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Isolato K: Costa/Scarpari/Fontana nuova/discesa Sepolcro/portico Sant’Antonio

(via Manno, via Baylle, via Dettori, piazza Savoia, scale e piazza S.Sepolcro, portico Sant’Antonio)

numeri catastali da 2365 a 2387

Le modifiche più evidenti, rispetto alla situazione di 200 anni fa, sono legate alla cessata attività ospedaliera, conseguente alla costruzione del nuovo ospedale San Giovanni di Dio dell’architetto Gaetano Cima; le proprietà dei padri Ospedalieri sulla via Manno sono quindi state cedute ai privati, con la costruzione di palazzi che hanno sostituito la fila di botteghe, un tempo affittate a piccoli commercianti.

 

2365     

Era l’area occupata dall’ospedale San Giovanni di Dio, convento di Sant’Antonio abate, chiamato anche convento dei padri ospedalieri di S.Giovanni di Dio; data l’estensione e l’importanza dell’edificio e dei suoi annessi, le citazioni sono numerosissime nei documenti di fine ‘700 e di inizio ‘800; da atti notarili del 23.09.1796 e del 22.11.1797 si sa che davanti alla casa Dugoni 2415, sulla strada della Costa, vi era la “spezieria dello Spedale”, quindi all’estremita sinistra, verso la Porta Stampace.

Nella facciata sulla strada della Costa si aprivano alcune botteghe, concesse in affitto o in enfiteusi: nel 1802 una bottega era probabilmente utilizzata dai negozianti originari di Fosseno (frazione di Nebbiuno, Novara) Martino e Giovanni Battista Calderaro; Martino, che abitava con la famiglia in una casa situata nella stessa strada, fra la chiesa di S.Antonio e il portico (vedi unità 2724), morì il 7 agosto di quell’anno; pochi giorni dopo fu compilato l’inventario delle merci delle sue botteghe, dove vendeva carta, nastri, lucchetti, pipe di legno, aghi da scarparo, ecc.; a fianco alla sua vi erano le botteghe utilizzate da Livia Passalacqua e da Giacomo Gallarati.

In data 26.09.1806 venne stilato l’inventario di tutti i beni mobili, semoventi e stabili appartenenti allo Spedale della Marina sotto l’invocazione di Sant’Antonio Abate, e loro consegna al procuratore generale dei Padri Spedalieri della città, “in eseguimento degli ordini di S.M. del 15.09.1806”.

Fra i diversi beni immobili, l’inventario comprende una serie di botteghe nella strada della Costa: una “casa ossia bottega attigua alla porteria del convento”, per la quale il negoziante Giovanni Galb pagava scudi 27 all’anno; una bottega affittata al sartore Pietro Nuxis per scudi 25 annui; una bottega attigua, affittata a Caterina Gallerat per scudi 30 annui; una bottega simile affittata a Efisio Calderaro (figlio del defunto Martino) per scudi 25 annui; un’altra simile affittata allo stesso Calderaro per scudi 25 annui; una simile affittata a Livia Passalaqua per scudi 25 annui; un’altra simile affittata alla già nominata Caterina Gallerat per scudi 20 annui.

Nel 1807 Maria Caterina Antonioli, vedova di Giacomo Gallarati (sicuramente la stessa Caterina Gallerat prima citata), ottenne in enfiteusi una bottega (probabilmente si tratta della stessa bottega che teneva in affitto nel 1802 il marito defunto, e la stessa vedova nel 1806) contigua alla spezieria, e l’utilizzo di due stanze poste sopra la stessa spezieria e sopra la sua bottega; nel 1810 le fu concessa un’altra stanza confinante con le precedenti, che stava sopra alla bottega di Filippo Martelli (recte Martini), il quale aveva utilizzato la stanza fino a quel momento; la vedova Gallarati pagò per i primi anni lire 100 annue, dal 1810 lire 130; le fu concessa l’enfiteusi perpetua, per tutta la sua vita, e s’impegnò per apportare miglioramenti per 500 scudi.

Maria Caterina Antonioli era, come i fratelli Calderaro, originaria di Fosseno; aveva sposato G.M. (?) Calderaro, forse fratello dei precedenti; rimasta vedova si risposò nel 1796 col negoziante di Barlassina (Monza) Giulio Barbetta; questi morì nel 1797 e Maria Caterina Antonioli si risposò l’anno successivo con Giacomo Gallarati, proveniente da Torino; rimase quindi vedova anche del terzo marito fra il 1802 e il 1806.

Con atto del notaio Nicolò Martini del 30.08.1809 una bottega (e stanze annesse), sita davanti alla casa Dugoni 2415 e confinante da entrambi i lati con altre botteghe dei Padri Ospedalieri, fu concessa in enfiteusi vitalizia al negoziante Filippo Martini per lire 90 annue.

Con altro atto del notaio Martini del 30.12.1810, una bottega con una stanza posteriore ed un mezzanello furono concessi in enfiteusi al negoziante milanese Marco Cima e a sua moglie Giuseppa Marchisoli; la bottega era fino ad allora utilizzata dal convento, confinava con altre botteghe dell’Ospedale di cui una utilizzata dal sarto Pietro Nuxis; il canone fu stabilito in lire 125 annue a partire dal gennaio 1810, e il Cima si impegnò a migliorare l’immobile, in particolare ad innalzare la cappa del camino al di sopra del lucernario del dormitorio del convento e collegare il suo camino a quello del convento, e farlo più alto possibile.

Nel fascicolo di una lite civile iniziata nel 1803 fra i negozianti Giuseppe Chessa e Giovanni Battista Franco, si legge che il Chessa stava eseguendo degli importanti lavori nella sua casa della Costa, numero catastale 2386: egli ammise di aver distrutto, per ingrandire la sua casa, uno “splendido giardinetto pieno di alberi da frutto e fiori”, di sua proprietà; oltre ad aver già “oscurato” alcune finestre del primo piano della casa Franco, unità 2378 sulla strada Tagliolas, con l’innalzamento della nuova costruzione avrebbe tolto luce anche ad alcune finestre più alte della stessa casa; costrinse quindi l’Ospedale a intervenire nella lite in quanto avrebbe privato di luce anche “la camera anatomica dove sogliono fare operazioni di parti sottilissime, e priverebbe di ventilazione un ambiente inquinato dalle esalazioni putride dei cadaveri, e la camera d’infermeria delle donne”. Probabilmente la costruzione del Chessa venne bloccata, almeno per diversi anni: con atto notarile del 1808 il Chessa vendette la sua casa 2386 insieme a diversi materiali “non ancora messi in opera”; sul suo cortile si affacciavano due stanze dell’Ospedale, “una per le donne ammalate, l’altra per l’anatomia”.

Fra i beni denunciati dai “Religiosi Spedalieri e convento di S.Antonio” per il pagamento del donativo del 1807 [1], sono comprese 9 botteghe nella strada della Costa; oltre alla spezieria, sui locatari delle botteghe vi sono alcune notizie: nel fascicolo di una causa civile del 1827 si legge che con atto notarile del 16.07.1811 Domenico Rossi, Mastro del Battaglione dei Cacciatori di Savoia, prese “in locazione per 9 anni dal 15.09.1811 fino al 1820 tutta la bottega e piano superiore che la comunità (del Regio Ospedale) possiede nella strada della Costa, per lire 100 annue; è la casa detta del numero 4 (nel tratto che va) dal Portico del convento sino alla spezieria, che confina da una parte alla casa e bottega concessa a Marco Cima (cioccolatiere), d’altra parte a bottega del Cappellaro Michele Bonino, alle spalle il convento, e dirimpetto la casa detta di Perpignano (2413) ora di San Michele, strada in mezzo”. La locazione al Rossi fu confermata fino all’ultimo giorno di ottobre del 1827; in quella data, dovendo l’ospedale eseguire dei lavori urgenti, volle imporre per vie legali al Rossi di sgomberare la casa.

Con atto notarile del 03.03.1812 i coniugi Marco Cima e Giuseppa Marchisoli, che possedevano dal 30.12.1809, in enfiteusi per la loro vita, una bottega col suo mezzanello concessa dai Padri Ospedalieri, rinunciarono all’enfiteusi, restituendo il bene all’Ospedale.

Nel Sommarione dei Fabbricati di metà ‘800, oltre all’Ospedale Civile, risulta proprietaria di una parte dell’unità 2365 Rosa Demelas moglie di (Efisio) Frau, che vi aveva una bottega. 



[1] ASC SS serie II, vol 83

 

2366     

L’unico riferimento rintracciato per questa unità catastale è nella denuncia per il donativo dell’Arciconfraternita del Sepolcro: quest’ultima era proprietaria della casa 2367, che era confinante con una proprietà dell’Ospedale S.Antonio, cioè con la casa 2366.

Una conferma di questa attribuzione arriva dal Sommarione dei Fabbricati: anche dopo il 1850 l’unità 2366 apparteneva all’Ospedale Civile.

 

2367     

Un atto notarile del 08.07.1797, relativo alla casa Medail 2368, ci permette di sapere che la casa 2367, alle spalle della 2368, apparteneva all’Arciconfraternita del Sepolcro; il dato è confermato dall’inventario Ponsiglione, del novembre 1802: la stessa casa 2368 aveva alle spalle una proprietà del Sepolcro; la si identifica con la proprietà inserita nella denuncia per il donativo dell’Arciconfraternita, del 1807, nella quale abitava gratuitamente il Cappellano della chiesa; era composta da due piani (forse piano terreno e primo piano), uno con sala, alcova e cucina, l’altro con due stanze e cucina; aveva davanti il cortile della chiesa, confinava con la casa Ponsiglione (2368), e con proprietà dell’ospedale (2366); anche a metà 800 risulta appartenere alla Arciconfraternita del Sepolcro. 

 

2368

Era la casa Medail; in un atto notarile relativo alla casa 2701 (all’angolo fra la strada Moras e la strada del Sepolcro), del giugno 1792, è scritto che questa casa aveva davanti quella del negoziante Medail, attraverso la strada del Sepolcro; il negoziante Giovanni Medail, proveniente da Milaures[1] aveva sposato in prime nozze nel 1755 Maria Anna Cordiglia, in seconde nozze nel 1763 Maria Maddalena Tuveri, vedova di Pietro Aleman (proveniente anch’esso dal Delfinato); Giovanni Medail morì proprio nel 1792, lasciando i suoi beni alla vedova ed ai figli; in atto del febbraio 1797, relativo alla casa Denegri 2369, è scritto che questa casa confinava di lato con quella (2368) dell’eredità di Giovanni Medaglie.

Con atto notarile del 08.07.1797 i fratelli negozianti Andrea, Luigi e Simone Medaill, vendettero al negoziante Pasquale Ponsillon loro cognato sposato con Anna Medail, la casa sita presso la chiesa del Sepolcro, per £ 2501, soldi 18, denari 4; nell’atto è specificato che Giovanni Medail aveva lasciato un testamento, pubblicato dopo la sua morte il 24.09.1792, e i suoi eredi erano i sei figli: Andrea, Luigi, Simone, Anna coniugata con Pasquale Ponsillon, e Rosolia (che era in procinto di diventare monaca Cappuccina), fratelli e sorelle Medaill Tuveri, e donna Teresa Medaill Cordilla, nata dal suo primo matrimonio, moglie di don Juan Antonio Therol.

La decisione di vendere la casa lasciata dal loro genitore, era legata ai debiti che i fratelli Medail avevano verso le sorelle, a cui spettavano ingenti somme di denaro dall’eredità; in particolare essi dovevano pagare 1000 scudi alla sorella Rosolia che, secondo le promesse del padre, doveva ricevere detta somma al momento di cambiare il suo stato: la data del cambiamento di stato (cioè il suo ingresso in convento come monaca Cappuccina) era fissato per il 10 luglio di quell’anno 1797.

I confini della casa erano i seguenti: davanti e di spalle con case della Confraternita del Sepolcro (2700 e 2367); da un lato con casa di Clara Pisanu (vedova di Marco Antonio Denegri), unità 2369; dall’altro lato con il cimitero e piazza della chiesa; era la casa che possedeva Maddalena Belleudi vedova Cordiglia, che la vendette a suo genero Juan Medaill con atto del 28.08.1755; la casa venne stimata per £ 2501, soldi 18, denari 4, dal misuratore generale Antonio Gerolamo Massei.

Pasquale Ponsiglione morì il 13.11.1802; in data 07.09.1802, con atto notarile, aveva stabilito di caricare un censo di 1200 scudi sulla casa comprata dai cognati: la rendita annua ottenuta sarebbe servita per la celebrazione di una messa quotidiana nella chiesa del Sepolcro, e per la celebrazione di una messa da Requiem per l’anima di suo suocero Giovanni Medail da celebrare tutti gli anni il primo novembre.

La casa 2368 rimase ancora a lungo agli eredi Ponsiglioni: nell’inventario dei beni del defunto Pasquale, datato 26.11.1802, è chiamata “casa Medaill”; si componeva di 2 sottani, di cui uno grande utilizzato come bottega, sulla strada, l’altro piccolo era nella facciata che dava verso la chiesa; vi erano 2 piani alti con balconi di ferro, al primo piano 3 sulla strada is Tallolas, 1 verso il Sepolcro; all’ultimo piano vi erano delle piccole finestre su entrambe le facciate; tutta la casa fu stimata in lire 2761 e 10 soldi.

