1782), figlio del negoziante Giovanni Battista, aveva acquistato, con atti del luglio e del novembre 1776, il suolo di 2 case distrutte contigue, una dalle sorelle Fadda eredi del fu dottor Domenico Fadda, e una dal sindaco della città per non essersi rinvenuto il proprietario (case 2462 e 2461); gli venne concesso in enfiteusi il terreno confinante con le regie muraglie (dietro alle sue case), posto fra una casa dei padri Scolopi (2460) e una casa dei padri Mercedari (2463); alla concessione è allegata una dichiarazione del 05.12.1777 di Giambattista Martini che attestò la piena facoltà del figlio per contrattare, obbligarsi ai patti, dichiarandolo libero e promettendo di non opporsi, sotto l’obbligo dei suoi stessi beni.

Giuseppe Martini, nato nel 1750, era il primo figlio dell’agiato negoziante Giovanni Battista Martini e di Agnese Postillon; si sposò nel 1779 con Barbara Fadda figlia di Salvatore, la quale non si esclude che potesse essere una delle eredi del dottor Domenico Fadda, ex proprietario di una delle due case.

In data 22.09.1778 venne concesso in enfiteusi dal demanio al negoziante Gio Batta Martini (1719-1796) un terreno aderente alle mura, il quale fu utilizzato per la riedificazione di una casa che il Martini aveva acquistato il 27 gennaio di quell’anno dai padri Mercedari (numero 2463); era situata nella strada di Santa Rosalia, contigua a casa appartenente allo stesso Martini, “nonostante apparisca come concessionario il figlio Giuseppe, che dichiara di averla acquistata con denaro del padre che la possiede come propria”; Giuseppe Martini morì a 32 anni nel 1782, i suoi beni restarono ai familiari.

Una causa civile conservata in Archivio di stato (R.U. Pandetta 55, busta 671, fascicolo 7433) ci conferma l’acquisto fatto dal Martini della casa 2463 dai padri Mercedari; egli aveva pagato 821 lire e 14 soldi e si era onerato di alcuni carichi che gravavano sulla casa, provenienti dalle volontà testamentarie di una più antica proprietaria: Caterina Morvillo la quale, nel suo testamento del 16.12.1713, aveva lasciato la casa al convento dei Mercedari con alcuni obblighi (messe e benefici ecclesiastici); i Padri, dopo aver ceduto la casa al Martini, temevano che non sarebbero stati più onorati quegli obblighi, a causa dei progetti di riedificazione del Martini a seguito dell’enfiteusi concessagli dei terreni retrostanti; i progetti avrebbero coinvolto le due case 2461 e 2462 e la stessa casa 2463. Il Martini riuscì comunque a riedificare le case con la costruzione di un palazzotto tuttora esistente (al numero civico 26 della via Torino).

Nel 1783 Emanuela Martini (1761-1816), sorella di Giuseppe, si sposò con lo speziale (boticario) Pietro Altea di Tempio; ebbe in dote, fra gli altri beni, una casa nella strada di Santa Rosalia, più o meno di fronte alla chiesa omonima, non lontano dalla Porta di Villanova; nel 1789 la bottega di questa casa fu affittata al francese Giovanni Baldini; dovrebbe trattarsi della casa 2461, quella acquistata dal “Sindaco della città” ovvero dalla Comunità Siciliana[1]: infatti nel dicembre del 1789 il negoziante Juan Bautista Martin fece stimare (per lire 4363, soldi 5, denari 8) la casa che possedeva nella strada di Santa Rosalia, acquistata dagli eredi del dottor Fadda (2462), confinante da una parte con altra casa acquistata dalla nazione Siciliana e ora di proprietà di Emanuela Martini (2461), e dall’altra parte con casa del medesimo Martini (2463); la casa era composta da una bottega e due piani, e vi era anche incluso l’ultimo piano della casa laterale, comprata dal Martini dai padri Mercedari (2463); lo stesso giorno il Martini fece anche stimare (per 2263 lire, 4 soldi e 6 denari) la bottega della casa acquistata dai padri Mercedari, posta fra la casa acquistata dagli eredi Fadda (2462) e una casa delle Orfanelle (2464).

Nel dicembre del 1796 morì a 77 anni Giovanni Battista Martini; la moglie Ines Postillon era già defunta dal 1790, i suoi eredi erano il figlio Ambrogio e le figlie Emanuela e Apolonia; la famiglia Martin o Martini proveniva dalla Liguria: il padre di Giovanni Battista, Ambrogio, nativo di Alassio (SV), si era sposato nel 1697 nella chiesa di Sant’Eulalia con Polonia Cagnè-Preve, figlia di un commerciante proveniente anch’egli da Alassio; fratello maggiore di Giovanni Battista era Carlo Martini, proprietario della casa 2540.

