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Isolato G1: Tola/S.Agostino/Pabillonis/Moras

(via Sicilia, via Baylle, via Sardegna, via Napoli)

numeri catastali da 2645 a 2673

la struttura dell’isolato non è cambiata; si può segnalare soltanto la presenza di alcuni nuovi edifici che hanno sostituito le vecchie case, in particolare nella parte più alta dell’isolato, sul lato di via Sicilia.

 

2645

Situata all’angolo fra la strada Moras e l’attuale via Sicilia (chiamata vicolo S.Agostino, oppure contrada Tola, dal nome del proprietario della casa 2673, avvocato Gaspare Tola) la casa 2645, di 2 piani alti ed il piano terreno, è citata in un atto del 1792 (relativo alla casa confinante 2646) come già appartenente al negoziante Gian Battista Chiape e successivamente al negoziante genovese Francesco Piccaluga, che la comprò all’asta in quanto “esecutata” al Chiape; il Piccaluga nel 1799 ne pagava una pensione di 25 scudi annui alle sorelle nobili Giovanna e Caterina Alesani, ed una pensione (nell’anno 1807?) di 28 scudi a Teresa Marchesoli, moglie del negoziante Ignazio Campus.

Nel giugno 1799 il Piccaluga ricevette 1000 scudi dalla vedova Maria Antonia Busu; questa glieli affidò per investirli e ne riceveva una pensione annua di 60 scudi per tutta la sua vita, da ridurre a 50 scudi dopo il suo decesso, fino alla restituzione del capitale; per garantire la vedova Busu, il Piccaluga ipotecò ulteriormente la casa 2645.

Accese un’ulteriore ipoteca nel 1806, per poter acquisire una bottega con le sue merci da Francesca Arthemalle, vedova del negoziante Antonio Carneglia; il Piccaluga avrebbe dovuto dare alla vedova Carneglia lire 11388 e soldi 18, e per garantire il pagamento ipotecò, oltre alla casa 2645, le stesse merci della bottega e altre sue proprietà situate nell’isola di San Pietro, a Boccadasse (Genova) e a Mahon (Minorca).

Con atto del notaio Gio Batta Azuni del 29.07.1808 il Piccaluga diede la casa in garanzia per permettere al figlio Filippo di concludere un affare con le monache di Santa Chiara: si trattava di acquisire due censi di proprietà delle monache, uno di lire 250 e l’altro di lire 75, con diverse pensioni arretrate, caricati sui beni in Escolca del negoziante Giuseppe Vacca di quel villaggio; le monache cedettero i censi e rinunciarono a tutti i loro diritti sui quei beni a favore di padre e figlio Piccaluga, questi pagarono subito l’importo delle pensioni arretrate, cioè lire 166 e 10 soldi.

Francesco Piccaluga risulta ancora proprietario della casa 2645 nel 1810 e nel 1811 come risulta da atto notarile del 13.02.1810, relativo alla casa Tola 2673, da atto del 08.01.1811 relativo alla casa 2927, e da atto notarile del 30.12.1811, col quale costituì la dote alla figlia Pasquala che doveva sposarsi con l’avvocato Emanuele Zedda Frau; con lo stesso atto le promise di lasciarle l’uso gratuito, per 6 anni, di una parte della propria casa di abitazione nella Marina, vale a dire due camere ammobiliate nel piano nobile, l’uso della cucina nell’ultimo piano, in comunione con la famiglia, ed una stanza nei mezzanelli sulla contrada Moras.

Dai dati del Catasto successivi al 1850 la casa 2645 risulta appartenere a donna Matilde Decesaroni (1821-), vedova di Giuseppe Pollini (1797-1847).

 

2646

Sulla mappa la casa 2646 è decisamente più vasta delle case confinanti, e derivava infatti dall’unione di due o più unità immobiliari; in un atto notarile del settembre 1791 la parte più a nord, confinante con la casa 2645, risulta appartenere alle sorelle Anna e Placida Puliga Vintimilla suore del monastero di Santa Lucia; le due sorelle, con atto del giugno 1792, ipotecarono la casa per avere 200 scudi, a censo, dalla Madre superiora Maria Caterina Guirisi, specificando di averla ereditata dalla madre donna Eulalia (anche Orosia o Eurosia) Vintimilla, che a sua volta l’aveva ereditata dai genitori don Antonio Vintimilla e donna Vittoria Massa, che l’avevano acquistata dal cavalier Antonio Nater con atto notarile del 27.06.1742.

In un atto del maggio 1797 viene specificato che la parte a sud, confinante con l’unità 2647, apparteneva agli stessi eredi Vintimiglia, e prima era di don Antonio Vintimiglia, il quale l’aveva comprata dai coniugi segretario Giuseppe Antonio Ciarella e Isabella Squintu.

Una nota stonata o per lo meno non del tutto spiegata, in questa ricostruzione, è l’atto notarile del giugno 1799 relativo alla casa 2645, citato nel precedente paragrafo, nel quale si legge che la casa 2646 (parte nord) era di don Giuseppe Humana: un don Giuseppe Humana, nato nel 1742, era figlio di don Francesco Maria Humana, e quest’ultimo era figlio di donna Gerolama Vintimiglia, parente delle suore Puliga Vintimiglia; si può ipotizzare che le due sorelle avessero donato o venduto la casa al parente don Giuseppe Humana, oppure può essere possibile che quest’ultimo si occupasse semplicemente della amministrazione dei beni delle due suore Puliga Vintimiglia.

L’ultima ipotesi sembra la più probabile: infatti, con atto del notaio Salvatore Porcu del 24.07.1804, le due sorelle suore Maria Anna e Placida Puliga Vintimiglia, assistite dalla loro Reverenda Madre Abbadessa Sor Marianna Bologna, vendettero la casa a frutto compensativo per lire sarde 5159, soldi 3, denari 4; il compratore era il notaio e segretario dell’Uditorio di Guerra, Giovanni Battista Azuni, nativo di Sedilo; è specificato nell’atto che l’immobile proveniva dai loro nonni materni don Antonio Vintimiglia e donna Vittoria Massa, genitori della loro madre la fu donna Maria Europia(sic) Vintimiglia che la ereditò come figlia unica: si apriva nella strada Moras, confinava di lato con le case Piccaluga (2645), Tola (2673), Pintor (2647), di spalle con le case di Luigi Orrù (recte Luigi Porcu) e degli eredi del “Prussiano” (soprannome del già defunto Agostino Baria), e difronte con la casa Rapallo (2926); era composta da un magazzino con una grotta e 3 stanze terrene interne e due piani alti; fu venduta per il prezzo dell’estimo fatto dal mastro muratore Giovanni Mameli e dal mastro falegname Giovanni Porcu, per scudi 2063 reali 6 soldi 3 e denari 4 ossia lire 5159 soldi 3 denari 4. Azuni ne fece acquisto a frutto compensativo, con l’obbligo di versare scudi 200 alla stipula dell’atto, il resto del capitale in 10 anni, oltre al frutto al 5% annuo; parte del capitale, lire 2500, era di proprietà del Monastero di Santa Catterina di Siena del Castello, per censi accesi nel 1780, 1784 e 1786.

Con atto del notaio Salvatore Boy del 05.03.1805, il notaio Azuni caricò un censo di lire 500 sulla casa; ottenne il denaro dal reverendo Gio Batta Madeddu, beneficiato della Primaziale, e da Simone Boo, che agivano in qualità di esecutori testamentari e curatori dell’eredità del fu reverendo dottore Raimondo Pes Mameli, canonico prebendato della Cattedrale di Iglesias.

Il 25.07.1807 la casa fu denunciata nel suo donativo dal notaio Gio Batta Azuni, che ne risulta ancora proprietario in atto notarile del gennaio 1811, relativo alla casa 2927, ed in una causa civile del 1822; dalla stessa causa risulta che, morto il notaio Azuni nel 1825, gli subentrò come unico erede il figlio avvocato Gerolamo, il quale risulta ancora proprietario della casa dai dati catastali del primo registro di metà ‘800; una correzione al registro (1854 circa), sostituisce Gerolamo Battista Azuni con Gio Battista Mazzino. Quest’ultimo era fratello di Rosa Mazzino, moglie dell’avvocato Azuni. Nella casa in via Mores morì l’avvocato e intendente in ritiro Gerolamo Azuni il 12.10.1870, all’età di 76 anni; vi morì Battista Mazzino, nativo di Lavagna, capitano marittimo, il 03.05.1877, all’età di 90 anni, celibe; vi morì Rosa Mazzino, nativa di Lavagna, vedova Azuni, il 28.10.1881, all’età di 86 anni. 