Con atto del notaio Francesco Sirigu del 06.01.1808 il mastro muratore Gemiliano Porru, il mastro carpentiere Raffaele Capai e il mastro ferraro Ignazio Calamida, firmarono una ricevuta di lire 1866, soldi 9 denari 3 a loro consegnati dal reverendo Filippo Ponsiglion, cugino del defunto Pasquale e amministratore dell’eredità, per i lavori fatti nella casa Medail degli eredi Ponsiglion, casa sita nei pressi della chiesa del Sepolcro.

La casa è citata nel donativo del 1807 dell’Arciconfraternita del Sepolcro, in quanto frontale alla casa 2700; è citata ancora in una causa civile del 1817, quando venne fatta la comunicazione, a tutti gli inquilini delle case dell’eredità Ponsiglione, di non pagare più gli affitti al negoziante Steria, incaricato dagli eredi delle riscossioni; fra le case dell’eredità c’era anche quella davanti alla chiesa (e cimitero) del Sepolcro, abitata dal mastro sarto Giuseppe Mesano (o Massanu), che pagava scudi 105 annui, ed aveva una mezza annata scaduta.

A metà ‘800 la casa 2368 apparteneva a Efisia Ponsiglione (1797-1859), figlia di Pasquale e di Anna Medail, coniugata col presidente di corte d’appello Giovanni Nepomuceno Rattu.



[1] frazione di Bardonecchia, ora in Piemonte al confine francese; fino al 1713 faceva parte del Delfinato di Francia

 

2369     

Con atto notarile del 03.02.1797 il segretario Pasquale Denegri dichiarò il suo obbligo al pagamento di lire 943 e soldi 16 alla chiesa dei santi martiri Giorgio e Caterina; il debito derivava da una volontà di suo padre, il fu falegname Marcantonio Denegri che, col suo ultimo testamento del 12.06.1765, istituì un legato di 2 messe settimanali “colla limosina di soldi 6”, in perpetuo, da celebrare nella chiesa dei santi Giorgio e Caterina, e assoggettò a detto legato la casa che possedeva nella strada di las Tagliolas; la casa confinava davanti con casa dell’eredità del fu canonico Isola (2700), dietro con l’Ospitale S.Antonio (2365), da un lato con casa dell’eredità di Giovanni Medaglie (2368), d’altro lato con casa del reverendo frate mercedario Lai (2370).

Pasquale Denegri, figlio di Marcantonio (-1765), aveva ereditato la casa ma non rispettò l’obbligo di pagare quanto dovuto, per cui con sentenza del 05.02.1795 fu condannato a pagare le messe dal 16.06.1765, oltre alle spese giudiziarie; i primi anni, dopo la morte del padre, la curatrice dell’eredità era la madre Chiara Pisanu Denegri, che non potè pagare per difficoltà economiche; inoltre un inquilino, parente dei proprietari, utilizzò la casa lasciando un debito di 100 e più lire di affitto non pagato; pertanto Pasquale Denegri, pur ammettendo di dovere pagare il debito alla chiesa dei genovesi, chiese con l’atto del 1797 di poterlo saldare a rate.

Marcantonio Denegri, falegname proveniente dalla Liguria, si sposò nel 1751 con Chiara Pisanu; Pasquale era l’ultimo figlio, nato nel 1764, un anno prima della morte del padre.

Un’altra citazione di questa casa si ha nell’atto notarile del 08.07.1797, relativo alla vendita della casa Medail 2368: la casa confinante è detta di Chiara Pisanu, vedova di Marcantonio Denegri; una conferma arriva dall’inventario Ponsiglione, del 26.11.1802: la casa Ponsiglione, numero catastale 2368, confinava lateralmente con la casa di Pasquale Denegri.

Nel suo donativo non datato, Pasquale Denegri dichiarò la casa nella strada is Tagliolas di 2 piani e una bottega, con 8 stanze più la cucina; era affittata per 70 scudi annui e ne pagava 12 per un censo alla chiesa di Santa Caterina.

Con atto notarile del 17.02.1807, la casa di Pasquale Denegri della strada del Sepolcro fu assegnata in pubblica asta al notaio Antonio Cicalò per 852 scudi; era una casa alta, alle spalle dell’Ospedale di Sant’Antonio abate, davanti alla Fontana Nuova; già nell’agosto 1806, a seguito della causa mossagli dalla chiesa dei Nazionali Genovesi, il Denegri (che nell’atto del 1807 viene chiamato Tenente delle Porte) era stato condannato a pagare lire 765 e soldi 16; non avendo potuto pagare, si procedette alla vendita all’incanto; l’offerta migliore fu quella del notaio Cicalò, che agiva per conto di un suo “principale”, di cui non viene riportato il nome. 

In data 08.04.1807 il notaio Cicalò firmò l’atto di “perpetua cessione” della casa a favore del canonico Narciso Floris; dichiarò che il canonico l’aveva incaricato di concorrere all’asta per acquistare la casa del tenente Denegri, e aveva agito come “Testa di ferro, come si dice volgarmente”, per conto del canonico; aveva pagato 852 scudi più altri 70 scudi, 6 reali, 1 soldo, 6 denari, per le spese di deliberazione e per i periti che avevano stimato l’immobile; la stima era stata di lire 2610, soldi 16 e denari 3, pari a 1044 scudi e spiccioli.

Con atto del notaio Francesco Soro del 17.02.1810, il canonico Floris concesse la sua casa nella strada detta “La Fontana Nuova”, con la bottega, al negoziante Maurizio Arthemalle; in realtà questi la utilizzava da alcuni anni (probabilmente dal 1807), e non era stato stilato nessun contratto; poiché ci fu un ritardo nel pagamento del canone semestrale, 37 scudi, il Floris citò in giudizio l’inquilino minacciandogli lo sfratto; l’Arthemalle aveva la bottega ingombra di terraglie, non avrebbe potuto liberarla in fretta, per cui si raggiunse un accordo; Maurizio Arthemalle si impegnò a pagare a semestri anticipati, col patto che per un mese di ritardo il canone per quel semestre sarebbe stato raddoppiato; inoltre se il Floris, per i suoi motivi, avesse avuto necessità di liberare casa e bottega, avrebbe dovuto avvisare due mesi prima del termine della mezza annata e, in mancanza della liberazione della casa, l’Arthemalle avrebbe pagato da quel momento un doppio canone.

A metà ‘800 la casa apparteneva alla eredità del fu canonico Narciso Floris, amministrata dal canonico Francesco Floris.

 

2370     

Nel fascicolo di una lunga causa iniziata nel 1779, che vedeva contrapposti Lucia Uzzeri e suo marito Juan Domingo Gherzi e poi gli eredi di quest’ultimo, è inserito l’elenco dei beni del Gherzi; l’elenco non è datato, ma dovrebbe risalire al periodo 1789/1790; fra le case di sua proprietà c’è anche quella della strada Tagliolas, identificata con l’unità 2371, confinante da una parte con la casa del canonico Fulgheri Gallus (2372), e dall’altra parte con la casa (2370) del reverendo Fra Joseph Lay Mercedario; il dato è confermato da un atto notarile del 03.02.1797, già citato per la casa Denegri 2369, confinante da una parte con la casa Medail (2368), dall’altra con la casa (2370) del frate Lai mercenario (recte Mercedario); si hanno poche notizie su questo frate che faceva parte della famiglia Lay Piu (con i familiari condivideva alcune proprietà nella strada della Costa); il frate Giuseppe Lai era entrato in convento nel 1745, e in quella data aveva firmato il suo testamento di rinuncia ai beni, in favore della Comunità Mercedaria; era ancora in vita nel 1808. In atti del 17.02.1807 e del 17.02.1810, relativi alla casa Denegri/Floris 2369, la casa 2370 è detta del Convento di Bonaria dei Padri Mercedari.

A metà ‘800 la casa apparteneva alla “Cappellania Lai”: per cui furono rispettate le volontà testamentarie del frate: la comunità ne utilizzava la rendita per il mantenimento di altri religiosi. 

 

2371, 2372, 2373              

In data 07.08.1779 venne emessa dal Tribunale la sentenza per una causa civile le cui controparti erano Lucia Uzzeri e suo marito Juan Domingo Guersi (o Gherzi); i coniugi erano separati, non avevano figli, e il Gherzi venne condannato a “somministrare alla moglie gli alimenti”, intanto che si attendeva che il Tribunale ecclesiastico stabilisse se la separazione, voluta dalla moglie, fosse stata, o non, senza motivo; il Gherzi avrebbe dovuto dare alla moglie 2 reali al giorno per vitto e vestiario; tale sentenza venne confermata il 20.10.1784; nel frattempo il Gherzi scomparve, nessuno sapeva che fine avesse fatto, e nessuno lo avrebbe visto più; aveva un ricco patrimonio, avendo ricevuto l’eredità di uno zio, fratello di sua nonna materna, il canonico Giovanni Battista Fulgheri Gallus.

Fra le carte della causa è detto chiaramente che il matrimonio con Lucia Uzzeri, proveniente da famiglia di San Vito, non era stato gradito dalla famiglia Gherzi, e in particolare dallo zio canonico. Alla fine del 1784, in assenza del Gherzi, fu nominata sua curatrice la madre Geronima Simon.

Nel fascicolo della causa è allegato il testamento del canonico Fulgheri Gallus [1], fatto nella casa di abitazione (2372) nella strada de las Tallolas e pubblicato dopo la sua morte il 18.11.1775; il testamento comprendeva diversi legati a congregazioni religiose, in particolare al convento delle monache Cappuccine, e “3000 scudi per dare al carissimo nipote Gian Domenico Gherzi una rendita che gli permetta di mantenersi decentemente, essendosi sposato e non avendo una professione”; il canonico ordinò che ”600 scudi siano messi subito a disposizione del nipote dal suo curatore per investirli in qualche negozio”; lasciò inoltre allo stesso nipote una casa nella strada las Tallolas, contigua a quella abitata dallo stesso canonico, vendutagli da Bollolo [2], dove abitava nel 1775 la nipote Geronima Simon (madre di Gian Domenico Gherzi), che l’avrebbe abitata per la sua vita con i suoi familiari. Alla sorella Juana Maria Gallus (madre di Geronima Simon) lasciò 700 scudi e per tutta la sua vita le lasciò la casa contigua a quella dove lui abitava, comprata dai Padri Domenicani; a Geronima Simon lasciò 600 scudi, a suo marito dottor Giuseppe Gherzi 500 scudi. Altri beni sono legati alle monache cappuccine, altri alla “carissima nipote Pepica Gherzi, sorella di Gian Domenico, convittora nel monastero di Santa Chiara. A parte i legati, erede universale fu nominato il nipote Juan Domingo Gherzi.

Le case della strada is Tagliolas erano quindi 3, contigue, identificate con le unià 2371, 2372, 2373; la casa dove abitava il ricco canonico era quella centrale.

Nel fascicolo della causa è inserito anche l’elenco (databile 1789 circa) dei beni che “possedeva l’assente Domenico Gherzi, provenienti dall’eredità del canonico Fulgheri Gallus”, e fra questi: un magazzino nella strada di Monserrato; una casa nella stessa strada; un magazzino vicino a Porta Jesus; la casa (2371) di due piani alti nella calle de Tallolas, che aveva di spalle il cortile del convento di Sant’Antonio abate (2365), da una parte la casa dove abitava il canonico Fulgheri (2372), e dall’altra parte la casa del reverendo Joseph Lay Mercedario (2370); altra casa nella stessa strada (2373) di 3 piani alti, confinante di lato alla casa dove abitava il canonico Fulgheri Gallus (2372), e dall’altro una casa di donna Barbara Toufani (2374).

Data la scomparsa di Juan Domingo Gherzi, e dopo la morte dei suoi genitori, tutti i beni di famiglia restarono all’unica sorella del Gherzi, cioè la suora Pepica Gherzi del monastero di Santa Chiara; il dottor Giuseppe Gherzi, padre della suora e dello scomparso, morì nel gennaio 1789; fino a quella data fu lui ad amministrare i beni, essendo già morta la moglie Geronima Simon. Dal 1789 gli subentrò nell’amministrazione il convento di Santa Chiara, che si occupò di continuare la causa contro la moglie di Juan Domingo Gherzi, la quale, comprensibilmente, avrebbe voluto avere una parte delle fortune del marito. Con sentenza del 17.07.1806 si condannò il monastero a pagare la “quarta uxoria” a Lucia Uzzeri. Inoltre, nel conteggio di quanto dovutole, entrarono anche i beni ereditati da Gian Domenico dal padre Giuseppe Gherzi, nonostante suor Pepica Gherzi avesse dichiarato che da molti anni aveva saputo da persone “della sua massima confidenza e degne di credito” che il fratello era stato ucciso nella sua abitazione già dal 1784. Il tribunale non credette alla suora, per cui i beni di Giuseppe Gherzi entrarono nell’asse ereditario, visto che nel 1789 non era ancora stata ancora dichiarata la morte presunta di Juan Domingo Gherzi.