Al momento della morte, Giovanni Battista abitava in una casa di sua proprietà nella strada Barcellona e nell’inventario dei suoi beni era inclusa una casa (2463) nella discesa che conduce alla Porta Jesus, di fronte alla chiesa di Santa Rosalia, confinante da una parte con una casa delle orfanelle (2464), dall’altra con case di Pietro Altea (marito di Emanuela Martini, casa 2461) e di Aniello Onorato (marito di Apolonia Martini, casa 2462).

Nel 1799 Pietro Altea dichiarò di possedere, come dote della moglie, la metà di una casa nella strada di Santa Rosalia “in faccia alla chiesa”, composta da un sòttano, una piccola cucina, due sotterranei, e due piani alti; il piano terra e i sotterranei si affittavano per scudi 30, il primo piano formato da una stanza e cucina si affittava per scudi 22, l’ultimo piano, identico al primo, per scudi 15. Non è molto chiaro cosa intendesse l’Altea per metà casa: forse la casa 2461 era considerata un tutt’uno con la confinante casa 2462, che doveva essere quella data in dote ad Apolonia Martini.

Il tempiese Pietro Altea morì nel 1801; la sua vedova Emanuela Martini, trovandosi a corto di denaro, con atto del notaio Giovanni Luigi Todde del 11.08.1804 ipotecò la sua metà casa in calle di Santa Rosalia, la stessa che aveva avuto per capitoli matrimoniali dai suoi genitori.

Apolonia (o Polonia), l’altra figlia di Giovanni Battista Martini, si era sposata nel 1789 con Aniello Onorato, col quale nel 1790 ebbe la figlia Agnese; Apolonia morì nel 1801, era separata dal marito da alcuni anni, e certamente Agnese, l’unica figlia di cui si ha notizia, non visse a lungo.

Con atto del notaio Gioachino Mariano Moreno, del 21.08.1804, si giunse ad un accordo definitivo fra i fratelli Ambrogio ed Emanuela Martini sula divisione delle eredità paterna e materna e della sorella Apollonia, dopo 8 anni di lite giudiziaria; era stata già divisa recentemente la casa della strada Barcellona (2917), e fu quindi stabilità la divisione delle proprietà nella strada di Santa Rosalia: ad Ambrogio toccò la parte più a sud, numero catastale 2463, ad Emanuela le due case 2462 e 2461, che già avevano fatto parte delle doti rispettivamente di Apolonia e della stessa Emanuela; furono assegnate anche alcune proprietà nel quartiere di Stampace e furono spartiti i censi che erano caricati sulle proprietà, da pagare in particolare alla Arciconfraternita di Santa Lucia, beneficiata nel testamento di Giovanni Battista Martini. 

In data 05.02.1806 Emanuela Martini, coniugata (dal 1805) con l’avvocato Pietro Fenu, firmò una ricevuta, a favore del notaio Michele Delorenzo, per lire 214, soldi 11 e denari 8: era quanto le spettava, per i fitti riscossi dal cognato Agnello Onorato il quale, dopo la morte di sua moglie Apolonia Martini, non aveva restituito la casa agli eredi legittimi; il coniuge senza figli non aveva diritti rispetto ai parenti di sangue del defunto, e c’era stata necessità di una causa civile, la cui sentenza, dando ragione ai Martini, era stata firmata il 23.12.1805. Pochi giorni più tardi, 08.02.1806, fu compilato l’atto di presa di possesso da parte di Emanuela Martini della casa che aveva posseduto la sorella Polonia (2462), situata fra quella della stessa Emanuela (2461) e quella del fratello Ambrogio (2463).

Ambrogio nel 1794 si era sposato con Rosa Manca ed ebbe due figli, Bernardo e Agnese; nel 1811 era vedovo e, con atto notarile del 26 maggio, firmò i capitolo matrimoniali per costituire la dote della figlia Agnese che si doveva sposare con Angelo Puddu; concesse alla figlia i diritti sulla casa della strada di Santa Rosalia, davanti alla chiesa, “fra le vecchie muraglie delle case dei padri Scolopi (2460) e dei padri mercedari”, costruita a ridosso delle Regie Muraglie che chiudevano il sobborgo della Marina; nell’atto è specificato che la casa era stata concessa in enfiteusi dal Real Patrimonio (anche se in realtà l’enfiteusi riguardava solo il terreno fra le case e le mura) al negoziante Giuseppe Martini nel 1777, con “l’introggio” di scudi 10, e l’annuo canone di reali 8 (cioè 2 lire), fu ereditata da Giovanni Battista Martini per la morte del figlio Giuseppe, e Ambrogio l’ebbe a metà con la sorella Emanuela alla morte del padre Giovanni Battista, avendo ereditato tutti i miglioramenti fatti dagli stessi Giuseppe e Giovanni Battista.