 

 

2647 e 2669

Nel 1792, nello stesso atto con cui le suore Puliga Vintimiglia ipotecarono la loro casa 2646, la casa 2647 risulta essere del negoziante e baccelliere in leggi Joseph Maria Pintor; quest’ultimo, con atto del maggio 1801, ottenne 700 scudi a censo onerativo e pensione annua di 35 scudi dalla vedova Agata Dozzo Napoli e, a garanzia del prestito, ipotecò la casa sulla strada Moras, la stessa ereditata dal padre mastro Francescodobador y mercante” (conciatore e negoziante) nella divisione col fratello Carlo, casa alta de tres sostres (cioè 3 piani) e due facciate e due porte maggiori per entrarci, una che guardava alla calle de San Agustin, l’altra alla calle de Moras; era infatti proprietario anche della casa 2669 sulla strada Sant’Agostino, dove morì il padre Francesco Pintor nell’aprile del 1790; Giuseppe Maria risulta proprietario di entrambe le case anche dai donativi del 1807, non dal suo che non è stato rintracciato, ma da quello del notaio Azuni proprietario della casa confinante. Altri riferimenti si hanno in atto notarile dell’aprile 1806, relativo alla casa Frongia 2331 e in atto del 13.02.1807 relativo alla casa 2670 del conciatore Luis Porcu.

Il 29.04.1808 Giuseppe Maria Pintor, baccelliere in entrambe le leggi (diritto civile e canonico), spostò un censo di 250 lire, che gravava su certe vigne in territorio di Quartu da lui comprate di recente, sulla casa di sua proprietà della Marina, fra le strade di Sant’Agostino e Moras; conferma tutti i confini: dalla parte della strada Moras con il notaio Azuni (2646) e con una casa del concorso Sedilo (2648), sul davanti con la casa Rapallo (2925); dalla parte della strada Sant’Agostino col notaio Tommaso Massa (2668) e col mastro Luigi Porcu (2670), sul davanti con la casa Melis (2331).

Con atto del notaio Giuseppe Raimondo Floris del 26.11.1808 il Pintor vendette la casa 2669 al Gremio di Sant’Elmo per lire 5605, soldi 1 e denari 9; il Gremio, rappresentato dai maggiorali Girolamo Capicciola, Andrea Barragu e Francesco Demichelis, era entrato in possesso di una somma di denaro e voleva investirla immediatamente; il giorno 24 settembre era stato eseguito l’estimo da parte del Regio Misuratore Piu; Pintor si contentò di avere subito un terzo del prezzo stimato, e avrebbe tenuto in affitto la casa con un canone pari a circa il 5% dell’estimo, cioè 110 scudi annui; si assunse l’obbligo delle necessarie riparazioni, e rinunciò agli interessi di due anni sui due terzi della somma ancora da saldare; dopo due anni il Gremio avrebbe pagato il 4% di interessi. Pintor si conservò il diritto di recedere dalla vendita entro 8 anni, dopo i quali sarebbe stata ritenuta definitiva, se così fosse convenuto al Gremio.

Non si sa se il Pintor decise di riprendersi la proprietà della casa: nei due testamenti del maggio 1811 e marzo 1815 scritti dal mastro Luigi Porcu, proprietario della casa 2670, si indica la casa 2669 come quella di Giuseppe Maria Pintor, ma non si può essere sicuri che egli ne fosse pieno proprietario o solo inquilino del Gremio di Sant’Elmo.

Dopo il 1850 la casa 2647 risulta del giudice Efisio Gastaldi (1817-1881), mentre la casa 2669 era una proprietà del collegio di San Giuseppe.

   

 

2648 e 2649

La casa 2648 In atti del 1798, del 1800 e del 1808 viene detta “dell’eredità Sedilo”, o del “Concorso Sedilo” cioè di Giovanni Maria Solinas Manca marchese di Sedilo, defunto nel quartiere Castello il 03.05.1780 senza discendenza; la casa 2649 ha una storia simile alla precedente: in un documento del 14.03.1782, inserito in una causa civile, si legge che era appartenuta al defunto reverendo Efis Contu, e poi al defunto don Juan Maria Solinas marchese di Sedilo y Canales.

Le case, probabilmente per motivi testamentari, erano amministrate dal Capitolo Cagliaritano; in una seduta del 19.12.1808, il Capitolo e la Comunità della Primaziale deliberarono di cedere due case lasciate dal fu Marchese di Sedilo Don Gio Maria Solinas, in esecuzione del suo testamento, alla Arciconfraternita del Santo Cristo, che aveva la sua sede nella chiesa di San Giacomo in Villanova; con atto del notaio Gio Batta Azuni, del 08.02.1809, il monsignor don Pietro Maria Sisternes de Oblites, decano del Capitolo e Vicario dela sede vacante della Diocesi, firmò la cessione di due case alla Arciconfraternita del Santo Cristo, e per essa al Conservarore Don Giulio Rotondo, Alfiere degli Alabardieri, e al Guardiano secondo Antonio Effisio Camedda; erano due case attigue nella strada Moras, composte da due piani, identificate grazie alle case confinanti con le unità catastali 2648 e 2649.

Da un atto notarile dell’aprile 1811 la casa 2649 risulta infatti appartenere all’Oratorio del Santo Cristo, presso la chiesa di San Giacomo e in altro atto del novembre dello stesso anno risulta appartenere all’Oratorio delle anime del Purgatorio, situato anche questo nella piazza di di San Giacomo, fra la chiesa di San Giacomo e l’oratorio del Santo Cristo;

Dai dati catastali successivi al 1850 entrambe le case erano proprietà dell’Arciconfraternita del Santo Cristo; senza voler entrare nel merito dell’organizzazione delle arciconfraternite religiose e degli oratori in cui quelle avevano sede, la proprietà di metà ‘800 sembra in continuità con quella del 1809.

 

2650 e 2651

Come le due precedenti queste due case facevano parte dell’eredità Sedilo: lo si legge in atto notarile del dicembre 1789; risultano poi proprietà del Capitolo Cagliaritano, che le dichiara nel donativo del 1807.

Con atto del notaio e pro-dottore Efisio Melis Armerin, datato 19.11.1804, fu fatta la stima delle due case, con la perizia dei mastri muratori Pasquale Cao e Agostino Schinardi e dei mastri falegnami Giovanni Porcu e Salvatore Zucca; essi furono incaricati dal Capitolo di stimare la terza e la quarta casa Sedilo, fra quelle della strada Moras, a destra scendendo verso il molo, ed essi stabilirono il valore di lire 1924, soldi 17 e denari 4 per la terza casa, di lire 2022 soldi 16 e denari 12 per la quarta, in tutto poco più di lire 3947.

In data 26.11.1811 la casa 2650 è data in enfiteusi col canone di scudi 50 annui dal Capitolo al mastro ferraro Francesco Sanna, con la garanzia di suo suocero mastro conciatore Francesco Manca; era composta dal piano terreno e due piani alti, ognuno formato da due stanze; nello stesso atto viene riferito che la casa confinante verso mezzogiorno, cioè l’unità 2651, di cui era proprietario lo stesso Capitolo Cagliaritano, era in quell’anno abitata dal “panataro” Giovanni Spissu.

Dopo il 1850 entrambe le case risultano ancora appartenere al Capitolo Cagliaritano.

 

2652     

La si identifica con la casa del chirurgo Salvatore Lai, la cui vedova Agostina Zibetto e i suoi figli la vendettero nel dicembre 1786 al negoziante Giuseppe Delorenzo, il quale la rivendette nel dicembre 1789 al reverendo Narciso Vargiu. Era una casa con un patio, con piccolo corrale alle spalle, cisterna e pozzo; in data 18.11.1800 il reverendo Narciso Vargiu, beneficiato di Santa  Eulalia, ipotecò la casa per garantire la restituzione di un prestito di £ 250 ottenuto dall’avvocato Antonio Scarpinati.

Con atto del notaio nicolò Martini del 14.11.1804 il reverendo Vargiu ebbe in prestito lire 1250 (con interessi annui al 5% di lire 62,5) da Donna Isabella Lostia vedova Durante; gli occorrevano per liberarsi di due censi: il primo di lire 381 soldi 18 e denari 7, proprietà della comunità d Santa Eulalia (resto della somma di lire 1459 soldi 3 e denari 2 che il fu chirurgo Salvatore Lai aveva caricato sulla casa il 06.02.1777, e parziale pagamento del Vargiu del 12.04.1790); il secondo censo era quello di lire 250 di proprietà dell’avvocato Scarpinati, acceso nel novembre 1800; voleva inoltre liberarsi di altri debiti minori; ipotecò quindi la sua casa nella strada di Moras comprata dal negoziante Giuseppe De Lorenzo nel dicembre del 1789; confinava da una parte con casa dell’azienda ex gesuitica (2653), dall’altra parte con casa degli eredi del marchese di Sedilo, don Gio Maria Solinas (2651), davanti con casa delle sorelle Rodriguez, eredi del fu don Antonio Lai (2637), ed alle spalle con cortile della casa degli eredi del fu Gian Filippo Pinna, poi deliberata in pubblica asta, attraverso un notaio prestanome, al Cavaliere Onorato Cortese (2667).

Lo stesso giorno il reverendo Vargiu si liberò del debito con la comunità di Sant’Eulalia e due giorni dopo si liberò del debito con l’avvocato Scarpinati.

Vargiu risulta ancora proprietario della casa nel 1807, citato nel donativo del Capitolo Cagliaritano come confinante delle case Sedilo (2650 e 2651). Dopo il 1850 la casa apparteneva all’Arciconfraternita del Sepolcro. 