Nel donativo (senza data, ma presumibilmente del 1799) della reverenda madre Suor Pepica Gherzi, presentato dal suo procuratore reverendo Antonio Ignazio Stoquino, sono comprese due case nella contrada di is Tallolas, una di 2 piani alti con 10 stanze in tutto e il “sòttano”, affittata a lire 155 annue; l’altra di 3 piani altri con 8 stanze in tutto, più il “sòttano”, affittata per lire 87 e 10 soldi. Queste due case sono identificate con le unità catastali 2371 e 2373: non sono del tutto chiari i passaggi di proprietà, ma da altre fonti si sa che la casa 2372 già dal 1787 era una proprietà del negoziante Angelo Carcassi; egli è citato nell’atto notarile del 10.01.1792 con cui Paolo Pinna ipotecò i suoi beni, fra questi la casa 2700 che guardava davanti verso la casa che “era del fu canonico Gallus e oggi del neg.te Carcassi”; quest’ultimo atto non chiarisce la posizione della casa, vista la difficoltà di capire le affrontazioni delle case in una piazza irregolare come l’attuale piazza Savoia (anticamente is Tallolas o piazza della Fontana Nuova). La stessa considerazione si può fare per l’atto notarile del 24.08.1792 relativo alla casa Truffa 2351, anch’essa frontale alla casa del canonico Fulgheri Gallus, poi di Angelo Carcassi.

Con atto del 11.11.1792 il negoziante Salvatore Cocco cedette al canonico Luis Touffany la casa 2374, la stessa che il Cocco l’anno precedente aveva acquistato dalla contessa Barbara Touffany, sorella del canonico; questa casa, sita nella “calle de Sapateros o sea de las Tallolas”, confinava da un lato con la casa del negoziante Angel Carcassy che prima era del quondam canonico Gallus, e che perciò corrisponde alla casa 2373, che già nell’elenco dei beni di Domenico Gherzi, datato 1790 circa, veniva detta confinante a casa di donna Barbara Touffani; quest’ultimo documento sembra dimostrare che la casa Carcassi fosse quella col numero 2373; in realtà (come si vedrà più avanti) è possibile che il Carcassi, che aveva una famiglia assai numerosa, avesse come proprietà la casa 2372, e che occupasse come affittuario anche la casa confinante 2373.

Angelo Carcassi, negoziante proveniente da Albisola (SV), aveva sposato nel 1759 la diciottenne Maria Francesca Schivo, figlia del negoziante di Alassio (SV) Ignazio Schivo; fra il 1760 e il 1787 ebbero almeno 15 figli. Nel suo donativo del 21.06.1799 dichiarò la casa nella piazza Fontana Nuova, composta da due botteghe affittate per lire 80 annue, e due piani alti composti ognuno da sala, alcova, 4 stanze, e gabinetto; la casa era abitata dal proprietario, che l’abitava anche prima di acquistarla e pagava anche un affitto di scudi 60 annui, cioè lire 150; pagava inoltre 2 censi, alla suora Giuseppa Gherzi e all’azienda ex-gesuitica; il censo pagato all’Azienda Exgesuitica è spiegato in un atto del 1808, dove sono elencati i beni appartenenti alla Sacrestia di S.Teresa, provenienti da Legati Pii; fra questi c’era anche il piano terra della casa degli eredi Carcassi nella piazza della Fontana Nuova, per cui si riscuotevano 50 lire annue; per decreto Reale del 08.05.1807 i beni dei Legati Pii amministrati dall’Azienda Exgesuitica sarebbero dovuti essere ceduti al Seminario dei Missionari eretto nella chiesa di San Michele di Stampace.

Angelo Carcassi morì ab intestato (cioè senza aver fatto testamento) il 15.03.1806; il giorno 05.04.1806 il notaio Gian Luigi Todde diede inizio alla compilazione dell’inventario dei suoi beni, mobili e immobili; fra questi ultimi c’era la casa di abitazione della strada de is Taglioras, la stessa dove era morto il Carcassi e dove si era recato il notaio per l’inventario; la casa in realtà già dal 1805 era stata ceduta dal defunto a sua moglie Francesca Squifu (Schivo), allo scopo di restituirle la dote e quanto la donna aveva apportato al matrimonio, secondo i capitoli matrimoniali del 1759 e secondo due ricevute del 1795 e 1804, successive alla divisione delle eredità di suo padre Ignazio Schivo e di suo fratello Raffaele; il capitale da restituire a Francesca Schivo era di lire 7210 e 14 soldi; la casa fu valutata in lire 5847, soldi 13 e denari 10, e fu scritto nell’atto del notaio Todde che confinava da una parte e dall’altra con case della suora Josepha Ghersi monaca professa di Santa Chiara; da ciò si deduce che la proprietà Carcassi era la medesima casa dove aveva abitato il canonico Fulgheri Gallus, numero 2372; Carcassi l’aveva comprata per 2650 scudi dal dottore in diritto Joseph Guerzy, amministratore dei beni di suo figlio Juan Domingo Guerzi, con atto del notaio Antonio Bassu del 23.03.1787. 

Con atto del notaio Juan Luis Todde del 14.02.1806, Antonio Carcassi figlio di Angelo, come procuratore di sua madre Francesca Squivo (proprietaria della casa già prima della morte del marito), concesse in locazione il primo piano della casa di proprietà al Rettore di Villaputzu, Reverendo Dottore Don Ramon Castelli, nativo di Cagliari; il Reverendo anticipò 15 scudi per dividere una stanza in due, per permettere che nella casa vivesse anche sua madre donna Luisa Sanna.

Un atto notarile del 06.07.1806, relativo alla casa 2700, riferisce che detta casa aveva di fronte, dal lato della piazza, la casa che era stata del fu canonico Gallus, ed era in quell’anno degli eredi del fu negoziante Angelo Carcassi; la stessa informazione è fornita da un altro atto notarile, anch’esso relativo alla casa 2700, datato 27.12.1810.

A metà ‘800, dal Sommarione dei Fabbricati, risulta che le case 2371 e 2373 appartenessero all’Arciconfraternita del Sepolcro, mentre la casa 2372 apparteneva al barone Salvatore Rossi (1775-1856), che l’aveva in enfiteusi.



[1] chiamato anche Gallus Fulgheri o solo Gallus, o solo Fulgheri

[2] I Bollolo o Bogliolo, provenienti da Moglio frazione di Alassio (SV), arrivarono in Sardegna con Lorenzo, che si sposò a Cagliari nel 1695

 

2374     

Apparteneva a donna Barbara Toufani (1727-1795) che, alla morte del fratello Pietro Toufani (1721-1789) conte di Nureci e Asuni, assunse il titolo di contessa e lo trasmise al figlio Francesco Marramaldo Toufani (-1837).

Il primo riferimento rintracciato per questa casa è nell’elenco, più volte citato, dei beni di Gian Domenico Gherzi, del 1790 circa: una sua casa, identificata con l’unità 2373, confinava con una proprietà di donna Barbara Toufani.

Con atto del 12 dicembre 1791, la contessa Barbara Touffany la cedete al negoziante Salvatore Cocco: era una casa composta da 2 piani e da 1 sòttano sita in “calle de Sapateros osia de las Tallolas”; aveva davanti l’ospizio dei RR. PP Cappuccini del convento maggiore (2350), di spalle l’ospedale di Sant’Antonio (2365), da un lato la casa del negoziante Angel Carcassy che era del fu canonico Gallus (2373), dall’altro lato la casa del negoziante Angelo Truffa (2375).

Con atto notarile del 11.11.1792 il negoziante Salvatore Cocco la cedette per 500 scudi al canonico Luis Toufani (1723-1798), fratello di donna Barbara; il Cocco dichiarò di aver già ricevuto dal canonico la somma di scudi 500.

Il canonico Toufani morì alla fine del mese di aprile 1798; in quella data erano ancora in vita le sorelle Caterina, coniugata col piemontese Giorgio Andrea Turleti, e Francesca, suora nel monastero di S.Caterina; oltre alle due sorelle fra gli eredi c’erano i nipoti Marramaldo, figli della contessa Barbara.

Nel donativo presentato il 14.05.1804 a nome degli eredi Touffanj, venne dichiarata una casa nella strada “de las Tallolas” composta da 3 piani (due piani alti e terreno), con una bottega e una stanza in ogni piano; rendeva annualmente 80 lire in moneta sarda.

A metà ‘800 risulta che appartenesse alle sorelle Placida, Candida e Chiara (1831?-1907), figlie del fu Domenico Rossi, con la tutela della loro madre Lucia Foltz.

 

 

2375     

Apparteneva al negoziante ligure Angelo Truffa, citato nell’atto del novembre 1792 con cui Salvatore Cocco cedette la casa 2374; in questo documento è scritto che la casa confinante, appartenente al Truffa, era in precedenza della chiesa di S.Giorgio e S.Caterina, cioè dell’Arciconfraternita dei Genovesi; il Truffa è ancora citato come proprietario di questa casa in atto notarile del 10.08.1798, relativo allo spostamento di “carichi”, cioè ipoteche per le quali si era impegnata l’Arciconfraternita ligure, dalla casa del Truffa su altre tre case dell’Arciconfraternita, liberando così dai pesi la casa della strada de las Tagliolas. In questo atto viene riferito che Angelo Truffa, ex Priore e Amministratore della Chiesa, aveva acquisito la casa in enfiteusi in data 13.04.1786 col canone annuo di lire 75.

Vi sono documenti precedenti che fanno riferimento alla casa Truffa, anche se non permetterebbero, da soli, di identificare la casa: nel fascicolo di una causa civile del 1787 si legge che il negoziante ligure Angelo Truffa aveva dato la sua garanzia per una transazione commerciale; un testimone dichiarò che il Truffa era agiato e possedeva la casa di abitazione nella strada Sapateros, del valore di più di 2.400 scudi, per cui poteva rispondere adeguatamente alle richieste di denaro legate alla garanzia che aveva prestato.

Nei registri dell’Arciconfraternita di San Giorgio e Santa Caterina si legge quanto segue:

20.11.1791, “ il confratello Angelo Truffa si offrì di far venire a sue spese un nuovo simulacro di S.Caterina, in modo da non utilizzare più il solito simulacro di proprietà della marchesa Pasqua, la quale non permetteva che lo si custodisse nella chiesa, e costringeva i confratelli ad andare a prenderlo ogni volta in Castello nella casa Pasqua e poi a riportarlo.”;

18.11.1792, “Angelo Truffa avvertì dell’arrivo del nuovo simulacro della santa (Caterina) da lui ordinato a sue spese da Genova per la processione; chiese in cambio che la processione passasse sotto la sua casa ma la sua richiesta non fu accolta”.
Anni più tardi sorsero dei forti contrasti fra il Truffa e l’Arciconfraternita, tanto che il 21.11.1802, a seguito di una riunione, si decise che “se il signor Angelo Truffa non darà bonariamente la chiave per estrarre dal nicchio il simulacro della Santa Caterina, si faccia schiudere il detto nicchio, affinchè possa servire per la processione”.

Angelo Truffa abitava nella casa della strada Tagliolas ancora nel 1799: con atto notarile del 27 aprile chiese e ottenne 3750 lire in prestito dal negoziante Francesco Vodret; dovette ipotecare la casa per garantire la restituzione entro 3 anni e il pagamento del 5% annuo. Nell’atto è specificato che la casa era stata concessa in enfiteusi dall’Arciconfraternita di Santa Caterina per 1500 lire e il canone di lire 75 in data 13.04.1786; il Truffa l’aveva “riedificata” immediatamente e aveva speso lire 4308, ed a seguito di quelle spese il capitale enfiteutico di 1500 lire era stato spostato nell’agosto 1798 su altre 3 case della chiesa.

Con atto notarile del 03.07.1802 il negoziante Francesco Vodret cedette il censo capitale di £ 3750 e pensione annua di lire 187 e 10 soldi che pagava Angelo Truffa, con ipoteca sulla sua casa di abitazione della contrada is Tagliolas; il Vodret aveva fatto erigere, nella chiesa dei padri osservanti di Santa Rosalia, una cappella di marmo in onore di San Francesco d’Assisi, con tapezzeria di damasco e tutti gli ornamenti necessari; per questo motivo cedette il censo al figlio sacerdote Ignazio, con l’obbligo di celebrare una messa quotidiana per lui, per la moglie Grazia Isola, e per tutti i suoi discendenti.

Il 20.12.1805 “passò a miglior vita” senza aver fatto testamento la signora Chiara Demoro, moglie del negoziante genovese Angelo Truffa; lasciò 6 figli: Francesca di 29 anni, maritata col Capitano Raguseo Gio Antonio Gagliuffi (chiamato anche Nicolò Gio Gagliuffi), domiciliato nella città di Ragusa (non si tratta della città siciliana ma dell’attuale Dubrovnik sulla costa dalmata, in Croazia); Antonio di 22 anni, “storpio ed inabile a qualunque servizio, per causa delle convulsioni”; Anna Maria Teresa di 19 anni; Catterina (sic) Maria di circa 13 anni; Effisio (sic) di 10 anni, Giacomo Felice di circa 7 anni; In data 09.01.1806 il notaio Carlo Franchino Amugà si recò nella casa di abitazione dei coniugi Truffa, dove era morta Chiara Demoro, per effettuare l’inventario dei beni mobili e immobili; presenziarono all’inventario il vedovo con le due figlie Anna Maria Teresa e Caterina Maria e come testimoni Bartolomeo Mandis e il falegname Marco Antonio Mereu. Il totale dell’inventario fu di lire 41417, soldi 3 e denari 7, compresi crediti e debiti, e compresi gli immobili; fra questi ultimi una proprietà nella strada maggiore di Quartucciu valutata lire 2195 soldi 17 denari 6; una casa (2351) nella strada “de is Tagliolas, alias de sa Funtana noa”, valutata lire 6005 soldi2 denari 5; la casa di abitazione (2375) nella stessa strada, valutata in lire 5319, soldi 9, denari 5; due magazzini nel borgo di San Bernardo (nei pressi dell’attuale via Tigellio) valutati in totale lire 5468 e spiccioli.