Non è chiaro se l’atto del 1811 si riferisca alle sole due case 2461 e 2462, oppure anche alla terza casa 2463; il riferimento alla vecchia muraglia dei padri Mercedari crea confusione, ma sembra più probabile che la proprietà Martini comprendesse ancora tutte tre le case, divise in due proprietà fra Emanuela e Ambrogio, poi fra i loro figli.

Emanuela Martini morì fra il 1815 e il 1816; lasciò il suo testamento, datato 14.11.1811, rintracciato fra gli “Atti delle ultime volontà” (ASC); nominò il marito Pietro Fenu esecutore e curatore testamentario, gli lasciò i beni acquisiti durante il matrimonio, e gli lasciò l’usufrutto della casa di abitazione in prospetto alla chiesa del convento di S. Rosalia, col patto però che pagasse i pesi, cioè 20 scudi annui al convento di Bonaria, 12 scudi alla monache Cappuccine, 4 lire al Regio Patrimonio, e 27 reali e 9 cagliaresi alla confraternita dei Siciliani; inoltre gli impose di pagare 36 scudi annui alla figlia Efisia Altea Martini, e 20 scudi al figlio Fedele Altea Martini.

Eredi universali di Emanuela Martini erano i figli Efisia e Fedele, mentre al figlio Antonio Altea lasciò solo la parte legittima, “per avere il medesimo sufficientemete dissipato, ed aver fatto delle considerevoli spese per abilitarlo all’esame di Speziale, e nella occorrenza del suo matrimonio con donna Francesca Cortese, e ultimamente pel quasi nuovo ripianto della spezieria che attualmente governa il medesimo che capricciosamente profugò tutti gli arnesi inservienti alla Spezieria (che) lasciò il di lui padre e mio consorte di primo letto, il fu Pietro Altea”.

Per pagare i debiti contratti durante la vedovanza, anche a causa delle ingenti spese per il matrimonio (prestigioso!) del figlio, Emanuela Martini era stata costretta a vendere un magazzino vicino alla chiesa di San Bernardo e una casa nella strada Monti, in Stampace; il secondo marito aveva anche subito il sequestro delle sue Regie paghe per il pagamento di scudi 230 di debito della moglie. Perciò ordinò che “nessuno possa domandar conto né molestare il citato attuale marito”. Alla morte di Pietro Fenu (che nel 1818 si risposò con Ignazia Spiro di Carloforte) la casa della strada di Santa Rosalia sarebbe rimasta in piena proprietà ai figliastri Efisia e Fedele Altea Martini.

I figli di Pietro Altea e Emanuela Martini non vissero a lungo: Antonio, il maggiore, morì nel 1822; Efisia, coniugata col libraio Luigi Lecca Paucheville, morì nel 1819; Fedele morì nel 1834; non risulta che qualcuno fra loro abbia avuto discendenza; Fedele, nel 1834, abitava ancora nella casa della strada di Santa Rosalia, i suoi eredi furono i cugini sacerdote Antonio Maria Altea, Bernardo e Agnesa Martini, e Francesco Loi Pitzalis; il primo, docente di decretali all’Universita di Cagliari, agiva in rappresentanza dei suoi fratelli e sorelle Altea di Tempio; Bernardo e Agnesa Martini erano figli di Ambrogio, fratello di Emanuela; Francesco Loi Pitzalis era figlio di una cugina di Emanuela Martini per parte materna.

Dal Sommarione dei Fabbricati risulta che a metà ‘800 le case 2461 e 2463 appartenessero al consigliere d’Appello don Filippo Altea di Tempio, di cui si ignora l’eventuale (ma probabile) parentela con i precedenti proprietari Altea Martini; una delle due case era affittata al negoziante e sergente invalido Francesco Giunti, contro il quale, nel 1850, l’Altea avviò una causa civile per problemi di riscossione del fitto.

La casa 2462 in quegli anni apparteneva invece alle sorelle Placida, Candida e Chiara Rossi (1831?-1907), figlie del fu Domenico, probabilmente fratello del barone Salvatore.

La casa Martini esiste ancora, all’angolo alto della recente via San Salvatore da Horta; il portone è sormontato da una inferriata su cui è inserita una sorta di aquila, forse una “M” a foggia di aquila; si propone l’ipotesi che possa essere l’iniziale del cognome degli antichi proprietari. 