 

2653

Fra il 1789 e il 1813 risulta appartenere alla Comunità di S.Eulalia, che la possiede ancora dopo il 1850; ne danno notizia gli atti notarili del dicembre 1789 e novembre 1790 relativi alla casa 2652, gli atti del giugno 1801 e aprile 1802 relativi alla casa 2659, confinante sul retro con l’unità 2653, un atto del luglio 1802 e una causa civile del 1813 relativi alla casa 2654; è probabilmente da identificare con una delle 3 case che la Comunità possedeva nella strada Moras e che vengono incluse nella denuncia per il donativo del 1799, e corrisponde alla casa a cui fa riferimento Vincenzo Arrighi, proprietario della casa confinante 2654, nella denuncia per il donativo del 17.08.1807.

In atto del novembre 1804, relativo alla confinante casa 2652, la casa 2653 viene invece indicata come casa della Azienda ex-Gesuitica; è probabile che, dopo lo scioglimento della Azienda Gesuitica del 1786, sia diventata un proprietà della Comunità di Santa Eulalia che ne risulta proprietaria anche dal Sommarione dei Fabbricati, successivo al 1850.

 

2654     

casa composta d’un camberone ossia magazzino a pian di terra, una piccola cambera con un pozo ed un cortile continete (sic) una cucineta, e di due piani, nel primo vi è la sala coll’arcova, e nel secondo due sale cambere”; così si legge in un atto notarile del 02.07.1802, quando Rosa Sanguinetti (-1823), vedova del negoziante Gio Batta Ravenna, vendette la casa al figlio Francesco Ravenna (1770-1843) per 440 scudi, per poter dare la dote all’altra figlia Chiara che si era appena sposata col notaio Efisio Floris. La vedova l’aveva comprata nel 1784 (per assicurare ai figli l’eredità paterna, di cui era amministratrice) da don Matteo Marramaldo, maggiore giubilato nelle Truppe di Sua Maestà.

In realtà già nel 1799 fu dichiarata dal negoziante Francesco Ravenna nel suo donativo, come sua proprietà e sua abitazione: evidentemente la considerava già come sua ancora prima di acquistarla dalla madre in via definitiva.

In un atto notarile del 17.12.1803, relativo alla casa 2658, è scritto che alle spalle della casa 2658 vi era il cortile di una casa, già del mercante Francesco Marramaldo, poi di proprietà del negoziante Francesco Ravenna. Francesco Marramaldo (morto intorno al 1750) era il padre di don Matteo.

Con atto del notaio Carlo Franchino Amugà il negoziante Francesco Ravenna vendette la casa al suocero Vincenzo Righi, “nativo della Repubblica di Lucca”; la casa era  composta dal piano terreno, il cortile con il pozzo, e due piani alti ciscuno con due stanze; il Ravenna ritenne opportuno “vendere la casa potendo ricavarne dal suo prezzo maggiore utile che dall’affitto, non potendo abitarla per essere incomoda alla sua famiglia”; il Righi pagò in contanti 500 scudi.

La casa fu dichiarata nel donativo del 1807 dal negoziante lucchese Vincenzo Arrighi (o Righi) detto “su Russu”.

Vincenzo Arrighi morì il 29.10.1813, e lasciò alla figlia Teresa, moglie di Francesco Ravenna, solo la parte legittima; il resto lo lasciò alla sua anima, con l’incarico alla comunità di Sant’Eulalia di amministrare la proprietà; lasciò però i suoi mobili, gli attrezzi di bottega e l’usufrutto della casa alla vedova Maria Angela Chiappe, che lo aveva servito per 4 anni. Al momento della morte dell’Arrighi, nella casa vivevano la vedova Chiappe, che occupava il piano terreno ed il primo piano, mentre l’ultimo piano era abitato dal prodottore e chirurgo Efisio Luigi Garau.

S’accese una lite giudiziaria fra la comunità, i coniugi Ravenna Arrighi e la stessa Chiappe; Francesco Ravenna accusava la comunità di aver estorto il testamento al suocero, in quanto dal maggio 1809 era diventato “imbecille e muto dopo l’ultimo sofferto accidente apoplettico”, “e non era in grado di farsi capire se non imperfettamente per mezzo di cenni e gesti. E’ cosa impossibile che abbia potuto comunicare le disposizione testamentarie, non avendo mai saputo né leggere né scrivere”. Riferiscono alcuni testimoni che le uniche parole comprensibili dell’Arrighi erano le seguenti:”Si, no, Maria Santissima, porco mondo, Gesù ladro, birbante”.

Intanto Maria Angela Chiappe, che non abitava più nella casa e voleva affittarla, accusò Francesco Ravenna di “non cessare di turbarla asserendo di essere pieno proprietario della casa, e non avendo la Chiappe restituito le chiavi, ha provveduto a sturare le porte per rendersene padrone”. 

In qualsiasi modo sia finita la vicenda, la casa diventò una proprietà di Teresa Arrighi, come risulta ancora dai dati catastali di metà secolo XIX.

 

2655 e 2656       

Situate all’angolo fra la strada Moras e la strada Pabillonis, queste due unità catastali formavano un’unica proprietà; da una causa civile del 1741 (relativa alla casa 2298) risulta che la casa 2656 appartenesse anticamente al genovese Jayme Guido vissuto nel XVII secolo, poi divenne la casa di Juan Maria Mantelli e nel 1741 apparteneva alla sua erede, la vedova Teresa Mantelly; da questi ultimi due proprietari venne l’usanza di chiamare questo tratto della strada Pabillonis “strada di Mantelly”; non si conosce a fondo la genealogia delle famiglie Guido (o Guiddo, Guidde) e Mantelli, ma si sa che Juan Maria Mantelly era coniugato con una Maria Guidde, e la loro figlia Angela Teresa si era sposata nel 1725 con Francesco Diego Martin (1698-) e nel 1743 con Nicolò Pichetty; Teresa Mantelli morì nel 1776, vedova di Nicolò Pichetti.

A fine ‘700 era la casa degli eredi di Juan Jaime Godò defunto nel 1789 (o Godot, o Goddò, o Coda!)[1]; la sua vedova Maria Antonia Maglioni pagava una pensione annua di 80 lire al recettore dei Legati Pii, come riferiscono le denunce per il donativo straordinario dei Legati Pii del 1799 e del 1807; la proprietà degli eredi Godò, dei quali non è stato rintracciato il donativo, è inoltre citata in atto notarile datato 05.12.1800 relativo alla casa 2298, in atto notarile del 12.07.1802 relativo alla casa Ravenna/Arrighi numero 2654, e nel donativo del 1807 di Vincenzo Arrighi (Arighi), dove viene chiamata “casa degli eredi di Giacomo Coda”.

In atto notarile del 13.10.1803 venne riportato l’estimo della casa, eseguito dai periti mastri Juan Crobu muratore e Salvador Murru carpentiere; l’incarico fu dato loro da Maria Antonia Malliony e dai fratelli Paolo Mauricio e Agustin Arthemalle; i periti si recarono nella casa del fu Juan Jayme Goddò, posseduta dalla sua vedova Maria Antonia  Malliony, abitata come inquilino dal negoziante Francesco Raven(na), nella calle de Moras, laterale alla sacrestia della chiesa di Santa Lucia; la casa era formata da due piani alti e un magazzino con due stanze, nel primo piano c’erano 3 stanze con le alcove, lo stesso al secondo, e c’era la cisterna e i balconi di ferro; fu stimata in tutto scudi 2693 e 7 reali, cioè 6734 lire e 5 soldi.

Con atto del notaio Alessandro Alciator del 25.08.1804 venne firmata la cessione delle due case dalla vedova Maglioni ai fratelli Maurizio e Agostino Arthemalle; la cessione fu stimata in lire 9056, soldi 3 e denari 4, e comprendeva, oltre alle due case alla Marina, una casa in Villanova, strada di Pichoni.

In data 27.09.1804 Paolo Maurizio cedette la proprietà interamente al fratello Agostino; nel 1807 le due case furono valutate lire 6734 e soldi 5, da cui si doveva dedurre il capitale censuario di lire 1500 di proprietà della causa pia; Agostino Arthemalle si era inoltre addossato l’obbligo di pagare gli alimenti alla vedova Maria Antonia Goddò Mallioni per tutta la sua vita, con ipoteca sulla casa [2]; nel 1807 spostò l’ipoteca sugli altri suoi beni, liberando la casa interamente. Il valore residuo era quindi di lire 5234 e soldi 5, e rimaneva da saldare la somma di lire 9803.18.10, che Arthemalle si impegnò a pagare col credito che vantava verso il negoziante Giuseppe Franchino.

Nel 1807 la casa fu dichiarata nel suo donativo da Agostino Arthemalle: all’angolo della strada Moras, aveva davanti la sagrestia di Santa Lucia, ed era in vicinanza della casa 2654 di Vincenzo Rossi (cioè Vincenzo Arrighi detto “su Russu”), aveva un piano terreno comprendente una piccola bottega, una stanza e un magazzino, e due piani alti ognuno di 4 stanze; il suo valore era di 2600 scudi ed era affittata per scudi 108 annui; in altri documenti si parla di due piani terreni: è possibile quindi che le due unità 2655 e 2656 fossero ancora separate, in due corpi distinti, la casa principale2656 di due piani alti e il terreno, mentre l’unità 2655 era un corpo aggiunto, col solo piano terreno.