Nel 1810 Truffa ebbe grosse difficoltà economiche: per pagare due pensioni enfiteutiche arretrate, in totale scudi 150, cedette per scudi 2240 (lire 5600) al sacerdote Ignazio Vodret, già suo creditore, i due magazzini che possedeva in Stampace, sobborgo San Bernardo.

In atto notarile del 26.10.1811 è scritto che il negoziante genovese Angelo Truffa, “a causa dei discapiti sofferti nel commercio, da molti anni illanguidito per essersi sospese le comunicazioni col continente, non è più in grado di continuare le sue speculazioni commerciali né provvedere alla sussistenza della sua famiglia”; perciò, con l’atto del 1811, egli vendette al nipote Filippo Piccaluga la casa che possedeva nella contrada “detta de sa Funtana Noa anticamente is Tallolas”, che Truffa aveva comprato in enfiteusi con atto del 13.04.1786, e col canone di lire 75, dal priore e dai guardiani della chiesa di Santa Caterina martire; la casa comprendeva “al primo piano una sala da ricevere con retrocamera, al secondo una sala con alcova, retrocamera con alcova, ed al terzo ed ultimo esiste una terrazza alla contrada, la stanza da pranzare, la cucina, e vi è un soffietto d’una sola stanza”; fu venduta per lire 6000 e furono pagate in contanti lire 2000; lire 1500 erano il prezzo dell’enfiteusi come da atto del 1786, con la pensione annua al 5%, cioè lire 75, da pagare alla chiesa di Santa Caterina; le altre 2500 lire rimasero onerate sulla casa "a frutto compensativo", con l’obbligo di pagare il 6% annuo, cioè lire 150, ad Angelo Truffa; egli destinò quest’ultima somma per i suoi figli Efisio e Felice Truffa, avuti colla sua defunta consorte Chiara Demoro.

Angelo Truffa, proveniente da Cogoleto (Genova), si era sposato a Cagliari nel 1776 con Chiara Demoro; rimasto vedovo, si risposò nel 1808 con Anna Palomba vedova Calderaro; morì alla Marina il 09.01.1825.

Filippo Piccaluga era nipote di Chiara Demoro; era infatti figlio del negoziante genovese Francesco Piccaluga (o Pittaluga) e di Serafina Demoro, sorella di Chiara.

A metà ‘800 la casa 2375 apparteneva al negoziante Agostino Vignolo (S.Margherita Ligure circa 1805-Cagliari 1886), figlio del fu Domenico; si ignorano eventuali legami di parentela con Filippo Piccaluga.

 

2376     

Il primo documento rintracciato che cita questa casa è un atto notarile del 23.09.1789, relativo alla locazione della casa 2377; la casa confinante 2376 apparteneva al poticario” Miguel Tuveri. Si ha conferma di quanto detto con l’atto notarile del 27.04.1799 relativo al censo concesso da Francesco Vodret ad Angelo Truffa, con ipoteca della casa 2375: la casa laterale, 2376, è detta del fu speziale Michele Tuveri; questi era figlio di Antioco Tuveri, “boticario” della villa di Forru (Collinas), e di Francesca Perpignano, di famiglia originaria di Palermo; Michele aveva sposato nel 1757 Anna Fundoni e morì nel 1798, lasciando i suoi beni alla figlia Speranza (1767 -1847) che nel 1783 aveva sposato don Carlo Paglietti.

Questa casa non è menzionata nel donativo del 1799 di Speranza Tuveri (e non è l’unica non dichiarata fra le case di sua proprietà); la spiegazione è che Michele Tuveri ne destinò l’usufrutto a sua moglie la quale, con atto notarile del 24.11.1804 cedette tutte le sue rendite alla figlia; la donna viveva con la figlia ed era da lei mantenuta; si tratta delle ultime notizie che si hanno di lei, probabilmente morì poco dopo; nel donativo del 1807 del Capitolo Cagliaritano la casa 2376 è citata in quanto frontale alla casa Cao 2363/c (l’unità senza numero fra 2348 e 2349), ed è ricordata come casa di donna Speranza Tuveri.

Altra citazione proviene dall’atto notarile del 26.10.1811, relativo alla vendita della casa 2375: una delle case confinanti apparteneva alla “dama donna Speranza Paglietti nata Tuveri”.

In una causa civile iniziata nel 1840, che vede la vedova Isabella Paglietti nata Nossardi citare la suocera donna Speranza Tuveri vedova Paglietti, è incluso un elenco dei beni immobili di quest’ultima, e fra questi c’è una casa di 2 piani e bottega nella piazza della Fontana Nuova; il patrimonio di Speranza Tuveri era davvero ingente, e la nuora chiedeva che contribuisse al mantenimento dei suoi figli “impuberi” Carlino, Speranza e Francesco: il rapporto fra suocera e nuora era sempre stato molto difficile, già dal momento del matrimonio fra Isabella Nossardi e l’avvocato don Raffaele Paglietti, che era vedovo e si risposò all'insaputa della madre.

Nel Sommarione dei Fabbricati la casa 2376 risulta appartenere, dopo il 1850, a don Gavino Paglietti (1822-), figlio del fu don Raffaele e della sua prima moglie, donna Francesca Scarpinati.

 

 

2377     

Era divisa anticamente in due case separate, come si può intuire dalla larghezza doppia rispetto a quella delle case confinanti.

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2377/a 

Con atto notarile datato 23.09.1789 Anna Carboni, vedova del falegname di Villanova Ramon Usai, concesse in locazione una casa (2377/a), sita nella calle de los Sapateros, al negoziante Miguel Vinchi (Vinci); Anna Carboni agiva come curatrice dei figli Juan Antonio, Rafaela, Basilio ed Efis Usay, secondo il testamento del marito, datato 25.04.1787; Miguel Vinci era un negoziante napoletano, e occupava già la casa che il defunto Usai aveva dato in affitto al defunto Ramon Lechis (Lecis), primo marito della moglie dello stesso Vinci.

Un atto notarile del gennaio 1792, relativo alla casa Palmas (2348/c) cita la casa dei figli del carpentiere Ramon Usai (2377/a), sita sull’altro lato della calle de los Sapateros.

Con atto del notaio Francesco Demontis, del 17.01.1805, venne eseguito l’estimo della casa 2377/a, a cura dei mastri Antonio Ferdiani carpentiere e Francesco Usai muratore; erano stati incaricati da fra Liberato Deidda, per parte del Convento di San Mauro, e dal patron Giuseppe Durzu; il Convento era proprietario della casa insieme agli eredi Pinna, il Durzu era interessato all’acquisto o alla enfiteusi; il collegamento fra gli eredi di Raimondo Usai e gli eredi Pinna, e l’interesse sulla casa del Convento di San Mauro sono chiariti solo parzialmente da atti successivi, ma la casa è ben identificata dai confini specificati nel documento: da una parte una casa della Comunità di Sant’Anna (2377/b), dall’altra una casa di donna Speranza Tuveri (2376), dietro il cortile del negoziante Chessa (2386), davanti una casa che era stata del rettore Bassu e poi del negoziante Hery (2348); fu stimata per lire 1159 e 5 soldi.

Con atto dello stesso notaio Demontis del 30.01.1805 la casa fu ceduta per 500 scudi al patron siciliano Giuseppe Dulzu (Durzu)[1]; i venditori erano il Convento di San Mauro e gli eredi Pinna, cioè Maddalena Pinna (coniugata con Pasquale Atzery) e Angela Lippi (coniugata con Salvatore Arrais); la prima agiva col consenso del marito, la seconda agiva senza il consenso poiché il marito era assente da Cagliari da più di un mese; nell’atto vengono riferite altre notizie: la casa era stata una proprietà della nubile Juana Mula la quale, nel suo testamento del 02.08.1764, aveva nominato usufruttuaria della casa 2377/a nella strada di is Tallolas la sorella Vissenta Mula, alla quale sarebbe subentrata la figlia maggiore; senza saperlo per certo, si può supporre che Vissenta Mula fosse coniugata con un Usai, tanto è vero che Juana Mula nominò esecutore testamentario il nipote, mastro Ramon Usai, forse figlio della sorella Vissenta (o forse figlio della figlia di Vissenta); in ogni caso, per queste disposizioni testamentarie, la casa divenne proprietà di Ramon Usai e poi dei suoi figli.

Fra il 1792 e il 1805 la casa 2377/a passò di mano dagli eredi Usai, nipoti di Juana Mula, agli eredi Pinna, probabilmente nipoti anch’essi di Juana Mula; questa affermazione è legata al fatto che il nipote Pasquale Pinna aveva avuto in eredità dalla zia l’usufrutto di una casa nella strada di Sant’Eulalia (casa 2916/b), la cui proprietà spettava però al Convento di San Mauro; il Convento aveva inoltre avuto un legato di 8 scudi annui da prelevare dai frutti della casa della strada de is Tallolas, che era affittata per 29 scudi annui.

Sorse una complicata lite fra il Convento e gli eredi Pinna e finalmente, in data 03.12.1804, si giunse a firmare una transazione che permise di vendere la casa 2377/a; valutata scudi 463 e 7 reali, fu venduta per 500 scudi di cui 300 andarono alle eredi Maddalena Pinna e Angela Lippi, e 200 andarono al convento; era una casa composta da un sottano e due piani alti, con i confini già specificati. Senza conoscere la genalogia di questa famiglia, si può solo supporre che le due donne fossero parenti strette, forse cugine.

Quindi Durzu acquisì la casa e la sopraelevò; infatti, nel suo donativo senza data (ma probabilmente del 1807), Filippa Russu denunciò per conto del marito Giuseppe Durzu, assente da Cagliari, una casa nella strada “detta de is Taglioras”, abitata dai proprietari, composta da 3 piani di 2 stanze ognuno ed un sotterraneo, che poteva essere affittata per 60 scudi. Non è possibile identificare la casa Durzu da queste indicazioni così scarne ma, nel donativo (anche questo senza data, probabilmente del 1807) della Comunità parrocchiale di Sant’Anna è compresa una casa nella strada degli Scarpari confinante da una parte con la casa del marmoraro Battistino Franco (la casa ex Arthemalle 2378), e dall’altra parte con la casa del negoziante Giuseppe Durzu; la casa di Sant’Anna è identificabile con l’unità 2377/b, già casa Lebio, mentre la casa Durzu è identificabile con l’unità 2377/a, ex Usai ed ex Pinna. Questa ipotesi è confemata dall’atto del 06.07.1808 con cui Giuseppe Chessa vendette la casa 2386, confinante sul retro con case della chiesa di Sant’Anna (2377/b) e di Giuseppe Durzu (2377/a); in quest’ultimo atto è scritto che la casa Durzu era in precedenza degli eredi Pinna.

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2377/b

Il primo riferimento rintracciato per questa parte proviene da un atto notarile del 24.06.1784, relativo alla casa Marramaldo 2386 che aveva alle spalle la casa del reverendo Juan Battista (recte Juan Francisco) Lebio.

Con atto del 19.06.1789 il negoziante Miguel Lebio ottenne 300 scudi a “censo onerativo” dal “marmolero” Juan Batta Franco; Lebio aveva intenzione di accomodare e sopraelevare la casa che possedeva in calle de Sapateros, in quanto l’ultimo piano era inservibile e inabitabile a causa del tetto che era molto basso e da riparare, e anche il piano basso aveva bisogno di lavori del muratore e del falegname. La casa Lebio, identificata con la parte sinistra, cioè seconda, dell’unità 2377, aveva davanti le case Palmas e Serra (2348/c e 2348/b), alle spalle il giardino di Joseph Quessa (2386) e l’ospedale (2365 e sue pertinenze), di lato la casa degli eredi del fu falegname mastro Ramon Usay (2377/a), e sull’altro lato una casa dei coniugi Paolo Maurizio Arthemalle e Maria Anna Pinna (2378). Miguel Lebio aveva ereditato la casa dagli zii reverendi Juan Francisco e Bartolomeo Lebio, dopo la divisione del 11.02.1789 con i suoi fratelli e altri eredi.

Un altro atto notarile del gennaio 1792, relativo alla casa Palmas (2348/c) cita ancora la casa Lebio in quanto sita sull’altro lato della calle de los Sapateros, e la casa Lebio è citata in atto del 15.02.1799 relativo alla casa Arthemalle. 2385.

Una diversa informazione arriva da un atto notarile del 18.12.1803, relativo alla casa Chessa numero 2386: questa confinava alle spalle, oltre che con proprietà dello Ospedale (2365) e con la casa Franco (2378), anche con una casa della Comunità di S.Anna, che si può identificare con la parte sinistra della casa 2377, cioè la casa ex-Lebio.

Non è stato rintracciato il documento che attesti il passaggio di proprietà, ma il dato è confermato da documenti successivi, cioè da atti notarili del 1805 e del 1808 relativi alle case confinanti, e dalle dichiarazioni per il donativo della stessa Comunità di Sant’Anna (senza data) e in quello del 1807 del marmoraro Gio Batta Franco, proprietario della confinante casa 2378.