[1] Probabilmente fu chiarito in breve tempo che la casa distrutta 2461, di cui non si conosceva il proprietario, apparteneva alla Comunità dei Siciliani

  

2464     

Per questa unità catastale sono state rintracciate pochissime notizie, legate alle vicende della confinante proprietà Martini: nel 1790 Giovanni Battista Martini fece valutare la sua casa 2463, confinante con una casa delle Orfanelle (2464); la stessa notizia si legge nell’inventario dei beni dello stesso Martini, del dicembre 1796, dove è specificato che la sua proprietà sita nella discesa che conduce alla Porta Jesus, identificata con la casa 2463, era confinante con casa delle Orfanelle.

Una conferma significativa si ha dal Sommarione dei Fabbricati di metà secolo XIX, nel quale risulta che questa casa apparteneva al Conservatorio delle figlie della Provvidenza.

 

2465

L’unica notizia su questa casa si ha dal donativo della Congregazione di Santa Rosalia dei nazionali siciliani, datato 28.06.1799: venne dichiarata la proprietà di una casa di fronte alla chiesa stessa, formata da una bottega e due piani con 4 stanze in tutto, affittata a lire 122 e 20 soldi; si pagavano lire 55 di pensione annua al negoziante Carlo Dessì come curatore dell’eredità del notaio Agostino Paderi, per un censo di scudi 400. 

Da queste poche notizie non si avrebbe la certezza sull’identificazione della casa, ma vi è la conferma dal Sommarione dei Fabbricati successivo al 1850, dove è riportata la proprietà della Congregazione; nello stesso registro è riportato il passaggio di proprietà (1854 circa) dalla Congregazione a Vincenzo Serra Meloni, medesimo proprietario in quegli anni delle case 2466 e 2467. Il 14.12.1870 morì nella sua abitazione al numero 19 e 21 di via Santa Rosalia (corrispondenti ai numeri catastali 2466 e 2465) Rita Delorenzo, prima moglie del causidico e notaio Vincenzo Serra Meloni; quest’ultimo morì in una casa nella strada Darsena, al numero 8, il 17.07.1896, all’età di 84 anni.

 

2466/2469          

Le case dal numero 2466 fino al numero 2469 facevano parte della proprietà di Francesco Agostino Ravagli, padre di Giuseppe (-1772); quest’ultimo era il padre di Francesca Porcu Ravagli, Giuseppa Delorenzo Ravagli, Teresa Tarena Ravagli, Bartolomea Marramaldo Ravagli, Maria Anna e Agostino Ravagli; nel 1820 il Monastero di Santa Chiara iniziò una lite civile contro gli eredi di Francesco Agostino Ravagli, per chiedere il pagamento delle pensioni, maturate e mai pagate, su un censo di lire 1000, con ipoteca delle case da lui costruite di fronte alla chiesa di Santa Rosalia; viene riportato il documento del 29.02.1752, col quale il Ravagli aveva ipotecato le case.

 

2466 e 2467

A metà ‘800 le case 2466 e 2467, così come la casa 2465, appartenevano al notaio Vincenzo Serra Meloni, che aveva sposato nel 1841 Rita Delorenzo, figlia di Andrea e di Giuseppa Ravagli; questa proprietà, o parte di essa, doveva costituire la porzione d’eredità di Giuseppa; Andrea Delorenzo, marito di Giuseppa Ravagli, nella sua denuncia per il donativo del 24.06.1799, dichiarò di possedere e abitare una casa nella strada di Santa Rosalia formata da 4 stanze, che si affittava in passato per lire 62 e soldi 10; il piano terreno di una di queste case fino al 1829 era proprietà di donna Bartolomea Ravagli, coniugata col conte di Nureci Francesco Marramaldo Toufani: non potendo pagare un debito di lire 278, soldi 2 e denari 10, su richiesta del creditore monastero di Santa Chiara, Bartolomea Ravagli nel 1829 cedette allo stesso monastero la sua proprietà, costituita da un magazzino situato al di sotto dei 2 piani alti di proprietà della sorella Giuseppa De Lorenzo nata Ravagli.

E’ possibile che parte di queste due case costituisse la porzione ereditaria della nubile Maria Anna Ravagli, morta nell’agosto del 1792, che abitava in una casa della strada Santa Rosalia: sua erede per la parte legittima era la madre Jacinta Ravagli Lay, dalla quale poi la proprietà potrebbe essere passata alle altre figlie.

Il notaio Serra Meloni non abitava, a metà ‘800, né in queste 2 case, né nell’altra sua proprietà 2465: infatti nel registro catastale di metà ‘800 è inserita un’altra unià immobiliare a cui però non è attribuito il numero catastale, anch’essa nella strada di Santa Rosalia ma senza numero civico, una nuova costruzione dove risulta l’abitazione.