In data 12.12.1807 Agostino Arthemalle cedette la proprietà agli eredi Ponsiglioni, figli del defunto negoziante Pasquale; era infatti debitore degli eredi per lire 15038, soldi 3, denari 10, a seguito di un prestito concessogli con interessi al 6% in data 01.03.1803 dal reverendo Filippo Ponsiglioni, zio degli eredi e amministratore dell’eredità; si era impegnato a restituire il prestito in 3 rate da versare ogni primo marzo, ma aveva potuto restituire soltanto lire 633, soldi 7 e denari 2; gli eredi suoi creditori erano i “pupilli” Michele ed Efisia Ponsiglioni, e la loro sorella Giovanna, moglie del negoziante Efisio Steria Porcile; essi avevano ereditato anche la quota di credito del loro fratello Giuseppe, defunto di recente.

Con atto del notaio Andrea Dessì del 01.07.1810, il reverendo Bonaventura Puxeddu, in qualità di recettore delle Cause Pie della Cattedrale, firmò la ricevuta di lire 1705, 12 soldi e 4 denari a lui consegnati dal reverendo Filippo Ponsiglion, curatore e tutore dei minori Ponsiglion; sulle due case della strada di Moras, possedute dai fratelli Ponsiglion insieme all’altra sorella Giovanna, era infatti ancora caricato un censo di proprietà della Causa Pia; era stato creato da tale Felipe Bottino quando le comprò dalla Causa Pia Carmona (con riferimento ad un più antico proprietario) con atto notarile del 02.10.1765; in quel tempo una delle case aveva solo un piano alto, e l’altra era formata da due stanze terrene; diventarono poi una proprietà dei coniugi Goddò-Magliona: il passaggio di proprietà è spiegato dai vincoli matrimoniali: infatti Jaime Goddò (1729-1789) si sposò in prime nozze con una Paolina Bottino, sicuramente parente, forse figlia, di Felipe Bottino; dopo la morte della prima moglie il Goddò nel 1779 sposò in seconde nozze Antonia Magliona.

Il censo fu quindi estinto definitivamente, e furono pagate anche le pensioni arretrate di undici mesi.

Con atto del notaio Francesco Sirigu del 25.08.1810 il reverendo Ponsiglion, per conto dei suoi nipoti eredi del defunto Pasquale, concesse in locazione una casa nella contrada Moras a Salvatore Cambilargiu, Brigadiere delle Guardie del corpo di Sua Maestà; la locazione fu stipulata per 6 anni, comprendeva tutta la casa composta da due piani alti e due piani terreni, con l’esclusione di un piano terreno (un locale a piano terreno!) utilizzato dai proprietari per riporvi “materiali delle fabbriche delle case”; Cambilargiu avrebbe pagato 100 scudi annui, a mezze annate anticipate; non c’è certezza che ci si riferisca alla presente casa, ma è l’ipotesi più probabile per la sommaria descrizione della parte affittata, coincidente con la struttura della proprietà, su due distinte unità catastali.

Nella causa civile del 1813 relativa alla eredità Arrighi (casa 2654) la proprietà risulta ancora degli eredi di Pasquale Ponsiglione; in una causa civile del 1816 si fa riferimento a una proprietà Ponsiglione sita nella strada Moras, acquisita dagli eredi, con un magazzino affittato al negoziante Efisio Manca per 10 scudi annui, mentre nella casa abitavano certe sorelle Pes.

Dai dati catastali successivi al 1850 la casa 2656 risulta appartenere a Efisia Ponsiglione (1797-1859), figlia di Pasquale e di Anna Medail, coniugata col giudice Giovanni Nepomuceno Rattu; l’unità 2655 risulta appartenere alla loro figlia Antonia Rattu, moglie dell’avvocato Giovanni Faret. 



[1] Non si può escludere una parentela con la famiglia Mantelli, dato che il cognome Godò potrebbe corrispondere a quello dei precedenti proprietari Guido o Guiddo o Guidon, famiglie entrambe di probabile origine francese

[2] Giò Giacomo Goddò, marito di Maria Antonia Maglioni, era zio dei negozianti Arthemalle, cioè fratello “uterino” della loro madre Teresa Brunet; la madre di Gio Giacomo Goddò e di Teresa Brunet era Rosa Jagaluni che aveva sposato prima Giuseppe Brunet, poi Andrea Goddò.

Maria Antonia Maglioni visse gli ultimi suoi anni in casa del nipote (nipote del defunto marito) Agostino Arthemalle, nella strada Barcellona, numero catastale 2956.

 

2657

Dalla causa civile del 1741 sopra citata, sembra che la casa 2657 potesse essere quella del mastro botero (bottaio) Ignacio Porcella; non vi sono altri dati relativi a questa casa fino al 1801: da un atto notarile del primo marzo 1801, relativo alla vendita della casa Tola (2297) risulta che la casa frontale 2657, sulla strada Pabillonis, fosse fra quelle possedute dal conciatore Antonio Fais, lasciate in eredità nel 1780 all’Arciconfraternita di Santa Lucia (e poi attribuite alla Comunià di Sant’Eulalia per intervento arcivescovile del dicembre 1799, a causa della gestione poco attenta dei suoi beni da parte dell’Arciconfraternita); in realtà le informazioni scritte in quest’ultimo atto sono assai confuse, forse frutto di una non attenta trascrizione; sono confermate in un successivo atto notarile del 05.05.1803, quando Giovanni Bernardi, nuovo proprietario della casa Tola (2297), ipotecò l’immobile; nonostante tutto è possibile che l’indicazione non sia esatta: vi erano infatti altre due case provenienti dalla eredità Fais, cioè quelle con numero 2658 e 2659, che furono assegnate alle due nipoti Satta del defunto Antonio Fais; la casa 2657 potrebbe invece essere quella che, posseduta dalla vedova Teresa Mantelli, divenne comunque proprietà della Comunità di Sant’Eulalia; da notare che Teresa Mantelli, figlia di Juan Maria Mantelli e di Maria Guidde, vedova di Nicolò Pichetti, defunta nel 1776, fu anche proprietaria, per eredità dai genitori, della casa confinante 2656.

In atto notarile di ottobre del 1803 relativo alla casa 2656, e nella denuncia per il donativo di Agostino Arthemalle, del 1807, la sua casa 2656 si trovava “in vicinanza a una casa di Santa Eulalia”, che corrisponde alla casa 2657; è da identificare quindi con una delle case che la Comunità di Sant’Eulalia, nella denuncia per il donativo di quell’anno, dichiarò di possedere nella strada Pabillonis.

Con atto del notaio Nicolò Martini del 03.08.1804 la Comunità di Sant’Eulalia stipulò un accordo con il mastro muratore Francesco Usai per riedificare la casa “dai fondamenti”; era detta “casa di Teresa Mantelli”, e minacciava di crollare; ci si accordò per lire 1611 da pagare in 3 rate: la prima alla stipulazione dell’atto, la seconda dopo aver terminato la facciata, il tetto e le travi dei piani; la terza dopo aver terminato l’intero lavoro; sarebbero stati costruiti due piani alti, ognuno con due finestre e i balconi in ferro; fu incaricato della direzione della fabbrica il reverendo Pasquale Matta, uno dei beneficiati della Comunità.

Apparteneva ancora alla Comunità di Santa Eulalia dopo il 1850.

 

2658

In un atto del giugno 1801, in altro di aprile 1802, e in un terzo del luglio 1803, tutti relativi a un censo acceso sulla casa 2659, è scritto che la casa confinante (2658) apparteneva a Gioachino Murenu, da identificare col notaio Gioachino Mariano Moreno, in attività almeno fra il 1792 e il 1813.

E’ più ricco di informazioni un atto del 27.08.1803, relativo alla casa 2297, nel quale è scritto che sull’altro lato della strada di Pabillonis vi era una casa che era appartenuta al mastro conciatore Antonio Fais ed era stata ereditata da sua nipote Rafaela Satta moglie del notaio Gioachino Moreno; l’atto in questione fu redatto proprio da questo stesso notaio.

Con atto notarile del 17.12.1803, Raffaela Satta Melis, col consenso del marito notaio Gioachino Moreno, ottenne un prestito di 200 scudi dalle signore “obreras” della SS.ma Vergine Assunta di Stampace, alle quali avrebbe pagato la pensione di scudi 10 annui; nel documento è spiegato che la sua casa di abitazione nella strada Pabillonis era di piccole dimensioni, la famiglia era cresciuta e non poteva abitarvi comodamente; coi soldi ricevuti i coniugi Moreno-Satta avrebbero costruito il secondo piano la cui costruizione era già a buon punto. Era la stessa casa che le era stata lasciata dallo zio mastro conciatore Antonio Fais col suo ultimo testamento del 25.01.1780, aperto dopo la morte il 02.08.1780. Il Fais l’aveva comprata dalla Causa Pia della villa di Sinnai per 400 lire, il 06.03.1748, con atto del notaio Antonio Zara.