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2377/a/b

La prima registrazione riportata nei dati catastali di metà ‘800 attribuisce l’intera unità 2377 al magistrato don Enrico Garau, figlio del defunto magistrato Raimondo Garau; una registrazione immediatamente successiva, databile 1854, attribuisce la ex proprietà Garau al negoziante di Laconi Giuseppe Melosu, che vi morì il 21.03.1874; la sua vedova Marianna Racchi morì il 09.01.1897, sembra nella stessa casa.

 



[1] Il cognome Durzu, apparentemente sardo, deriva dal cognome D’Urso, ben presente in Sicilia, in Campania, in Puglia, e non solo; la sua origine non sarda è anche dimostrata dalla sua poca diffusione nell’isola, al di fuori del capoluogo: dei circa 90 nuclei familiari presenti in Sardegna, il 90% circa è cagliaritano.

 

 

 

 

2378     

La prima citazione disponibile di questa casa è nell’atto già citato, del giugno 1789, relativo alla casa Lebio 2377/b, ed era di proprietà dei “giugali”, cioè coniugi, Paolo Maurizio Arthemaglie e Maria Anna Pinna.

Maurizio Arthemalle con atto notarile del 05.01.1792 ipotecò una casa che possedeva nella strada della Costa, identificata con l’unità 2385, che confinava alle spalle proprio con la casa 2378 di proprietà dello stesso Arthemalle; in questo atto è scritto che la casa 2378 apparteneva un tempo al defunto reverendo Giovanni Francesco Lebio, il medesimo proprietario della casa 2377. Appartenne a Paolo Maurizio Arthemalle fino al 15.02.1799, quando fu venduta a Gio Batta Franco regio scultore in marmo; nell’atto è specificato che era composta da 2 piani alti e da una bottega, e Arthemalle l’aveva comprata dal fu reverendo Gio Francesco Lebio il 17.01.1771 per 2055 lire; i suoi confini erano i seguenti: davanti la casa del reverendo Raimondo Bassu (2348), alle spalle una casa che era dello stesso Arthemalle, venduta pochi giorni prima allo stesso Gio Batta Franco (2385), di lato una casa degli eredi Lebio (2377/b) e dall’altro una casa che era prima dei padri Agostiniani (2379), poi del mastro conciatore Antonio Didaco Manca.

Giovanni Battista Franco, scultore e negoziante, la possedeva ancora nel 1822: si trovano sue notizie nel fascicolo di una lite civile iniziata nel 1803 fra lo stesso Franco e il negoziante Giuseppe Chessa a cui apparteneva la casa 2386, il cui giardino confinava con la casa 2378; il Chessa stava procedendo con degli importanti lavori edili sulla sua casa e, per sua stessa ammissione, aveva distrutto un suo splendido giardinetto pieno di alberi da frutto e fiori, con lo scopo di costruire 3 nuove stanze della sua casa, e aveva però oscurato alcune finestre del primo piano della casa del Franco, e avrebbe oscurato altre finestre più alte col proseguo dei lavori; nella causa intervenne anche l’ospedale, in quanto la costruzione del Chessa privava di luce anche alcuni ambienti dello stesso edificio ospedaliero. La causa si protrasse fino al 1807, ma non si chiuse definitvamente, tanto è vero che nel fascicolo è inserito un documento datato 26.09.1822 col quale il negoziante Giovanni Calb intervenne per chiudere la lite con il Franco, dal momento che aveva acquistato la casa 2386 del defunto Giuseppe Chessa.

Gio Batta Franco inserì la casa nella sua denuncia per il donativo del 13.08.1807, dichiarando che era composta dal piano terreno con la bottega, da due piani alti ciascuno di 4 stanze, e altri 2 piani ognuno di 3 stanze.

Giovanni Battista Franco, originario di Lanzo d’Intelvi, nei dintorni di Como, morì nel 1830; a metà ‘800 la casa apparteneva a suo figlio negoziante Giovanni, nato nel 1794.

 

2379      

Per questa unità catastale si ha un’ipotesi di proprietà che risale al 1705: in un atto notarile rintracciato nel fondo dell’Archivio Ballero (ASC), datato 13.08.1705, è riportata la vendita di una casa nella “carrera di Sant Antony abad”, cioè la strada della Costa, oggi via Manno, identificata con l’unità 2384/b (unità senza numero fra 2384/a e 2385), confinante per le spalle con la casa del reverendo Juan Maria Moreno, che doveva essere quindi la casa 2379.

Ovviamente, non essendoci conferme, rimane un margine di dubbio su questa attribuzione: le successive informazioni sono troppo lontane nel tempo e non ricollegabili a questo più antico proprietario.

E’ stata poi rintracciata una causa civile del 1784[1] relativa anch’essa con certezza alla casa 2384/b: i proprietari delle case confinanti erano cambiati, la casa alle spalle, numero 2379, apparteneva in quell’anno ai padri Agostiniani.

Conferme arrivano da un atto notarile del 1786, anch’esso relativo alla casa 2384/b: anche in quell’anno la casa 2379 apparteneva al convento Agostiniano; un altro atto del 1789, sempre relativo alla casa 2384/b, dice invece che la casa alle spalle, numero 2379, apparteneva in passato ai padri Agostiiani, ma in quell’anno era del mastro conciatore Antonio Diego (o Didaco) Manca, lo stesso a cui appartenevano alcune altre case nelle vicinanze (case 2302,2304, 2381).

In atto notarile del 31.01.1797, relativo alla casa 2380, la casa 2379 risulta appartenere ancora ad Antonio Didaco Manca, così come la casa 2381.

In un atto del 02.12.1798, relativo alla casa Serra/Bassu 2348/a/b, dette case avevano di fronte la casa che era del conciatore Mastro Antonio Diego Manca e poi di suo figlio dottor (Raimondo) Manca; in realtà l’avvocato Raimondo Manca abitava la casa che era rimasta di proprietà del padre Antonio Didaco; infatti altri atti notarili relativi alle case confinanti, del 1799 e del 1801, citano sempre il mastro conciatore come proprietario della casa; inoltre lo stesso conciatore Manca, nel novembre 1801, ipotecò la casa che aveva in “calle de Sapateros”, confinante alla casa di Battistino Franco (2378), la stessa casa che lui stesso aveva avuto in enfiteusi dal convento dei padri Agostiniani.

Nel loro donativo (senza data) i padri Agostiniani dichiararono di ricevere 50 lire di canone annuo dal mastro Antonio Didaco Manca per una casa datagli in enfiteusi; il marmoraro Gio Batta Franco, proprietario della casa 2378, dichiarò nel suo donativo del 13.08.1807 che detta casa confinava con quella dell’avvocato Raimondo Manca (2379), confermando l’utilizzo della casa da parte del figlio del conciatore.

Non si conosce l’esatta data di morte di Antonio Didaco Manca il quale, rimasto vedovo nel 1811 di Giuseppa Demelas, si risposò nel 1814 con Nicoletta Azzeri.

Nel dicembre 1811 egli cedette la casa ai nipoti Carboni Manca, figli della defunta figlia Narcisa e del defunto Stefano Carboni, come parte ereditaria della moglie Giuseppa Demelas.

Con atto notarile del 23.09.1813 il beneficiato e prodottore in teologia Giuseppe Carboni Manca e i minori Rita e Angelo Carboni Manca, assisititi dal loro curatore e zio Raimondo Carta, vendettero la casa 2379 al negoziante Sebastiano Floris; la casa, a loro consegnata 2 anni prima dal nonno Antonio Diego Manca come porzione dell’eredità dell’avola Giuseppe Demelas, eccedeva di 600 scudi la parte a loro spettante, e i fratelli Carboni Manca avrebbero dovuto pagare il frutto di quella somma, al 6%, agli zii Efisio, Francesca, Raffaela, Giuseppa Manca Demelas e al loro stesso avolo Antonio Diego Manca; preferirono quindi cederla; era composta da 3 piani alti e piano terreno, e fu acquistata dal Floris per 1800 scudi.

A metà ‘800 la casa 2379 apparteneva al notaio e cavaliere di Isili Giuseppe Fadda (1807?-1901), che aveva sposato nel 1836 Giuseppa Floris (1815?-1877), figlia di Sebastiano.

 



[1] ASC, Reale Udienza, Cause Civili, Pandetta 59, busta 8, fascicolo 32

 

2380     

In alcuni atti notarili relativi alle case 2348, (case Serra e poi Bassu), del 1787 e del 1790, si cita una casa del convento del Carmine come “frontera” di quelle case; la casa dei padri Carmelitani è identificata con l’unità 2380.

In data 31.01.1797 il mastro muratore Antonio Giuseppe Zedda cedette in enfiteusi al mastro calzolaio Giuseppe Murru per 900 scudi una casa nella strada degli Scarpari, che il Zedda aveva acquisito in enfiteusi il 04.11.1789 dal Convento del Carmine; era una casa con un piano alto, e due sottani, che egli aveva avuto per 800 scudi e il canone annuo di 40 scudi, con l’obbligo di farne 2 appartamenti in 4 anni; era chiamata casa Ghiani, confinante da ambe le parti con case del conciatore Antonio Didaco Manca (2379 e 2381), alle spalle con casa degli eredi Valle (casa 2384/bis).

In data 04.03.1799 il calzolaio Giuseppe Murru cedette in enfiteusi la stessa casa per 922 scudi e 8 reali al negoziante e conciatore Giovanni Schirru; era stata sopraelevata, aveva in quel momento 2 piani, ed era la stessa casa che il Murru aveva avuto in enfiteusi dal Zedda (o Sedda) e che quest’ultimo aveva avuto dai padri Carmeliti.

Lo Schirru è citato in atto del 10.01.1801, come confinante della casa Manca 2379; e viene citato anche nel donativo (senza data) del convento del Carmine, nel quale il convento dichiarò di ricevere un canone perpetuo su una casa della strada Scarpari dal conciatore Giovanni Squirru.

Analoghe citazioni sono state rintracciate in atti notarili del 1811 e 1813, ancora relative alla casa Manca 2379.

A metà ‘800 risulta che questa casa appartenesse ancora al convento del Carmine, che evidentemente ne aveva riacquistato pieno titolo.

 

2381     

Il primo documento che cita questa casa è l’atto di enfiteusi del 1797 relativo alla casa 2380, dove è scritto che quest’ultima confinava da una parte e dall’altra con case del mastro Antonio Didaco Manca, numeri 2379 e 2381.

Nel donativo dell’Arciconfraternita del Sepolcro, del 1807, è citato il conciatore Manca in quanto proprietario della casa frontale alla casa 2305 dell’Arciconfraternita, e il riferimento sembra adattarsi all’unità casa 2381.

Viene inoltre citata nell’inventario dei beni di Antonio Diego Manca e della defunta moglie Maria Giuseppa Demelas, datato 13.07.1811, voluto dal Manca per poter consegnare ai figli la loro porzione d’eredità materna; era una casa di 2 piani, un mezzo piano di una sola stanza, e il piano terreno, valutata lire 3537, confinante dai lati con la casa di Giuseppe Schirru (2380) e con la casa del sacerdote Simbula (2382), di spalle confinava col cortile dell’altra casa Manca (2379).

Con atto notarile del 19.12.1811 il Manca cedette la casa alla figlia Raffaela Manca Demelas, coniugata con Matteo Dodero; Raffaela morì pochi anni dopo, non risulta che abbia avuto figli; Matteo Dodero si risposò nel 1819 con Maria Melis di Uras.

Nel Sommarione dei Fabbricati risulta che, dopo il 1850, la casa 2381 appartenesse al Regio impiegato Nicolò Gorlero; potrebbe non essere un caso che una sorella di Matteo Dodero, Teresa, fosse coniugata dal 1767 con Domenico Gorlero, figlio di Nicolò, con tutta probabilità stretti parenti di quel Nicolò Gorlero proprietario della casa a metà '800.

 

2382     

Il primo documento che cita questa casa è del 18.04.1792 ed è relativo alla casa 2304, venduta dal sacerdote Francesco Perpignano al mastro Antonio Diego Manca: sull’altro lato della strada degli Scarpari vi era la casa degli eredi Simbula e Castagna, identificata con la casa 2382.

Si ha conferma di quanto detto da due altri atti notarili del 18 e 19 maggio 1797: si tratta dell’estimo e della vendita della casa 2383/a, che aveva di lato e alle spalle le case del negoziante Eligio Allemand (case 2383/b, 2384/a, 2384/b) e sull’altro lato la casa degli eredi del fu reverendo Antonio Simbula segretario della curia dell’Arcivescovado di Cagliari, morto almeno dal 1783.