Il 14.12.1870 morì nella sua abitazione al numero 19 e 21 di via Santa Rosalia (corrispondenti ai numeri catastali 2466 e 2465) Rita Delorenzo, prima moglie del causidico e notaio Vincenzo Serra Meloni; quest’ultimo, nativo di Seuni (frazione di Selegas), cavaliere, notaio e causidico, vedovo di Rita Delorenzo e marito di Marianna Marini, morì in una casa nella strada Darsena, al numero 8, il 17.07.1896, all’età di 84 anni.

La sua seconda moglie Marianna Marini morì nella (stessa) casa di via Torino numero 8, il 04.02.1911, all’età di 76 anni.

 

2468

Questa piccola casa, al disotto della quale vi era il passaggio per entrare al bastione dei Morti o di Monserrato, si può identificare con una proprietà del notaio Antonio Tarena; è quello che risulta da l’atto notarile del 15.05.1804 col quale fu venduta la casa 2469 al chirurgo Pietro Franco e come conferma il donativo del 1807 dello stesso Pietro Franco, la cui casa 2469 confinava a destra (a destra uscendo dalla casa) con la casa Tarena.

Antonio Tarena era sposato con Teresa Ravagli, figlia di Giuseppe, per cui la casa era in realtà proprietà della moglie per eredità paterna, come attesta l’atto di ipoteca del 1782 della casa 2469 (vedi). 

A metà 800 questa unità catastale apparteneva all’Arciconfraternita di Santa Caterina

 

2469     

Questa casa si identifica con quella di Francesca Ravagli (o Ravalli); nel 1781 vi furono eseguiti alcuni lavori dai mastri Miguel Mannay albanil e Pasquale Mamely carpintero; questi ultimi vennero pagati dal notaio Esusebio Porcu, marito della Ravagli, come risulta dalla nota delle spese del 20.01.1781, rintracciata in un atto notarile dell’Archivio Martini (ASC).

Il notaio Porcu morì nel 1782, dopo appena due anni di matrimonio, la moglie alcuni anni dopo; i figli minori Raimondo ed Eusebia, assistiti dal loro curatore, il procuratore Antonio Joseph Porcu (loro nonno paterno), presentarono il 26.06.1799 la loro dichiarazione per il donativo, e denunciarono la proprietà di una casa “dirimpetto al portone di Santa Rosalia” formata da 2 piani alti di poche camere, affittata a scudi 30 annui; pagavano 5 scudi per la pensione di un censo di 100 scudi al 5% al monastero di Santa Chiara.

Il fratello di Francesca Ravagli, il negoziante Agostino, possedeva il piano terra e il sottopiano di questa casa: nel 1782 vi caricò un’ipoteca per acquistare le case corrispondenti ai numeri 2470/2473: venne ipotecato il piano inferiore della sua casa, sita in prospettiva alla portiera di S. Rosalia, con stanza sotterranea (vulgo garagatu) e stanza superiore, toccatogli nella divisione fra i fratelli Ravagli figli del quondam Giuseppe loro padre, confinante a mezzogiorno col sito e le case vendutegli (2470/2473), a tramontana con altra casa degli eredi di Giuseppe Ravagli (2466/2468), a levante col bastione reale, a ponente col convento della chiesa di S.Rosalia strada mediante; negli anni successivi Agostino Ravagli si curava dell’amminisrazione anche dei piani alti, e nel 1798 e 1799 entrò in lite col chirurgo Pietro Franco che vi abitava: “Ravalli pretende dal Franco i soldi del fitto e vuole che il Franco paghi il danno che cagionò la notte della vigilia di San Pietro apostolo, poiché per fare degli spari appiccò fuoco a una quantità di polvere vitrea che teneva dentro la camera e lo scoppio diroccò la camera e quella vicina e ruppe le vetriate e le imposte delle finestre.

Con atto del notaio Lucifero Caboni del 15.05.1804 il chierico ex-trinitario Raimondo Porcu, unitamente alle zie Anna Porcu (sorella del fu notaio Eusebio Porcu) vedova Licheri e Geltrude Marteddu (zia del notaio Eusebio Porcu), vendettero la casa (gli ultimi due piani) al chirurgo Pietro Franco per scudi 444, reali 5, soldi 1 e denari 8; Raimondo era proprietario in quanto erede di sua madre Francesca Ravagli, le due donne erano eredi della monaca cappuccina Eusebia Porcu, sorella di Raimondo.