Risulta ancora degli stessi proprietari nel 24.12.1808, da atto notarile relativo alla confinante casa 2659.

Dopo il 1850 la casa 2658 risulta appartenere a Paolo Marcialis.

 

2659     

Era appartenuta al mastro conciatore Antonio Fais, morto nel 1780, e da lui lasciata in eredità alla nipote Anna Francesca Satta coniugata Carta; risulta di quest’ultima nell’agosto del 1799, da atto di vendita della casa 2660.

Nel luglio 1800 la vedova Francesca Satta vi accese un’ipoteca per ottenere un prestito di 700 scudi dalla vedova Marianna Massabò Turbino; era la sua casa di abitazione, composta da un sottano e due piani alti con i balconi in ferro, e doveva avere anche un cortile che si estendeva fino alla casa 2653, proprietà della Comunità di Sant’Eulalia.

Il 07.06.1801, il 14.04.1802, e il 14.07.1803, la vedova Massabò consegnò alla vedova Satta altri 100 scudi ogni volta, sempre dietro ipoteca della stessa casa 2659, per arrivare al totale di 1000 scudi per i quali la vedova Satta aveva avuto il permesso di indebitarsi dal Veghiere Reale; il prestito fu effettuato in 4 momenti diversi, in base alla disponibilità di contanti della vedova Massabò Turbino.

Con atto del notaio Carlo Franchino Amugà del 18.06.1806, su incarico della vedova Carta nata Satta, il Capo Mastro Sebastiano Puddu effettuò la valutazione della casa: sita nella strada Pabillonis alias Tarragona, era composta da 3 piani (cioè piano terreno e due piani alti) e fu stimata in scudi 1119:6:4:8 (scudi 1119, reali 6, soldi 4, denari 8) cioè lire 2799:4:8 (lire 2799, soldi 4, denari 8).

Alla valutazione seguì la vendita: con atto del 23.06.1806 la vedova Francesca Satta cedette la casa per 1300 scudi alla creditrice, vedova Marianna Turbino nata Massabò; nell’atto è specificato che Francesca Satta l’aveva avuta in eredità da suo zio conciatore Antonio Fais, come da testamento del 25.01.1780, e il Fais l’aveva comprata per 800 lire dal conciatore Pietro Tatti con atto notarile del 22.06.1741; sulla casa gravavano dei pesi tali per cui il Tatti non ebbe neanche una lira; furono estinti dal Fais in parte nel 1741, e in parte 10 anni più tardi; la parte creditrice era la “Casa di Probacion ex-gesuitica”, a cui probabilmente apparteneva in precedenza.

Per poter saldare il prezzo della casa e per poterla riparare, la vedova Massabò ricevette dal signor Ignazio Campus 300 scudi, sui quali avrebbe pagato gli interessi al 5% a partire dal 23 giugno 1806; con atto del notaio Carlo Franchino Amugà del 21.10.1808 restituì il capitale, insieme a 4 scudi e pochi spiccioli per gli interessi non ancora pagati dal 23 giugno 1808.

Con atto del notaio Giacomo Sini del 24.12.1808, la vedova Massabò, “di nazione genovese”, vendette la casa per lire 3250 a Ignazio Campus. Per la sua “condizione femminile” ricevette il permesso di vendere dal veghiere Reale con decreto del 17 dicembre; viene spiegato che le era conveniente cedere l’immobile in quanto non era mai stato possibile affittarlo interamente a causa della brutta disposizione delle stanze, alcune della quali erano totalmente prive di luce; ultimamente solo una parte era affittata al sarto Giovanni Simondetti; la vendita era stata preceduta dalla valutazione, per quell’importo, fatta dal mastro Marco Antonio Mereu; la valutazione più alta di circa 450 lire, rispetto a quella fatta nel 1806, era sicuramente dovuta a lavori eseguiti dalla vedova Massabò, che si era infatti indebitata con lo stesso Campus per poterli pagare. La venditrice affidò alla Comunità di Sant’Eulalia la somma ricevuta, caricandola “a censo” sui beni della Comunità, e dal censo avrebbe ricavato una rendita.

Dopo il 1850 la casa risulta appartenere al marchese Giovanni Amat (1823-1879).

 

 

2660 

Come la precedente, questa casa apparteneva al mastro conciatore Antonio Fais, morto nel 1780, e fu lasciata in eredità, insieme ad altre, all’Arciconfraternita di Santa Lucia; in atto notarile del luglio 1792 relativo alla casa 2294 (sull’altro lato della strada Pabillonis) è citata come “casa degli eredi del mastro Antonio Fais”; nella denuncia per il donativo dell’Arciconfraternita, datata 24.06.1799, è descritta come “casa ad uso di magazzino”, con piano terra e primo piano, affittata per scudi 60 annui; venne venduta dall’Arciconfraternita a don Onorato Cortese con atto notarile del 19.08.1799, per 1651 scudi, 7 reali e 6 denari secondo l’estimo del misuratore Gerolamo Massey del 27.10.1798; di quella somma, 1290 scudi, 3 soldi e 4 denari erano di competenza della vedova del Fais, Maria Grazia Funedda, che ne godeva i frutti, ma che nel 1799 era già defunta. Onorato Cortese la possedeva ancora nel 1813, come risulta da una causa civile di quell’anno relativa alla casa Arrighi 2654; dai registri catastali successivi al 1850 risulta appartenere al signor Angelo Lecca del fu Gemiliano, che vi aveva dei magazzini per il suo commercio. Angelo Lecca nativo di Sadali, negoziante, figlio di Gemiliano e Maria Deidda, morì a 73 anni il 15.01.1868 in una casa di via Invalidi 7, che potrebbe corrispondere alla casa 2660.

 

2661

Da un atto del 1791, relativo alla casa 2292, la casa 2661, posta esattamente di fronte, risulta essere quella degli eredi dei coniugi Pedro Francisco Aliot (o Eliot) e Maria Anna Mulas; il dato è confermato in un atto del luglio 1792, dove la casa viene detta “della defunta Clara Aliot e di sua sorella Margarita Aliot, figlie dei precedenti.

Dai dati del donativo straordinario del 1799 e da un atto notarile dell’agosto dello stesso anno risulta appartenere al mastro bottaio Salvatore Congiu, vedovo di Clara Aliot (defunta nel 1780); nella denuncia del Congiu si legge che era una casa di 2 piani, con 3 stanze e un magazzino, affittata per scudi 54 annui; il Congiu era nativo di Seui, nato nel 1727 e defunto nel 1807, aveva sposato Clara Aliot nel 1762; dopo la morte della moglie si risposò altre due volte e rimase vedovo della terza moglie nel 1797; dal primo matrimonio nacquero diversi figli, alcuni dei quali sopravvissero ai genitori.

In atto notarile del 1804, relativo alla casa 2662, Salvatore Congiu viene ancora citato in quanto proprietario della casa 2661; al contrario, nella denuncia del 1807 per il donativo dell’Arciconfraternita del Sepolcro, proprietaria della casa 2665, sembra di capire che in quell’anno la casa 2661 appartenesse alla Comunità di Sant’Eulalia; il dato non ha conferme; in atto notarile del 13.04.1811, relativo alla casa 2294, vengono ancora citate la defunta Clara Aliot e sua sorella Margherita come proprietarie della casa.

Dopo il 1850 la casa 2661 apparteneva all’Arciconfraternita di Santa Caterina Martire, cioè dei Genovesi.

 

2662

Dallo stesso atto del 1791 citato per la casa precedente, risulta che la casa 2662 appartenesse al defunto negoziante d’origine sassarese Juan Felipe Pinna, morto nel 1788, e poi alla figlia Marianna coniugata con Paolo Maurizio Arthemalle; questa informazione è confermata nel donativo del 1799 del bottaio Salvatore Congiu, proprietario della casa precedente, che cita l’Arthemalle come suo vicino; ed è quindi da identificarsi con la casa che Marianna Arthemalle nata Pinna dichiarò di possedere nella denuncia del 23.06.1799 per il donativo straordinario, situata nella strada di San Leonardo (altro nome a volte utilizzato per la strada Pabillonis), composta da un piccolo magazzino al piano terreno e 4 stanze sopra, e da cui si ricavavano 33 scudi annui di affitto.

Con atto del notaio Nicolò Martini del 05.10.1804, Marianna Pinna, previo consenso di suo marito Paolo Maurizio Arthemalle, vendette la casa al conte e cavaliere dei santi Maurizio e Lazzaro don Gaetano Pollini; venne specificato nell’atto che la proprietà di Marianna Pinna proveniva dall’eredità di sua madre Francesca Sanna, secondo la divisione ereditaria del 17.04.1767, ed era stata valutata lire 2045 e 15 soldi; fu venduta al conte Pollini per lire 2000, era composta da due piani alti e piano terreno; la vendita fu una conseguenza delle difficili condizioni economiche in cui era caduto Paolo Maurizio Arthemalle.