Un atto notarile del 18.07.1784 fornisce informazioni sul reverendo Antonio Simbula, sui suoi eredi, e sui legami con l’eredità Castagna (senza fare riferimento alla casa di abitazione o proprietà): con atti notarili del 1763 e del 1764 don Giovanni Porcile si era onerato di due censi per il totale di 800 scudi con pensione al 6%, cioè 48 scudi che venivano pagati annualmente al sacerdote cieco Antonio Simbula, segretario della curia e della mensa arcivescovile cagliaritana; nel 1783, dopo la morte del sacerdote, le pensioni venivano pagate ai suoi nipoti, figli del defunto medico e fisico Francesco Simbula e della sua vedova Brigida Gargiulo; col citato atto del 1784 fu stabilita una modifica della percentuale della pensione, dal 6% al 5%; l’atto venne compilato dal notaio Francesco Angelo Randacio, alla presenza dei fratelli reverendo Giuseppe e Girolamo Simbula, domiciliati in Cagliari, che agivano a proprio nome e come procuratori delle sorelle Antonia, Teresa e Lucia Simbula assenti da Cagliari, e della loro madre Brigida Gargiulo, a sua volta tutrice e curatrice della figlia “pupilla” Maria Simbula e dell’assente figlio Bernardo Simbula; le sorelle Simbula (le 3 maggiori) erano coniugate e vivevano ad Afragola (NA), nel regno di Napoli; per poter ridurre la pensione fu necessario l’assenso del recettore delle cause pie, che amministrava l’eredità Castagna (o Castangia), dalla quale probabilmente proveniva il legato di cui era stato beneficiato il reverendo Antonio Simbula.

Con atto notarile del 19.10.1803, a rogito del notaio Bernardo Aru, il sacerdote Giuseppe Simbula, privo di risorse economiche “mentre si trova in uno stato infelice di miseria”, concesse due piccole case “in stato quasi di rovina”, al negoziante e mastro conciatore Didaco (Antonio Diego) Manca. Il sacerdote Giuseppe Simbuladi nazione napoletano” possedeva due case a titolo di cappellania lasciategli dal defunto zio sacerdote Antonio Simbula nel 1780.

Ciascuna casa era composta da un sotano e da un piano, situate nel sobborgo della Marina e strada denominata dei Calzolai, confinanti a sud con una casa dello stesso Didaco Manca (2381), a nord con casa del negoziante Eligio Allemand (2383/a). Le due case erano state stimate dal muratore Pietro Ligas e dal falegname Luigi Palmas per lire 2833 e 5 soldi, e Manca avrebbe pagato un canone annuo di scudi 68 (al 6%). Lo stesso giorno, a causa di urgentissime necessità del sacerdote, il Manca gli consegnò 408 scudi equivalenti a 6 annualità anticipate.

Dieci giorni dopo, il 29 ottobre del 1803, Didaco Manca concesse una delle casa in sub-enfiteusi al negoziante Raimondo Laconi, anch’egli mastro conciatore. Si accordarono per affrontare insieme le spese per demolire le due casette e ricostruirle con almeno due piani alti; Laconi avrebbe procurato un carro col suo giogo a sue spese, ma le giornate del carro e del “carratore” e il mantenimento dei buoi sarebbero state divise; i due conciatori si accordarono inoltre per dividersi il terreno in due parti di identiche dimensioni; Manca avrebbe avuto la casa nuova della parte meridionale, confinante con un’altra sua proprietà dove viveva suo genero Francesco Romagnino, mentre Laconi avrebbe avuto la casa a settentrione, confinante con la proprietà Allemand. Laconi inoltre pagò a Manca 204 scudi, pari alla metà già anticipata al sacerdote Simbula sulle prime 6 annualità.

Nei due atti del mese di ottobre 1803 non sono citati i fratelli e le sorelle del reverendo Simbula: evidentemente nel frattempo era diventato l’unico proprietario delle case, o per cessione dei diritti da parte dei suoi familiari, o per intervenuti decessi.

Sembra però che l’enfiteusi da parte del Manca e del Laconi non sia stata duratura: nel donativo del 24 agosto 1807 di Eligio Allemand, proprietario delle case 2383/a, si fa riferimento alla casa 2382 come appartenente al reverendo Giuseppe Simbula; la stessa informazione arriva da alcuni atti del 1811, relativi alle case Manca 2381 e 2304.

A metà ‘800 l’intera casa 2382 risulta appartene al sacerdote Domenico Riccardi, cappellano dei cavalleggeri.

 

2383/a e 2383/b                               

Vengono trattate insieme, in quanto hanno una storia comune, le unità 2383/a e l’unità senza numero all’angolo fra le strade della Costa e degli Scarpari, a cui si attribuisce il numero 2383/b: in due atti notarili del 1778 e del 1779, rintracciati nel fondo Ballero (ASC), e relativi il primo alla casa 2390, sull’altro lato della strada della Costa, il secondo alla confinante casa 2384/a, è scritto che entrambe queste due unità catastali appartenevano ai coniugi Luis Petricholi e Juana Massa; nell’atto del 1779 appena citato è scritto che la casa 2384/a confinava sia di lato (2383/b) sia di spalle (2383/a) con la proprietà di detti coniugi.

Si hanno numerose conferme da altri atti notarili: due atti del 1786 e del 1789, relativi alla casa 2384/a, citano la dama Massa; un atto del 1789 relativo alla casa 2389 cita il defunto cavaliere don Juan Bauptista Massa (che era il nonno di Juana Massa) come proprietario della casa 2383/a; in atto del 11.07.1793, relativo alla casa Picci 2299, è scritto che la casa sull’altro lato della strada del Calzolai (casa 2383/b) era della vedova dama Giovanna Massa.

La proprietà Massa fu venduta nel 1794 al negoziante Eligio Allemand, proveniente da Millaures nel Piemonte, già Delfinato di Francia; si occupò della vendita, per conto della vedova Massa, il commendator Bonaventura Cossu Madao; nell’atto è specificato che la casa era del dottore don Stefano (Gio Stefano) Massa, padre di Giovanna; in realtà, per volontà testamentaria  di don Stefano Massa, dopo la morte della figlia la casa sarebbe spettata all’Arciconfraternita della Vergine d’Itria; il 15.04.1801, dopo la morte di Giovanna Massa, si giunse a un accordo fra l’Arciconfraternita e l’Allemand che era pronto ad affrontare una causa civile per non perdere i diritti su un immobile che aveva riedificato e migliorato; venne pertanto ratificata la vendita.

Un atto notarile del 1810 riferisce di una disputa intorno alla eredità di Gio Stefano Massa: col suo ultimo testamento consegnato al notaio Gio Antioco Aru il 23.05.1763 e pubblicato il 11.11.1768, egli istituì eredi i figli don Giacomo, canonico, e donna Giovanna, col patto che i beni di don Giacomo sarebbero andati alla sua morte alla sorella o ai suoi eredi e, nel caso donna Giovanna fosse morta senza eredi, i beni sarebbero passati alla Arciconfraternita d’Itria, con lasciti ai religiosi Osservanti e ai religiosi Domenicani; effettivamente Giovanna Massa Masones morì senza discendenza, ma il testamento di Gio Stefano fu contestato da alcuni parenti Martì (donna Caterina, don Efisio, e donna Agostina, zia e nipoti) in quanto non teneva conto della parte legittima di don Giacomo e donna Giovanna, su cui non si poteva applicare la volontà testamentaria paterna. Con sentenza del tribunale del 30.06.1804 fu stabilito quanto dovevano ricevere gli eredi Martì, e con atto del notaio Giuseppe Isola del 02.08.1810 si giunse un accordo fra il sacerdote Bonaventura Puxeddu, Ricettore delle Opere Pie della Diocesi, e gli amministratori della Arciconfraternita d’Itria e dei legati Pii dei padri Osservanti e dei padri Domenicani, in relazione al testamento Massa, comprendente beni immobili in Castello, Villanova, Stampace, San Lucifero e La Marina, con riferimenti alla proprietà, in vicinanza della Porta Stampace, venduta al negoziante Eligio Allemand.

Da altri documenti risulta però che l’unità 2383/a era divisa in due case distinte, quella più in alto, confinante con l’unità 2383/b, apparteneva ai citati coniugi Petriccioli e Massa, la parte più in basso apparteneva a Gaetano Mura di Oristano; è quanto si deduce dai diversi documenti che seguono.

Il primo è datato 30.05.1780, rintracciato fra le concessioni enfiteutiche demaniali[1], ed è relativo all’ampiamento della casa Manca 2302, sull’altro lato della strada degli Scarpari; detta casa aveva davanti la proprietà di Gaetano Mura, coincidente con l’unità 2383/a o parte di essa.

Nel 1797 anche questa casa venne acquistata da Eligio Allemand, e unita alla proprietà ex-Massa che Allemand aveva già acquistato nel 1794: il 18.05.1797 si eseguì l’estimo della casa Mura, su richiesta di Eligio Allemand e del chirurgo Antonio Mura di Oristano, che agiva per sé e per conto dei fratelli Juan, Anna Luisa e Anna Maria Mura di Oristano; venne valutata £ 1797, 1 soldo e 8 denari; la casa si trovava in “calle de Sapateros, como se baja a Sant’Agustin y al Sepolcro”, aveva davanti la casa del Mastro adobador Antonio Diego Manca, di spalle e da un lato la casa di Eligio Allemand (parte alta dell’unità 2383/a e l’unità 2384/a), sull’altro lato la casa degli eredi del defunto reverendo Antonio Simbula (2382). Il giorno successivo la casa venne venduta, e nell’atto è specificato che i venditori fratelli Mura erano figli del defunto Gaetano, suoi eredi come da testamento del 16.11.1793. Comprendeva un primo piano e un “sòttano”, con la cisterna condivisa con la casa confinante, una sala e due stanze in alto; era la stessa casa che l’Arciconfraternita del Sepolcro aveva venduto ai coniugi mastro calzolaio Diego Pinna e Maria Usay il 29.01.1664, poi passò a Maria Teresa Zonquello, e dopo la morte di questa a suo figlio Gaetano Mura.

L’anno successivo, il 09.03.1798, Eligio Allemand si occupò di estinguere un peso di proprietà che ancora gravava sulla casa, e consegnò ai guardiani dell’Arciconfraternita del Sepolcro 219 lire, 19 soldi, 7 denari; è specificato nella ricevuta che si trattava della stessa casa che l’Arciconfraternita aveva ceduto ai coniugi Pinna Usai nel 1664, e che l’Arciconfraternita aveva avuto in eredità da Antonio Barray.

Nel suo donativo del 24.08.1807 Allemand denunciò la “casa grande” nella strada Sa Costa, sua abitazione, formata da 3 botteghe sulla Costa e 3 piani alti, ognuno con 9 stanze tra grandi e piccole; sulla strada Scarpari vi erano 3 magazzinetti e sopra due piccoli piani, ognuno di 2 stanze.

Eligio Allemand, vedovo di Maddalena Vargiu già dal 1800, cessò di vivere il 28.11.1809; non morì nella sua abitazione alla Marina ma in una casa della strada Dritta del Castello (via La Marmora), probabilmente abitazione della sua erede e unica figlia Marianna, la sola fra i suoi figli ad essere arrivata all’età adulta; sposata col conte Pietro Fancello, morì a 48 anni nel 1818.

Nel 1810 in queste case abitava sua figlia Marianna (1770-1818) vedova del conte Pietro Fancello (-1809): la notizia è riportata in un atto notarile del 27.09.1810, relativo all’altra proprietà Allemand 2387.

In atti del dicembre 1811 e del settembre 1813 tutta la proprietà apparteneva alla Contessa Marianna Fancello nata Allemand.

Dai dati catastali di metà ‘800 l’unità 2383/a risulta appartenere ancora a don Luigi e don Raimondo Fancello, figli di donna Marianna; non è chiara la situazione dell’unità 2383/b che nella pianta non ha un suo numero ma, dal momento che i Fancello possedevano anche l’unità 2384/a, è più che probabile che fosse inclusa nella proprietà familiare.



[1] ASC, Regio Demanio Affari diversi, Vol 203 num. 4, carta 57

 

2384/a e 2384/b                               

Vengono trattate insieme, in quanto hanno una storia comune, la casa 2384/a e la casa senza numero posta fra le unità 2384/a e 2385, alla quale si attribuisce il numero 2384/b.

Fra i documenti rintracciati, il documento più antico che riguarda queste due case è un atto notarile del 13.08.1705, del fondo Ballero (ASC): il negoziante genovese Francesco Cataneo e Maria Antonia Rustarello, coniugi domiciliati nella Marina, possedevano una casa con due cortili e due botteghe nella Marina, comprata (per loro conto) dal notaio Antonio Serra all’incanto pubblico, il 30.06.1704; la casa era del dottore Ephis Mazuci (Mazzuzzi) nella “carrera di Sant Antony abad”, e aveva davanti la casa di Juan Cotta, di spalle la casa del reverendo Juan Maria Moreno, da un lato la casa di Antioco Zurru e dall’altro la casa di mastro Antony Toco; i coniugi Cataneo Rustarello vendettero la casa ai coniugi Raimondo Alesani e Giovanna Maria Pedroti.

Da queste informazioni non sarebbe possibile capire quale fosse la casa oggetto della compravendita, ma da documenti successivi si sa che la casa Alesani della strada della Costa era quella col numero 2384/b; di conseguenza la casa Cotta era l’unità 2391, la casa Moreno la 2379; da altra fonte si sa che Antioco Zurru era proprietario della casa 2386, per cui si ipotizza che possedesse anche la casa 2385, e di conseguenza Antonio Tocco dovrebbe essere l’antico proprietario della casa 2384/a.