La casa era stata valutata per quella somma dai mastri muratori Francesco Murru e Michele Mannai, e dai mastri falegnami Ignazio Ferragut e Salvatore Zucca; dal totale si dedussero lire 518 per il censo che vi gravava di lire 246, soldi 13 e denari 4 e pensioni scadute per lire 270 soldi 6, denari 8; il Franco pagò quindi il rimanente, cioè lire 593 soldi 6, denari 8, di cui la metà era la parte del chierico Raimondo, l’altra metà delle due zie.

Con atto del notaio Francesco Antonio Vacca del 08.06.1804, Agostino Ravalli e Pietro Franco firmarono un accordo relativo alla casa 2469: il piano terreno col mezzanello e il sotterraneo (volgarmente detto garagatu) appartenevano infatti al solo Agostino, a seguito della divisione dei beni paterni. La cisterna era in comune; nel piano terreno vi era una piccola finestra che si affacciava sul retrostante bastione, chiusa da una grata di ginepro; la casa aveva davanti il convento di Santa Rosalia (2807). Il Franco voleva innalzare la casa di un altro piano, doveva perciò procedere al rinforzo delle muraglie del piano terreno; i lavori avrebbero impedito l’abitazione del piano terreno, il quale inoltre serviva per riporre i materiali di costruzione; pertanto nel 1804 Pietro Franco firmò un accordo secondo cui avrebbe pagato al Ravalli 30 scudi annui, fino al completamento dei lavori, da pagare semestralmente e in anticipo.

In data 27.09.1806 il chirurgo Franco estinse il censo che gravava sulla casa: era stato acceso da Francesco Agostino Ravagli (nonno di Francesca Ravagli) nel 1752 per un capitale di lire 1000 fornite dal Monastero di Santa Chiara, caricate però su tutte le sue case (numeri dal 2466 al 2469). Il Franco pagò per il capitale e le pensioni arretrate lire 540, soldi 19 e denari 2, somma consegnata alla suora Rafaela Busu, Madre Badessa del Monastero di Santa Chiara.

Agostino Ravagli, nel suo donativo privo di data, dichiarò di possedere 5 case contigue nella contrada di Santa Rosalia: della prima possedeva il solo piano terreno (2469).

Pietro Franco dichiarò il 27.07.1807 di possedere e abitare i 3 piani alti di una casa (2469) nella strada di Santa Rosalia, il cui piano terra apparteneva al negoziante Agostino Ravagli; confinava a destra con casa del notaio Antonio Tarena (2468), a sinistra con altre case del Ravagli (2470 e successive), dietro col bastione del Monserrato, davanti col convento degli Osservanti (2807); ogni piano era formato da 2 stanze, il valore della casa era circa 900 scudi, avrebbe potuto ricavarne scudi 40 annui di affitto. Il Franco nel 1808 ospitava nella sua casa i due maioli Sebastiano Piseddu di Genoni e Giuseppe Piras di Tiana.

Nell’inventario dei beni del Ravagli, del 1817, è compreso anche il piano terreno cioè la bottega della casa (2469) i cui piani alti appartenevano al chirurgo Franco, valutata £ 1197 e soldi 17, affittata al tavernaro Mauro Manca.

Nel 1829 sorse una contesa giudiziaria fra Giovanni e Giulia fratello e sorella Franco, proprietari della casa 2469, contro l’Arciconfraternita dei Genovesi che era diventata proprietaria delle case Ravagli (2470 e successive), lite che si protrasse fino al 1837 (Cause civili, Pandetta 54, busta 374, fascicolo 4825). 

A metà ‘800 la casa 2469 apparteneva ancora (forse interamente) al medico Giovanni Franco, figlio del fu Pietro, che vi morì ottantaquattrenne nel 1870.

 

2470/2473

Il negoziante Agostino Ravagli (1761-1817), nel suo donativo privo di data, dichiarò di possedere 5 case contigue nella contrada di Santa Rosalia: della prima possedeva il solo piano terreno (2469, vedi), la seconda (2470) era una casa piccola, terrena, con sopra un mezzanello, affittata per lire 85; la terza (2471) aveva il piano terra e il primo piano, affittata per lire 81; la quarta (2472) aveva 2 piani alti e un cortile, abitati dal proprietario, e si potevano affittare per lire 50, mentre il piano terra era affittato per lire 27; la quinta (2473) aveva 2 piani alti affittati per lire 60, una stanza terrena ed un mezzanello affittati per lire 45, un’altra stanza terrena affittata per lire 22 e 10 soldi.