A conferma di quanto appena detto, In atto notarile del 1807, relativo alla casa Spetto 2292, sull’altro lato della strada, risulta che la proprietà di Maurizio Arthemalle (in realtà della moglie) fosse stata acquistata dal conte Gaetano Polini; una conferma indiretta viene anche dalla denuncia per il donativo del 1807 della stessa Marianna Pinna, che non dichiarò la casa; purtroppo il donativo del conte Polini è andato perduto.

Dopo il 1850 apparteneva all’Arciconfraternita di S.Caterina Martire, cioè dei Genovesi.

 

2663

Non vi sono notizie certe su questa unità immobiliare; potrebbe identificarsi con la casa Atzeni, che la Comunità di Sant’Eulalia, nella denuncia per il donativo del 1799, dichiarò di possedere nella strada di Sant’Agostino; composta da 2 piani di 4 stanze e una bottega, apparteneva in precedenza al mastro conciatore Antonio Atzeni, il quale la lasciò alla figlia Antonia col suo testamento del 30.11.1751; quest’ultima, morta nubile, la lasciò alla Comunità di Sant’Eulalia col testamento del 21.09.1767[1].

In atto del 1804 relativo alla confinante casa 2662, l’unità catastale 2663 è indicata come una proprietà della Comunità di Sant’Eulalia.

Dai dati catastali di metà ‘800 risulta appartenere ancora alla stessa Comunità.  



[1] si veda quanto riportato per la casa 2668 per ulteriori notizie sulla famiglia Atzeni 

 

2664      

Questa casa, da un atto notarile del marzo 1797, risulta appartenere al Capitolo Cagliaritano; il dato è confermato da un atto del 1804, relativo alla casa 2662, e dalla denuncia del 1807 per il donativo dell’Arciconfraternita del Sepolcro, proprietaria della casa confinante 2665, situata fra la casa Toufani (2666) e casa del Capitolo (2664); inoltre apparteneva ancora al Capitolo dopo il 1850. Vi sono alcuni dubbi su questa attribuzione in quanto, nella denuncia del 1807 per il donativo del Capitolo, l’unica casa situata nella strada Sant’Agostino è la casa Cardia, identificata con l’unità 2316; una ipotesi, che possa spiegare questa lacuna del donativo del Capitolo, è che nel frattempo fosse stata concessa in enfiteusi.

 

2665     

Nel 1799 e nel 1807 apparteneva all’Arciconfraternita del Santo Sepolcro e della Morte, che ne dichiarò la proprietà nelle denunce per il donativo di quegli anni; è una casa di un piano con 2 stanze e un piccolo “sòttano”, affittata a £ 52 e soldi 10; l’Arciconfraternita la possedeva ancora dopo il 1850.

 

2666     

Era una casa della famiglia dei conti Toufani, e appartenne al conte Pietro, morto nel 1789; da atti notarili del 1792, relativi alla casa 2337 posta sull’altro lato della via, risulta appartenere a sua sorella contessa Barbara Toufani coniugata con Agostino Marramaldo, morta nel 1795; in un atto notarile dell’aprile 1798, il conte Francesco Marramaldo Toufani, loro figlio, chiarì che in realtà la casa era stata lasciata dal conte Pietro al fratello canonico Luis Toufani; il canonico morì pochi giorni dopo, a fine aprile 1798, e negli anni successivi la casa apparteneva ancora agli eredi Toufani: nel 1804, nella denuncia per il donativo, venne dichiarata fra i beni dell’eredità del conte Pietro Toufani; nell’agosto del 1807, nella denuncia per il donativo dell’Arciconfraternita del Sepolcro, il conte Touffani (cioè Francesco Marramaldo Toufani, conte di Nureci e Asuni) è citato come proprietario della casa confinante con la casa 2665 dell’Arciconfraternita; la stessa informazione è fornita da un atto del 17.02.1813.

Dopo il 1850, dai dati del Sommarione dei Fabbricati, risulta appartenere a don Matteo Toufani (1789-), il cui vero nome era in realtà Matteo Marramaldo, figlio di Francesco Marramaldo Toufani e di Bartolomea Ravagli.

 

2667

Apparteneva al negoziante Juan Felipe Pinna; nell’inventario dei suoi beni iniziato il 03.01.1789, poche settimane dopo la sua morte, la casa fu stimata 5306 scudi, comprendendo la “chica casa contigua”; erano quindi 2 case diverse, una grande, una piccola; dovrebbe essere la stessa casa citata il 09.06.1792 nell’inventario dei beni del defunto Paolo Pinna, dove si dichiara una porzione della casa grande ereditata dal padre Filippo Pinna e dalla madre Francesca Sanna, insieme agli altri suoi fratelli, cioè il dottor Priamo, Marianna, e il fu Giuseppe fratelli Pinna; casa sita in “calle de S.Agustin” che Filippo Pinna comprò “costante matrimonio” con la prima moglie Francesca Sanna (morta circa nel 1765).

Nel 1799 fu dichiarata dagli eredi di Filippo Pinna, nelle loro denunce per il donativo: la figlia Marianna aveva 2 piccoli magazzini e 4 stanze, le nipoti Caterina e Barbara Pinna (figlie del fu Priamo) dei mezzanelli di 3 stanze, un piano alto sopra il piano nobile ed un altro piano alto indiviso col cugino Raimondo Pinna, entrambi di 8 stanze ciascuno; lo stesso Raimondo dichiarò di avere alcune stanze di quella casa, ereditate dal padre Paolo che a sua volta le aveva ereditate dal padre Gio Filippo; gli eredi Pinna sono ricordati come proprietari in atto notarile di agosto 1800 relativo alla casa 2668, e in atto di giugno 1805 relativo alla casa 2336, sull’altro lato della via; in realtà in data 20.08.1804 la grande casa fu venduta all’asta per lire 10000 e assegnata al notaio Giuseppe Tatti, su instanza del negoziante don Onorato Cortese; fu assegnata al notaio Tatti in quanto egli risultò l’unico interessato a rilevare l’immobile; due giorni dopo il banditore Giuseppe Ferrero comunicò l’assegnazione ai tanti proprietari, tutti discendenti di Juan Felipe Pinna: i coniugi negoziante Paolo Maurizio Arthemalle e Marianna Pinna, Giovanni e Raimondo Pinna Bogliolo, i minori Angela, Efisio e Giuseppe Andrea Pinna Fassio, le sorelle Caterina e Barbara Pinna figlie del fu avvocato Priamo attraverso il loro procuratore, notaio Pasquale Maria Cicalò, Raimondo Pinna del fu Paolo; nell’impossibilità di comunicarlo ai coniugi Francesco Altea ed Efisia Pinna Fassio del villaggio di Tempio, assenti dalla città, un avviso fu affisso alla porta del Tribunale.

Da notare che don Onorato Cortese vantava un credito nei confronti degli eredi Pinna di quasi 10000 lire, per un capitale di 2500 lire (probabilmente un prestito fatto da Cortese al defunto Juan Felipe Pinna) e per le pensioni mai pagate per oltre 7000 lire. 

Il calcolo della percentuale di possesso dei tanti eredi Pinna era reso complicata anche dal fatto che Giuseppe Pinna Sanna, figlio di Gio Filippo, era premorto al padre nel 1785, nominando erede universale la moglie Maria Antonia Umana e, non essendoci figli, il padre ancora in vita ebbe diritto alla parte legittima dell’eredità; dopo la morte di Gio Filippo questa quota legittima spettava a tutti i suoi eredi; per cui, quando la casa fu acquisita dal notaio Tatti, la vedova Maria Antonia Umana, con atto del marzo 1805, si accordò con i tanti parenti e pagò a ciascuno  50 scudi, in tutto 450 scudi; l’accordo fu raggiunto solo nel 1805 a causa dei molti debiti lasciati da Gio Filippo Pinna, a causa della controversie sorte fra i figli e a causa delle liti con i creditori; la casa era stata acquistata da Gio Filippo Pinna durante il suo primo matrimonio con Francesca Sanna, morta nel 1766, per cui i suoi figli di primo letto avevano diritto ad una ben più cospicua percentuale sull’immobile rispetto agli altri fratelli nati dai successivi matrimoni del padre.

Dalla denuncia del 15.08.1807 per il donativo del Capitolo Cagliaritano, proprietario delle case 2650 e 2651, risulta che la casa 2667 apparteneva al cavalier don Onorato Cortese; non è stato ancora rintracciato il passaggio di proprietà, solo formale, dal notaio Tatti al cavalier Cortese, ma il dato è confermato dai seguenti altri documenti:

1) in atto notarile del 01.12.1807, relativo alla casa 2335, questa aveva davanti una casa che era stata di Gio Filippo Pinna, e in quel momento di don Onorato Cortese;

2) in atto del 08.02.1809, relativo alle casa Sedilo 2648 e 2649, queste confinavano sul retro con orto e casa del cavalier don Onorato Cortese.