Le successive informazioni vengono da un atto notarile del 29.05.1779: si tratta di un estimo di una casa eseguito dal mastro carpentiere Francesco Cabras e dal mastro muratore Antonio Lochi (Locci), ambi di Cagliari, sulla casa che il negoziante Domenico Valle aveva comprato dal nobile don Nicola Cani con atto notarile del 07.10.1773 per 800 scudi; la casa, posta nella strada della Costa, corrisponde all’unità 2384/a, e aveva davanti la casa del mercante Joseph Rapallo (2391), di spalle e di lato la casa dei coniugi Luis Petricholi e dama Juana Massa (2383/a e 2383/b), e sull’altro lato la casa dei nobili reverendo Agostino, donna Juana e donna Caterina hermanos Alesani (2384/b); era composta da due piani alti e due piccole botteghe; venne eseguita la perizia sui lavori fatti eseguire da Domenico Valle, dopo l’acquisto, dal defunto muratore Juanico Lochi, padre del muratore Antonio incaricato dell’estimo.

Pochi anni dopo Domenico Valle acquistò anche la casa confinante 2384/b: il 20.07.1784 egli iniziò una lite civile con il mercante Angelo Carcassi; quest’ultimo venne convocato in tribunale, in quanto Domenico Valle voleva che il Carcassi lasciasse libera la casa che il Valle aveva di recente acquistato; il Carcassi sostenne che il Valle gli aveva promesso di lasciargli l’altra casa, ma il Valle non poteva concedergliela perché era l’abitazione della sua famiglia; la casa dove abitava Angelo Carcassi gli era stata affittata dalle precedenti proprietarie, le nobili sorelle Caterina e Juanna Alesani, le quali, unitamente ai nipoti barone don Juan Cachardi e don Luis Cachardi, figli questi ultimi di donna Angela Alesani, erano eredi del rispettivo fratello e zio, canonico Agostino Alesani, e di suo fratello don Juan Bauptista Alesani, tutti eredi del comune padre don Ramon Alesani. Erano proprietari di una casa in calle della Costa, stimata in 2841 scudi e 2 reali (corrispondente alla casa 2384/b) e la vendettero a Domenico Valle il 09.06.1784 per 2650 scudi; la casa confinava davanti con casa di Joseph Rapallo (2391), di spalle con casa dei padri Agostiniani (2379), da un lato con casa di Maurizio Artemalle (2385), dall’altro con casa del medesimo compratore Valle (2384/a). In data 10.01.1785 Angelo Carcassi venne condannato a lasciare libera la casa entro il mese di febbraio, giusto per il tempo di cercare un’altra casa.

Domenico Valle, nativo di Sestri Levante, aveva sposato Maria Grazia Guidon nel 1758; lei era di famiglia proveniente dalla Provenza, il nonno Antonio, nato a Cabriès, si era sposato a Cagliari nel 1705[1].

Domenico Valle morì Il 17.11.1786; nel suo testamento aveva nominato la moglie Grazia Guidon curatrice dell’eredità, ma la donna morì lo stesso giorno, prima di lui, e senza testamento, parrebbe d’un malore improvviso; gli eredi erano i figli, il baccelliere Raimondo[2], Angelo, Pasquale, Nicola, Pietro, gli ultimi 4 minori di 25 anni; il ventenne Angelo diventò il responsabile del negozio, sito nella stessa casa d’abitazione, in calle della Costa.

Immediatamente dopo la morte del Valle e della moglie venne redatto l’inventario dei loro beni; in particolare l’inventario delle merci del negozio (tessuti e altro) fu curato dal negoziante Giovanni Battista Gastaldi (la cui figlia Teresa sposò Pasquale Valle nel 1791); la loro casa nella calle della Costa, ossia di S.Antonio abate, vicina alla porta di Stampace, di tre piani alti, era formata da due case unite in una.

In data 14.09.1789 i fratelli Valle vendettero la casa dei loro genitori al negoziante Eligio Allemand; nell’atto è specificato che un magazzino della loro casa era di proprietà di donna Juanna Massa (il precedente proprietario della casa 2384/a, don Nicolò Cani, era imparentato con i Massa, che erano proprietari della casa confinante 2383/a; probabilmente era in passato un’unica proprietà suddivisa fra diversi eredi).

La casa era composta di un’entrata principale, sotterraneo, mezzanello, bottega; 5 camere nel primo e nel secondo piano e una cucina, la camera “di mangiare”, il terrazzo; venne esaminata e stimata dal regio misuratore Girolamo Massei, che sostenne che non era possibile dividerla in due abitazioni, perché era stata costruita per una sola famiglia, pertanto conveniva ai fratelli Valle venderla e trovarne una più piccola.

Con atto del 13.08.1790, le sorelle donna Caterina e donna Giovanna Alesani riconobbero di aver ricevuto 200 lire, cioè 80 scudi, dal mercante Eligio Allemand per il frutto maturato il 20 luglio sul capitale di 2000 scudi che era caricato sopra la casa da loro venduta al defunto Domenico Valle per 2650 scudi, di cui erano stati pagati 650 scudi il 31.01.1786; la casa (formata però da due case, ex-Cani ed ex-Alesani) venne venduta a Eligio Allemand per 4300 scudi, di cui 2300 pagati subito, mentre gli altri 2000 restarono caricati sopra la casa stessa.

Negli anni successivi vi sono diversi documenti che citano la proprietà Allemand, fra questi atti notarili relativi alla confinante casa Arthemalle (2385) e alla retrostante casa Manca (2379).

Come si è già detto nel precedente paragrafo, nel 1799 e nel 1807 Eligio Allemand dichiarò la casa grande nella strada della Costa, sua abitazione,che comprendeva le unità 2383/b, 2384/a, 2384/b, oltre alla casa 2383/a sulla strada Scarpari.

In data 09.09.1803 Eligio Allemand consegnò il suo testamento al notaio Efisio Melis che si recò per riceverlo nella casa di abitazione del testatore, nella strada della Costa.

Morì alle 4 del mattino del 28.11.1809 in una casa della strada Dritta nel quartiere Castello, probabilmente abitazione della figlia Marianna. Nel frattempo era morto anche il notaio Efisio Melis, le sue carte erano state affidate al notaio Efisio Piras Meloni; quest’ultimo si recò lo stesso giorno nella casa dove era morto l’Allemand, per la lettura del testamento.

Nel 1810 in queste case abitava sua figlia Marianna (1770-1818) vedova del conte Pietro Fancello (-1809): la notizia è riportata in un atto notarile del 27.09.1810, relativo all’altra proprietà Allemand 2387.

In atti del dicembre 1811 e del settembre 1813 tutta la proprietà apparteneva alla Contessa Marianna Fancello nata Allemand.

A metà ‘800 la casa 2384/a apparteneva al conte Efisio Fancello, al sacerdote Vincenzo Fancello e a donna Rita Fancello coniugata al conte Francesco Mossa, tutti figli del conte Pietro Fancello e di Maria Anna Allemand; non è chiara la proprietà della parte 2384/b, senza numero nella pianta ottocentesca, ma è probabile che fosse ancora tutt’uno con la casa 2384/a.

 



[1] I coniugi Valle Guidon sono citati da Pasquale Tola nel “Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna” stampato nel 1837-1838, in quanto genitori del canonico e poeta Raimondo Valle, loro figlio più grande; il Tola, senza specificarne la data, ricorda anche la morte dei coniugi, avvenuta lo stesso giorno.

[2] A Raimondo Valle, nato il 07.06.1761, sacerdote e poeta, Pasquale Tola dedica ben 3 pagine nel “Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna”; l’elenco delle opere poetiche del Valle occupa quasi una pagina del testo del Tola, il quale conclude: “.......dal che si vede che il Valle, se non fu perfetto nell’arte divina, non fu secondo a veruno nell’abbondanza della vena poetica… e dee tenersi in conto d’uomo benemerito della Sardegna”.

Leggo dal sito internet “Profumodisardegna”: “Raimondo Valle fu un ecclesiastico, canonico presso la cattedrale di Cagliari, e sempre coltivò la passione letteraria componendo un numero notevole di opere. Godette di una solida fama, fu benvoluto da Maria Teresa d'Asburgo-Este, regina di Sardegna, alla quale dedicò molti componimenti poetici, tradusse in italiano alcuni testi latini, fu socio di varie accademie. La gloria goduta in vita non gli valse, però, come raccomandazione presso i posteri".

Infatti, riferendosi in particolare al poema didascalico “I Tonni”, composto nel 1800, Giovanni Siotto-Pintor parla di "intollerabile poema".

Francesco Alziator (che aveva fra i suoi antenati Pasquale Valle, fratello di Raimondo), riferendosi a Raimondo Valle, ironicamente constatò che esistono individui per i quali  "l'abitudine a far versi è diventata ormai una seconda natura, tanto che potrebbero indifferentemente mettere in rima la caduta di Troia, la scoperta dell'America o l'elenco telefonico".

Il professore e scrittore Nicola Valle (che discendeva anch'egli da Pasquale Valle, fratello di Raimondo) ne operò una sorta di rivalutazione: infatti, pur giudicando "pesante ed involuto" lo stile degli endecasillabi, ritenne che ne “I Tonni” sia possibile trovare anche "versi non privi di finezza".

 

 

2385     

Nel precedente paragrafo si è citato l’atto notarile del 1705, nel quale le case confinanti con la casa numero 2384/b risultavano di Antioco Zurru e di mastro Antonio Tocco (2384/a); si è già detto che Antioco Zurru era il proprietario della casa 2386, e si può quindi ipotizzare che possedesse anche la casa 2385, oppure che all’inzio del secolo XVIII ci fosse un terreno ancora non edificato, magari un giardino, al posto della casa 2385; non è stato rintracciato il collegamento fra Antonio Zurru e i proprietari successivi.

Dall’atto del 20.07.1784 relativo alla casa Valle ex-Alesani (2384/b), la casa 2385 risulta appartenere al negoziante Paolo Maurizio Arthemalle, e il dato è confermato anche da altri due atti dello stesso anno relativi alla casa Marramaldo 2386, e dagli atti di estimo e vendita del 1789 della casa Valle.

In data 05.01.1792 Paolo Maurizio Arthemalle acquistò in enfiteusi una vigna dai padri Carmeliti e, per garantire il pagamento della pensione annua, ipotecò la sua casa in calle della Costa (2385), che aveva davanti la casa Scarpinati (2417), di spalle una casa dello stasso Arthemalle, ex casa Lebio (2378), di lato la casa Allemand ex-Valle (2384/b) e dall’altro lato la casa Marramaldo (2386); era la stessa casa che in precedenza apparteneva al fu Michele Strof, venduta in pubblica asta il 21.04.1766 al procuratore Ambrosio Sciacca; quest’ultimo agiva per conto dell’Arthemalle, il quale l’acquistò dallo Sciacca con atto notarile del 01.05.1766.

In data 04.02.1797 Paolo Maurizio Arthemalle caricò sulla casa un’altra ipoteca per avere in prestito 500 scudi dal cavalier don Giuseppe Rapallo; gli necessitava quella somma per pagare alcuni debiti e coltivare alcune vigne.

All’inizio del 1799 Arthemalle decise di vendere la casa e, per farlo agevolmente, il 20 gennaio spostò l’ipoteca, la cui pensione si pagava ai padri Carmeliti, dalla casa della Costa su altre case che possedeva in calle del Fortino; con atto del 21.01.1799 vendette la casa 2385, formata da 2 piani e 1 bottega, a Gio Batta Franco regio scultore in marmo, per lire 5000, deducendo però la somma di lire 109, soldi 7 e denari 6, che veniva pagata a don Giuseppe Rapallo per il censo di lire 1250 (500 scudi); come si è già detto, a metà febbraio vendette allo stesso Franco anche la casa 2378 sulla strada is Tagliolas.

Nel suo donativo del 13.08.1807 Gio Batta Franco denunciò le due case della strada is Tagliolas e della Costa; quest’ultima era composta da una bottega con una stanza interna, e due piani alti ognuno di 3 stanze; valeva scudi 3800 ed era utilizzata dal proprietario; se affittata avrebbe potuti rendere scudi 100 annui; confinava da un lato con la casa Allemand (2384/b), sull’altro lato con la casa di Giuseppe Chessa (2386, ex Marramaldo), davanti aveva la scalinata attigua alla casa di don Giuseppe Rapallo (2391) e di spalle la casa dello stesso Franco (2378). L’ultima citazione utile proviene da un atto notarile del 06.07.1808, relativo alla confinante proprietà Chessa: il proprietario della casa 2385 era ancora il “marmoraro” Gio Batta Franco.

A metà ‘800 la casa 2385 apparteneva al negoziante e cappottaro greco Cristoforo Pachi (Paci) che vi aveva la casa e la bottega di merci.

 

2386     

In data 15.02.1782 Carlo Marramaldo diede in affitto per 6 anni, al negoziante Giuseppe Chessa, una casa di sua proprietà, grande ed “ensostrada” (con piani alti sopra il piano terreno), sita nella strada della Costa, corrispondente al numero catastale 2386 della mappa di metà ‘800; il Marramaldo morì il 21.06.1784, senza discendenti diretti; il 17 luglio di quell’anno venne compilato l’inventario dei suoi beni e, a seguito della divisione dell’eredità del 01.10.1784, la casa pervenne ai nipoti Francesco e suor Maria Grazia Marramaldo, figli del suo defunto fratello Agostino e della contessa Barbara Toufani.