Una di queste case, probabilmente quella con numero catastale 2472, con atto notarile del 23.12.1806 fu aggiudicata all’asta al negoziante Juan Baptista Bovaglio che agiva per conto delle figlia Teresa Bovaglio Mercandini, della quale amministrava i beni. L’asta fu stabilità dal Tribunale il 20.07.1805 su istanza dei creditori Bovaglio, e la casa fu aggiudicata per lire 1185, soldi 14 e denari 6. Non è chiaro però se i Bovaglio riuscirono ad entrare in possesso della casa, in quanto la loro proprietà non risulta dagli atti successivi.

Nel 1809 un’altra casa, forse quella con numero 2473, era affittata a Giovanna Murtas, vedova dal 1806 di Antonio Villani (o Brigliano, o Bigliano, si veda per dettagli la casa 2525), la quale pagava 45 scudi annui (cioè 112 lire e 10 soldi, poco meno delle 127 lire e 10 soldi dichiarati nel donativo da Agostino Ravagli), abitava solo il piano intermedio e subaffittava piano terra e piano superiore.

Nel 1818 ebbe avvio una complicata e lunga lite civile fra la chiesa di San Giorgio e Santa Caterina dei Genovesi e l’eredità di Agostino Ravagli, morto nel 1817; il causidico Lucifero Caboni, a nome del conte Gaetano Pollini amministratore della chiesa, riferì che con atto notarile del 15.04.1782 la chiesa aveva venduto al quondam Agostino Ravagli di questa città 2 case e un sito attiguo, poste nel quartiere della Marina e piazza del Monserrato, per il prezzo di £ 2000 a frutto compensativo, e pensione al 5% fino all’estinzione del capitale, con ipoteca delle stesse case acquistate e dell’altro piano inferiore già di sua proprietà (2469); Il Ravagli finché visse non pagò nulla a conto del capitale, ma pagò puntualmente il frutto annuale di scudi 40, e quando morì rimase debitore di scudi 20 per il saldo della pensione maturata il 15.04.1816; i di lui eredi erano i padri Carmelitani che non pagarono mai niente, e le pensioni maturate ascendevano al 15.04.1818 a scudi 100. Su istanza di Teresa Serra nata Bovaglio (o Boaglio), le case vennero esecutate ed esposte in subasta per la somma di £ 800 che il Ravagli le doveva (con stromento del 24.02.1794); la chiesa dei Genovesi volle però la precedenza, essendo creditrice di una somma superiore, cioè £ 2000 di capitale e £ 250 di pensioni maturate.

Al fascicolo della causa è allegato l’atto notarile del 1782: Agostino Ravagli acquistò dalla chiesa di San Giorgio e Santa Caterina 2 case e un territorio attiguo, site in piazza del Monserrato, cioè la piazza dello spedale Reale, in vicinanza del Regio Baluardo; l’estimo del Regio misuratore Massey le valutò in £ 2031, soldi 10, denari 4, e il Ravagli ne offrì £ 2000, pagando il 5% a frutto compensativo annuo (£ 100, cioè scudi 40) sino al pagamento dell’intero capitale, con l’obbligo di renderle abitabili nel giro di un anno, con ipoteca di dette case e di una porzione di casa (2469) già di detto Ravagli; le quali case e sito appartenevano al legato di Ludovico Piria e di sua figlia Caterina (cioè un loro lascito alla chiesa dei Genovesi). Le case con il sito confinavano da una parte con altra casa Ravagli, dall’altra con casa del Conservatorio delle orfanelle, davanti con la piazza di Monserrato ossia del Regio Ospedale, di spalle con piazza del Regio Bastione; eran composte ciascuna da 3 camere terrene, 3 camere nel 1° piano e 3 nell’ultimo, con una cisterna e “2 ale ossia lolle” nel sito (dove c’era una costruzione diroccata) che serviva da cortile a una delle case; le case e il sito acquistate dovrebbero corrispondere ai numeri 2470, 2471, 2472, 2473; la casa di cui Ravagli possedeva già il piano terra era l’unità 2469, la casa delle Orfanelle era l’unità 2474.

Alla causa è anche allegato l’inventario, datato 06.05.1817, dei beni del defunto Agostino Ravagli, morto il 01.05.1817; il suo testamento era stato stilato dal notaio Francesco Antonio Vacca in data 20.04.1817; erede universale era la sua anima, curatore ed esecutore testamentario il priore Carmelitano e la comunità Carmelitana; nell’inventario, fra i tanti beni immobili, sono compresi i seguenti:

- una casa (2473), nella strada di S. Rosalia con 2 piani superiori e 1 piano terreno, confinante da un lato con casa del conservatorio delle Orfanelle (2474), altro lato a casa del medesimo Ravagli (2372), avanti col Regio Ospedale delle Truppe, alle spalle al Regio Bastione dei Morti, valutata £ 1861.16.8;

- una casa (2472) attigua alla precedente, 3 piani cioè 2 superiori e uno terreno, valutata £ 1369.8.4;

- una casupola (2471) attigua alla precedente, valutata £ 646.10;

- nell’inventario venne omessa un’altra casa o casupola (2470), analoga a quella appena descritta (come si vedrà dall’elenco degli affittuari).