3) con atto notarile del 07.01.1811 il cavalier Onorato Cortese, concesse in affitto alla marchesa di Blondel, per 275 scudi annui, una casa nella strada Sant’Agostino, composta da due mezzanelli e 3 magazzini, piano nobile e altro piano, con giardino (retrostante); nell’affitto era escluso il piano superiore che era già affittato a Stefano Moi;
4) in atto notarile del 25.02.1811, relativo alla casa 2334, la casa sul davanti 2667 è detta casa del cavalier Onorato Cortese, ed in altra parte dello stesso documento è detta casa degli eredi di Gio Filippo Pinna;
5) in altro atto notarile del novembre 1811, relativo alla casa 2650, questa aveva alle spalle la casa e il cortile del cavalier Onorato Cortese.

A conferma della cessione della proprietà da parte degli eredi Pinna, si può citare un atto notarile del 14.08.1813, col quale Marianna Pinna, figlia del defunto Gio Filippo, e moglie ormai separata del negoziante Paolo Maurizio Arthemalle, dichiarò di aver ceduto tutti i beni ereditari, e di conservare solo una casa nel quartiere di Villanova, dove abitava; con l’atto citato, Marianna Pinna donò meta dei suoi beni residui alla figlia Maria Annica Arthemalle vedova di don Ignazio Musso; con altro atto del 21 dicembre di quello stesso anno, la stessa Marianna Pinna cedette alla figlia Maria Annica, da cui era mantenuta, anche l’altra metà della casa in Villanova. 

Nel catasto di metà ‘800 la casa 2667 risulta del negoziante e console di Spagna Giovanni Leone (1810-) e di suo cognato negoziante Luigi Serra, il quale aveva sposato nel 1840 Maria Ursula (Marietta) Leone (1822-1867); è quindi lecito ipotizzare che la casa provenisse dai genitori dei fratelli Leone (o Leoni), il negoziante napoletano Gianuario (o Gennaro) Leone (-1834) e la moglie Innocenta Barbetta.

 

2668

Era di proprietà del mastro conciatore Antonio Atzeni; egli possedeva altre 2 case nella Marina, e col suo ultimo testamento del 30.11.1751 (a rogito del notaio Pietro Frau) istituì eredi universali le sue figlie Maria Giuseppa, Antonia (-1767) e Rosa (-1778), con l’obbligo di pagare ogni anno scudi 10 al convento di S.Agostino intra muros per la celebrazione in perpetuo della festa da lui fondata in onore di S.Nicolò da Tolentino; lasciò a Maria Giuseppa la casa 2668, ad Antonia la casa 2663, a Rosa la casa 2338.

Maria Giuseppa Atzeni era coniugata col notaio Pietro Antonio Melis; alla sua venne ereditata dalle due figlie Anna e Maria Rosa Melis le quali, con atto del 27.02.1792, si accordarono col convento di Sant’Agostino per liberarsi dell’obbligo testamentario; il 18.08.1800 le due sorelle Melis, entrambe vedove[1], vendettero la casa “di due soffitti, o siano piani, che minaccia rovina”, al notaio Tommaso Massa di Tortolì e dimorante in Cagliari, per 1000 scudi; il 13.06.1805 il notaio Massa completò il pagamento della casa ad Anna Melis e a Barbara e Caterina Pinna, queste ultime figlie della defunta Maria Rosa Melis.

Il Massa possedeva ancora la casa nel 1808 e nel 1809, come riferiscono atti notarili del 29 aprile e del 26 novembre del 1808, relativi alla confinante casa Pintor 2669, e atti del 13.10.1808 e del 25.05.1809 relativi alla frontale casa 2332.

Dopo il 1850 apparteneva a Saturnina (1822-1894), Vincenza (1825-1902), Tommaso (1832-1875) e Rodolfo Usai (1829-1895), figli del fu impiegato Francesco Usai e di Agostina Grosso; si ignorano eventuali legami di parentela fra gli Usai e Tommaso Massa.


[1] Anna era vedova del notaio Francesco Bausa, Maria Rosa dell’avvocato Priamo Pinna, uno dei proprietari della vicina casa 2667 

 

2669      vedi casa 2647

 

2670      

Da una causa civile del 1777, relativa alle case Urbano (sull’altro lato della strada di Sant’Agostino), si sa che già dal 1754 la casa 2670 apparteneva al mastro conciatore Salvador Pintor (circa 1710-1791), padre di Agostino Pintor Frongia, proprietario della casa 2633; con atto notarile del 07.09.1791 venne compilato l’inventario dei beni del fu mastro Salvatore Pintor; suoi eredi sono i figli Agostino, Domingo, Miguel, Geronimo, Annica, Rita, Monica, Bernardo e il reverendo Francesco, fratelli Pintor Frongia; il negoziante Bernardo è escluso dalla divisione dei beni poiché ha già ricevuto la sua porzione d’eredità; la casa dove morì Salvatore, nella strada Sant’Agostino, è stimata lire 3398 e 10 soldi, ed identificata, grazie alle indicazioni sulle case confinanti, con l’unità catastale 2670; da un’altra causa civile del 1797, relativa a una lite fra i fratelli Pintor, sorta per la spartizione dell’eredità del fratello Agostino morto nel 1792, si sa che nel 1797 la casa 2670 era abitata dal reverendo Francesco Pintor Frongia e da sua sorella Monica col marito di questa Raffaele Giuitta. Nello stesso 1797 la casa, gravata da ipoteca, fu però sequestrata agli eredi Pintor Frongia su istanza di donna Maria Francesca Zappata vedova del marchese d’Albis (per debiti censuari di Salvatore Pintor per lire 3250 e diverse pensioni scadute), e fu assegnata per 950 scudi al notaio Miguel Delorenzo abitante in Villanova. Quest’ultimo, per accordi precedenti, la cedette (in stato rovinoso) e allo stesso prezzo alla marchesa d'Albis il 24.10.1797; il 03.05.1798 la marchesa  vendette la casa (di 2 piani alti ed il piano terreno) al conciatore Luigi Porcu per 1150 scudi cioè lire 2875.

Si trovano altri riferimenti alla proprietà Porcu in atto notarile del maggio 1801, relativo alla casa confinante 2669, e nella denuncia del 1807 per il donativo del notaio Azuni, proprietario della casa 2646, alle spalle della casa Porcu; con atto del notaio Giuseppe Isola, del 13.02.1807, Luigi Porcu caricò sulla casa un censo di 225 scudi che gli erano stati prestati da Maria Rosa Loi, nativa di Sanluri e domiciliata in Cagliari. Con la somma avuta poté estinguere il debito che aveva ancora con la marchesa d’Albis, alla quale avrebbe dovuto pagare entro 10 anni (dal 03.05.1798) in due rate uguali tutta la somma concordata, di cui una già pagato il 09.11.1801; così facendo si liberava del debito residuo e della relativa pensione al 5%; avrebbe pagato gli interessi al 5% alla Loi su 225 scudi, cioè soli 11 scudi e un quarto (equivalenti a 28 lire, 2 soldi, 6 denari).

Nel febbraio 1811 vi morì Maria Antonia Schirro, vedova del mastro ferraro Giuseppe Mallus; la donna da più di 25 anni era ospitata dal Porcu, suo “rimotto cugino” e governava la casa, pagata per i suoi servizi; col suo testamento lasciò al cugino con gratitudine i suoi pochi beni; la casa 2670 risulta ancora proprietà e abitazione di Luis Porcu nei suoi due testamenti del maggio 1811 e marzo 1815, dove egli dichiarò, essendo scapolo e senza figli, di voler lasciare i suoi beni per la fondazione di un beneficio ecclesiastico o nella Cattedrale cagliaritana, o nella chiesa di Sant'Eulalia.

Dopo il 1850 la casa apparteneva al Convento dei Minimi di San Francesco.

 

2671     

Da una causa civile relativa alla casa Urbano, sull’altro lato della via, si sa che nel 1754 la casa 2671 apparteneva a don Antonio Vintimilla e in precedenza era di Gerolama Bartolo (parente dei Vintimiglia); nel gennaio 1780 apparteneva al negoziante Juan Onnis che l’aveva avuta in enfiteusi il 05.03.1773, per 500 scudi e canone annuo di 25 scudi, da donna Maddalena Vintimiglia (-1783); quest’ultima agiva in suo nome e come “procuratora” dei suoi fratelli don Pantaleo, il conte don Agostino, e don Antonio Vintimiglia; è probabile quindi che anche nel 1754 fosse una proprietà indivisa dei fratelli Vintimiglia, e non del solo don Antonio, ereditata da Gerolama Bartolo [1];

Nel 1792 la casa (di 2 piani alti più il terreno) venne messa all’asta per i debiti dell’Onnis, e il 10.11.1792 venne assegnata per 1610 scudi al negoziante di Savona Agostino Baria detto “su prussianu”. Il Baria, nel suo ultimo testamento del 15.06.1795, nominò il nobile don Onorato Cortese curatore ed erede universale di tutti i suoi beni; il Cortese ebbe l’incarico dal Baria di passare mensilmente alla vedova Cathelina Carreras e alla figlia Agostina Lampis Carreras 7,5 scudi a ciascuna durante la loro vita, e di costituire la dote di 2000 scudi ad Agostina Lampis; non si conosce l’esatta data di morte di Agostino Baria, ma è precedente il giorno 08 maggio del 1797, come risulta da un atto notarile di quella data, relativo alla casa 2670, nel quale è scritto che la casa confinante (2671) apparteneva agli eredi del defunto Baria; nel maggio 1801, dovendosi sposare Agostina Lampis col notaio Manuel Camedda, nativo di Gadoni, il Cortese promise di consegnare i 2000 scudi e, per garanzia, ipotecò la casa di 2 piani e un magazzino che possedeva nella strada di Sant’Agostino, la stessa casa che già abitavano la vedova Carreras con la figlia, e che Agostina Lampis avrebbe abitato col suo sposo Manuel Camedda.