L’ammontare dei beni immobili del defunto Ravagli era di £ 22874, soldi 8, denari 10.

Queste case erano per lo più affittate, e tutti gli affittuari vennero avvisati perché pagassero gli affitti al convento dei Carmelitani: nel piazzale dei soldati la prima casa (2473) aveva un piccolo sottano affittato a Efisio Paniella, un sottano e un mezzo piano all’invalido Lodovico Gerati, il piano superiore in parte alla vedova Francesca Sirigu nata Pani, e l’altra parte alla vedova Rita Martini nata Brigliano (figlia di Giovanna Murtas, affittuaria nel 1809); l’ultimo piano era abitato parte dal parrucchiere Efisio Pani, e parte alla vedova Caterina Satta.

La casa attigua (2472) aveva i piani superiori vacui; il piano terreno era affittato allo scarparo Battista Carboni.

Nelle 2 casupole attigue (numeri 2471 e 2470), in una abitava una povera che aveva la casa per elemosina, nell’altra vi abitava Angelica Lepori.

Agostino Ravagli al momento della morte abitava nella sua casa della strada del Vecio ossia del Monserrato (casa 2877); a parte i legati all’ospedale e a diversi parenti e conoscenti, l’erede era la sua anima, e il curatore dei suoi beni era il priore del convento Carmelitano, di fatto erede; il causidico Boi, procuratore di Teresa Bovaglio, sostenne giustamente che l’eredità era tanto gravata di legati che non poteva essere sufficiente per pagare i debiti, e invitava a procedere alla vendita degli stabili con subasta pubblica.

A causa delle evidenti difficoltà, il priore dei Carmelitani si sottrasse all’incombenza di amministrazione, e altrettanto fece il reverendo Bonaventura Puxeddu, ricettore e amministratore delle cause pie, che riassunsee così la situazione con una lettera all’arcivescovo del 21.03.1821: “……l’eredità consiste in 7 case rovinose e la maggior parte inabitabili (nella strada del Vechio, del Pagatore del Fortino e di Santa Rosalia), una casetta sotto la casa degli eredi del chirurgo dei cavalleggeri Pietro Franco (2469), 2 o 3 stanze di fronte al convento di S. Rosalia (forse le casupole 2470 e 2471), rovinose e distrutte, estimo totale £ 17969, spesa prevista di manutenzione £ 3320, il frutto dopo le spese sarebbe stato di £ 1025; vi erano debiti per £ 11136 (£ 2050 ai genovesi, £ 700 a S. Chiara, £ 7500 al barone di Villaperuccio, £ 886 soldi 10 denari 9 a Teresa Serra vedova Bovaglio); saebbe rimasto un capitale di £ 6832 soldi 9 denari 3 con frutto al 5% di £ 341 soldi 12 denari 6 inferiore alla somma di £ 452 e soldi 10 dei legati, per cui il Puxeddu consigliò all’arcivescovo una rinuncia alla amministrazione. L’arcivescovo Nicolò Navoni ratificò quindi la rinuncia.

Si cercò di coinvolgere i parenti più prossimi, cioè le sorelle ancora viventi Giuseppa e Bartolomea, che non possedevano però le risorse per farsi carico di tale responsabilità.

In data 03.03.1828 Stefano Dodero, come guardiano della Arciconfraternita di S.Giorgio e Caterina, prese possesso delle case in contrada S.Rosalia dell’eredità di Agostino Ravagli, poste fra la casa del medico Giovanni Franco e casa dell’orfanotrofio. A metà ‘800 tutte queste case appartenevano ancora all’Arciconfraternita di Santa Caterina dei Genovesi.

 

  

2474     

Apparteneva al Conservatorio delle Orfanelle: si ha quest’informazione dal corposo fascicolo della causa per l’eredità Ravagli, nel quale è riportato l’atto di acquisto dell’aprile 1782, da parte di Agostino Ravagli, delle case 2470, 2471, 2472 e 2473, confinanti verso mezzogiorno con la casa delle Orfanelle. La stessa informazione si ha nella perizia dei beni del defunto Ravagli, eseguita nel maggio 1817; la situzaione non è mutata a metà ‘800: nel Sommarione dei Fabbricati la casa 2474 appartiene ancora al Conservatorio delle figlie della Provvidenza.