Nei due testamenti del 1811 e del 1815 del conciatore Luis Porcu, già citati nel paragrafo precedente, la casa 2671 è indicata come quella del notaio Emanuele Camedda, in realtà solo inquilino.

Dopo il 1850 la casa apparteneva al maggiore in ritiro Francesco Novaro (1796-1870), o per meglio dire a sua moglie Francesca Cortese (1787-1854), figlia di don Onorato.



[1] fra gli avi, probabilmente nonni, dei fratelli Vintimiglia, sono noti i coniugi Antonio Maria Vintimiglia e Cecilia Bartolo; Gerolama Bartolo era forse una sorella di Cecila, quindi prozia di Maddalena e dei suoi fratelli

 

2672     

Questa casa, all’angolo fra le strade di Sant’Agostino e la strada di Tola (attuale via Sicilia), è citata in atti notarili di settembre e novembre 1792, di febbraio 1798, di aprile 1802, di febbraio 1803 e di febbraio 1810: tutti questi documenti, relativi alle case confinanti, riferiscono che la casa apparteneva al convento dei Padri Mercedari di Bonaria, senza fornire ulteriori particolari, con l’unica eccezione dell’atto del 1802 nel quale è scritto che in precedenza apparteneva a un non meglio identificato conte Massa; un atto notarile del luglio 1796, relativo alla casa 2686, la indica come quella che apparteneva in precedenza al conte Musso, senza specificarne il successivo proprietario; è possibile che si tratti di don Raimondo Musso conte di Villanova Montesanto, morto pochi anni prima. E’ plausibile che dal conte (Massa o Musso) sia passata al convento, per legato testamentario o per altre vie.

Con atto datato 05.12.1803 del notaio Francesco Antonio Vacca, fu eseguito l’estimo della casa su incarico della comunità Mercedaria e del mastro Ignacio Calamida; la casa aveva l’entrata nel “callejon”, cioè nella strada Tola, ed era composta dal piano terreno e 3 piani alti; il locale terreno aveva l’entrata nella strada di Sant’Agostino; veniva chiamata casa Abram, dal nome di un antico proprietario, probabilmente un membro della famiglia Abraham, presente alla Marina fra ‘600 e ‘700.

All’estimo seguì il contratto di enfiteusi, datato 10 dicembre, secondo il quale il Calamida avrebbe pagato 65 scudi annui, senza nessun altro onere; per garantire il pagamento del canone, Ignazio Calamida ipotecò 3 casette che possedeva nella strada delle Conce (num. catastali 2254, 2255, 2256). Nella denuncia per il donativo dei padri Mercedari, datata 30.01.1812, è compresa una casa situata nella strada di Sant’Agostino, data in enfiteusi al ferraro Ignazio Calamida (-1826) il quale pagava una canone annuo di lire 162 e 10 soldi (cioè 65 scudi); in un atto notarile del 11.03.1813, relativo alla casa Crobu 2686, questa confinava lateralmente, mediante il vicolo, con la casa del ferraro Ignazio Calamida.

Dopo il 1850 apparteneva a Giacinta Carboni del fu Raffaele, maritata Casu.

 

2673

In atti notarili del settembre 1792, febbraio 1798, giugno 1799, ottobre e novembre 1802, tutti relativi alle casa confinanti, la casa 2673 è indicata come quella dei figli del defunto avvocato Gaspare Tola, nativo di Macomer, morto dopo il maggio 1785, e risulta ancora degli eredi Tola nel donativo del 1807 del notaio Gio Batta Azuni, proprietario della casa confinante 2646.

Con atto notarile del 13.02.1810 i fratelli Gaspare ed Efisio Perpignano Tola, figli di Angelo Perpignano (-1808) e Anna Luisa Tola, (quest’ultima figlia dell’avvocato Gaspare Tola) affittarono al negoziante Filippo Piccaluga (1784-1823), figlio del proprietario della confinante 2645, il piano di mezzo della casa 2673, ereditata dal nonno; la casa era già in affitto al Piccaluga dal 1808 per 25 scudi annui, e oltre a proseguire la locazione per altri 5 anni venne affittata anche la stalla al piano terra per altri 5 scudi annui; il Piccaluga scontava dagli affitti “non poche somme” che Gaspare Perpignano (1788-1853) aveva da lui preso in prestito; quest’ultimo era negoziante, dalla Marina si spostò nel quartiere di Villanova, mentre il fratello Efisio (1792-1867) era militare (futuro Luogotenente di Sant’Antioco).

Da una causa civile del maggio 1810, si sa che in un sottano della casa Perpignano (nei pressi della strada di Sant’Agostino) vi era una taverna e bottega di vino e altri “commestibili”; era gestita da Antonio Marcello di Gavoi, e vi lavorava come serva la vedova Marianna Crobu Maccis di Ortueri; la donna si rivolse alla magistratura perché il Marcello le doveva la paga di due anni; inoltre fu scacciata dal locale, dove probabilmente dormiva, e non sapeva “dove rifugiarsi”.

Con atto del notaio Francesco Soro del 09.08.1810 i fratelli Perpignano Tola stabilirono il valore della casa: in accordo con Filippo Piccaluga incaricarono della perizia i mastri muratori Rafaele Manca e Francesco Murru, i mastri  falegnami Marco Antonio Mereu e Raffaele Cappai, e il ferraro mastro Francesco Ignazio Calamida (enfiteuta della confinante casa 2672); il valore fu fissato in lire 4775, un soldo e denari 11. La perizia precede la vendita del 27 agosto; il compratore, negoziante Filippo Piccaluga (1784/1823), era figlio del negoziante Francesco, proprietario da diversi anni della confinante casa 2645. Dal momento che entrambi i fratelli Perpignano Tola erano minori di 25 anni (22 e 18 rispettivamente), intervenne, per dare l’assenso, il loro curatore Giuseppe Bettinali, nominato dal tribunale il 13 luglio. E’ specificato che la casa proveniva dall’eredità della loro madre Anna Luigia Tola, e venne venduta per lire 4775, secondo la perizia del 9 agosto, al netto degli spiccioli indicati in perizia. Furono subito pagate dal Piccaluga lire 2981, 16 soldi e 7 denari, che coprirono alcuni debiti a carico dei venditori e due proprietà censuarie caricate sulla casa: una di lire 620 a favore della Arciconfraternita del Santo Monte di Pietà, l’altra di lire 750 a favore della Comunità di Sant'Anna; Gaspare Perpignano ricevette inoltre lire 620 in denaro effettivo, Efisio lire 120; rimanevano da pagare ancora lire 1173, 3 soldi, 4 denari, che sarebbero state pagate al compimento dei 25 anni: a Gaspare lire 426, 7 soldi, 6 denari; ad Efisio lire 746, 15 soldi e 10 denari; Piccaluga ne avrebbe pagato gli interssi al 6%.

I venditori non avevano però tenuto conto dei diritti che Luisa Solaro, vedova del loro zio Raffaele Tola, aveva sulla casa; sorse perciò una lite in tribunale, furono sequestrati al compratore Piccaluga 750 lire, ma si preferì arrivare ad una transazione: in data 20.11.1811 fu firmato un accordo per cui detta somma fu divisa in 3 parti.

La proprietà Piccaluga è confermata da altri due atti notarili del 03.08.1811 e del 19.12.1811, relativi alla casa 2684 sull’altro lato della via: nel primo la casa 2673 è detta “di Filippo Piccaluga”, nel secondo viene meglio specificato che era la “casa grande dei fratelli Perpignano, oggi del negoziante Filippo Piccaluga”.

Da una causa civile del 1817 sembra di poter identificare la casa 2673 con una proprietà degli eredi Ponsiglione (figli del fu Pasquale), e vi abitavano in un piano il notaio Efisio Todde che pagava 16 scudi per sei mesi, la vedova Anna Serra che occupava un altro piano e pagava scudi 15 per sei mesi, il notaio Francesco Sirigu che pagava 8 scudi a semestre, il siciliano Vito Savona che pagava 7 scudi e mezzo a trimestre, lo scarparo Luigi Sechi che pagava 5 scudi per un quadrimestre e la vedova Teresa Argus che pagava uno scudo al mese. Non è stato rintracciato nessun documento che dimostri il passaggio di proprietà da Piccaluga ai Ponsiglione, ma l’ipotesi è rafforzata dal fatto che dopo il 1850, dal Sommarione dei Fabbricati, risulta appartenere a Efisia Ponsiglione (1797-1859), figlia di Pasquale e di Anna Medail, coniugata col presidente di corte d’appello Giovanni Nepomuceno Rattu.