In data 13.11.1784 i fratelli Marramaldo Toufani vendettero la casa, stimata lire 5577, a quel Giuseppe Chessa che già la abitava; aveva di lato la casa Arthemalle (2385), dall’altro lato una casa di Eligio Allemand (2387), davanti la casa Scarpinati del Capitolo Cagliaritano (2417); nell’atto è specificato che era la stessa casa che il fu Francesco Marramaldo, nonno dei venditori e padre di Carlo e Agostino Marramaldo, aveva comprato con atto notarile del 01.10.1739 dai coniugi notaio Antonio Porcu e Angela Zurru e da altri eredi dei coniugi Esperança Escano e Antiogo Zurru; il nome di Antioco Zurru è presente in atto del 1705, citato per la casa 2384/b: una casa confinante con quest’ultima risultava appartenere in quell’anno ad Antioco Zurru; si può ipotizzare che egli possedesse sia la casa 2385, sia la casa 2386, oppure che all’inzio del secolo XVIII ci fosse un terreno ancora non edificato, magari un giardino, al posto della casa 2385, e quindi il confine con l’unità 2384/b sia da riferire alla casa 2386.

Francesco Marramaldo, nel suo testamento del 08.03.1750, aveva nominato suoi eredi i figli Carlo, Agostino, Antonio e Matteo; aveva anche disposto che i beni di Carlo, a cui spettò la casa 2386, se fosse morto senza figli sarebbero passati ai figli di Agostino.

Sono stati rintracciati diversi documenti, degli anni successivi, che citano la casa 2386: due atti notarili del 1789 relativi alla casa Lebio 2377, confinante alle spalle col giardino della casa Chessa; un atto notarile del 1790 relativo all’affitto di una grotta della casa Scarpinati (2417), nel quale è scritto che davanti vi era la casa che era del fu Carlo Marramaldo; un atto del 1792 relativo alla casa Arthemalle (2385) che ancora cita (con poca precisione) il fu Carlo Marramaldo e i suoi eredi come proprietari della casa confinante; un altro atto del 1797, anch’esso relativo alla casa Arthemalle, dove si cita giustamente il mercante Giuseppe Chessa; un atto del 1798 relativo alla casa Scarpinati 2417, di proprietà del Capitolo, che ancora cita il fu Carlo Marramaldo; i due atti di vendita delle case Arthemalle (2385 e 2378), del 1799, dove è citato il mercante Giuseppe Quessa.

Chessa è inoltre citato nel donativo del 23.06.1799 di Antioca Cavassa Marramaldo che dichiarò la rendita di lire 62 e 10 soldi proveneniente da un censo di lire 1250 caricato sulla casa da lui abitata.

Con atto notarile del 18.12.1803 Giuseppe Chessa ipotecò la sua casa, comprata nel 1784 dagli eredi Marramaldo, per garantire la restituzione di 1000 scudi avuti dalla vedova Angela Tatti di Villacidro, curatrice dei figli avuti col fu suo marito Juan Santu Cadoni; Chessa avrebbe pagato gli interessi al 5%, cioè 50 scudi.

Nel suo donativo (non datato, presumibilmente del 1807) Joseph Quessa dichiarò la casa di abitazione nella strada della Costa (o di Sant’Antonio abate): era composta dal piano terreno con una bottega, 3 stanze e un sotterraneo, due piani alti ciascuno di 4 stanze e la cucina; se affittata avrebbe fruttato lire 300, cioè scudi 120; pagava un censo di 1000 scudi al 5% agli eredi di Juan Santus Cadony di Villacidro, e un altro censo di 500 scudi (cioè lire 1250) al 5% a donna Antioga Cavassa nata Marramaldo Toufani.

E’ ricordato anche nel donativo di Eligio Allemand, del 24.08.1807, come confinante della sua casa, numero 2387; è nominato nel donativo del Capitolo Cagliaritano, anch’esso dell’agosto 1807, in quanto la casa 2386 era di fronte alla casa Scarpinati 2417, di proprietà del Capitolo; infine, è nominato nel donativo di Gio Batta Franco, del 13.08.1807, in quanto confinante della casa del Franco, numero 2385.

Proprio col Franco iniziò nel 1803 una lite giudiziaria a causa di importanti lavori di ampliamento della casa Chessa: quest’ultimo voleva erigere 3 nuove stanze e per farlo (detto da lui stesso) aveva distrutto il suo “splendido giardinetto pieno di alberi da frutto e fiori”; con la nuova costruzione aveva però danneggiato il Franco, privando di luce alcune finestre del primo piano (della casa 2378 sulla strada is Tagliolas), e avrebbe privato di luce alcune altre finestre del piano superiore; intervenne nella lite anche l’ospedale di S.Antonio, in quanto le fondamenta della “fabbrica” del Chessa distavano dall’ospedale solo 13 palmi, e “priverebbe di luce la camera anatomica dove sogliono fare operazioni di parti sottilissime, e priverebbe di ventilazione un ambiente inquinato dalle esalazioni putride dei cadaveri, e la camera d’infermeria delle donne”. La lite andò avanti col Chessa sino al 1807, non se ne conosce l’esito: una delle ultime carte, datata 26.09.1822, cita l’intervento del negoziante Giovanni Calb che intendeva chiudere la questione con il Franco, dal momento che era proprietario della casa dell’ormai defunto Giuseppe Chessa.

Infatti, con atto del notaio Sisinnio Antonio Vacca del 06.07.1808, il negoziante Giuseppe Chessa vendette la casa per 3000 scudi al negoziante Giovanni Calb (Kalb); la vendita comprendeva anche diversi materiali (da costruzione) “non ancora messi in opera”: evidentemente le opere edilizie del Chessa erano state bloccate, almeno fino a quell’anno; il cortile posteriore, annesso alla proprietà, arrivava alle case confinanti sul retro e comprendeva l’area fra la casa del marmoraro Gio Batta Franco e l’ospedale, due stanze del quale si affacciavano sul cortile Chessa, “destinate una alle donne ammalate e l’altra per l’anatomia”.

Nell’atto del 1808 viene ripercorsa la storia recente dei passaggi di proprietà: il Chessa l’aveva comprata il 13.11.1784 da Francesco Marramaldo Touffani (poi conte di Nureci), da Suor Maria Grazia Marramaldo Touffani religiosa di Santa Chiara, e dalla loro madre Donna Barbara Touffani, per lire 6250 delle quali pagò subito lire 1250; avrebbe versato le altre 5000 entro 10 anni, con interessi al 5%, e le pagò con ricevute del 07.08.1796 e del 30.08.1801. Al momento della vendita a Giovanni Calb la casa era ipotecata per scudi 1000 avuti da Giosanto Cadoni di Villacidro il 20.09.1796, per altri scudi 1000 avuti dallo stesso Cadoni il 17.01.1790, e per altri scudi 1000 avuti da Antioca Tatti vedova del Cadoni il 18.12.1803. Chessa giurò di non avere altri debiti, a parte 182 scudi da pagare alla moglie Raffaela Uda, ricavo della vendita di una porzione ereditaria di una casa.

Con atto notarile dello stesso giorno il Chessa vendette al Calb tutte le merci della sua bottega (probabilmente situata nella stessa casa 2386): “drappi, stoffe, pannine, telerie” eccetera, per il valore di lire 3210 e 10 denari; Chessa disse che “non potendo per le sue corporali indisposizioni, incomodi di salute, e debolezza di forze, continuare nel suo mestiere, ed esercire da sé la vendita delle merci della bottega, e non convenendo ai suoi interessi di eseguirla per mezzo d’altri, ha stimato bene di disfarsene e venderle”.

Un atto del notaio Ignazio Marras, datato 15.11.1808, riferisce di alcuni fatti, conseguenza delle vendite appena citate: Raffaela Uda era stata “poco contenta” della nuova sistemazione degli affari di suo marito, cioè della cessione della casa e della bottega; volendo tutelare i 182 scudi che facevano parte della sua dote, provenienti dalla vendita fatta nel 1797 al fratello Raffaele Uda della porzione di casa ereditata dalla madre Rosa Atzeni, “si ritirò quindi a casa del fratello, riponendovi delle robe di suo marito, a sua insaputa e senza il suo consenso, tutte robe acquistate dal marito prima del matrimonio”. Il Chessa intanto, a suo dire, aveva seri problemi di salute; aveva bisogno di continua assistenza ma la moglie non era disposta a dargliela e gli aveva suggerito di “ritirarsi in casa dei coniugi mastro Antonio Ferdiani e Lucia Sanna, essendo Lucia Sanna sorella di Rosa Sanna prima moglie del Chessa; lei (la Uda) si sarebbe ritirata a casa del fratello Raffaele” (nella strada di Sant’Agostino). Il Chessa andò a vivere quindi in Stampace, a casa dei coniugi Ferdiani Sanna, i quali “lo accolsero volontariamente e con quella amorevolezza e affezione che non ha potuto meritare dalla detta sua moglie, ora che (il Chessa) è in decrepita età”. In data 11.02.1797 Giuseppe Chessa e la moglie Raffaela Uda avevano consegnato al notaio Ignazio Marras il loro testamento congiunto, scritto nella loro casa della strada della Costa; si erano nominati eredi a vicenda ma, con i cambiamenti nel frattempo intervenuti, il Chessa decise di modificare le disposizioni date; per cui il 15.11.1808 firmò l’atto di donazione di tutti i suoi residui beni a favore dei coniugi Antonio Ferdiani e Lucia Sanna; tenne per sé solo 100 lire, “che si riserva poter testare diversamente, ma senza disposizioni si intenderanno (dopo la sua morte) anche quelle donate a detti coniugi”.

Non si hanno molte notizie sulla sua famiglia; non risultano discendenti, perché sarebbero stati nominati nel testamento e nell’atto di donazione: lui era nato a Cagliari nel 1737, figlio di Ignazio Chessa e Anna Pilia; si era sposato in prime nozze con Rosa Sanna, in seconde nozze nel 1796 con Raffaela Uda, figlia di Ignazio e di Rosa Azeni.

Giuseppe Chessa finì i suoi giorni nel quartiere di Stampace il 03.10.1810; morì improvvisamente, senza poter ricevere i sacramenti, e fu sepolto nella chiesa del Carmine; il parroco Salvatore Pias consegnò il certificato di morte e il giorno 8 ottobre il notaio Ignazio Marras si recò in casa di Raffaela Uda, nella strada di Sant’Agostino (presso il fratello Raffaele, casa numero 2338) per leggere il testamento scritto dai coniugi nel 1797; dovette anche faticare per recuperare i testi che erano stati presenti alla consegna: poté convocare Lorenzo Romagnino e Nicolò Valle, mentre Giuseppe Monleone “è rifugiato [1] in una chiesa di questa città”, Matteo Dodero “è ammalato in casa”, Efisio Manca “si trova nel villaggio di Pirri, prendendo bagni di morto” (bagni con i Sali del mar Morto?), Priamo Dodero, Luigi Rocca e Giambattista Raggio erano morti. Presenziò alla lettura del documento il nipote del Chessa, Girolamo Prefumo.

Non si fa cenno, in quest’atto dell’ottobre 1810, alle disposizioni diverse che il Chessa aveva dato, anche se era stato lo stesso notaio Marras a raccoglierle nel 1808; in realtà il testamento non era annullato, ma il Chessa aveva donato tutti i suoi averi ai coniugi Ferdiani Sanna che lo avevano ospitato, cosa che di fatto rese pressoché inutile il testamento del 1797.

In atto notarile del 18.08.1825, con cui il conte Efisio Fancello vendette la sua casa 2387, viene citato il negoziante Giovanni Galbia (cioè Calb o Kalb) in quanto proprietario della casa 2386, laterale e posteriore alla casa 2387 del Fancello: il giardino del Calb arrivava sino al fabbricato dell’ospedale.

Infine nel 1837 sorse una lite fra Giovanni Calb, sua moglie Rosa Calderaro, e il loro genero Giuseppe Doneddu (coniugato nel 1836 con Clara Calb): i coniugi Calb e Calderaro si erano separati, lei era alloggiata nella casa del Doneddu in contrada Sant’Agostino; a seguito della separazione il 16.03.1838 venne eseguito l’inventario dei beni “mobili e stabili” di Giovanni Calb, nella casa e bottega della strada della Costa, per un totale di £ 6546, soldi 2, denari 4; il 27.09.1838 Rosa Calderaro era intanto andata a vivere a Quartu, e pretendeva che il genero Doneddu (nipote del ricco notaio Raimondo Doneddu) le restituisse gli indumenti rimasti nella sua casa, probabilmente trattenuti dal genero come indennizzo per le spese affrontate per ospitare la suocera.

A metà ‘800 la casa 2386 risulta appartenere a Elia Piras (1814?-1867), negoziante nativo di Tiana, figlio del fu Luigi. 



[1] Non si hanno informazioni sul motivo per cui il Monleone fosse “rifugiato” in una chiesa cittadina; non si hanno neppure notizie per identificare più esattamente questa persona, anche se è probabile che si tratti di un commerciante che abitava nel 1797 nella casa 2417, esattamente davanti alla casa Chessa

 

 

2387     

Anche questa casa apparteneva al ricco negoziante Eligio Allemand; se ne ha notizia dal 1784, nella divisione dell’eredità del defunto Carlo Marramaldo, e nell’atto dello stesso anno con cui gli eredi Marramaldo vendettero la confinante casa numero 2386.

Vi è poi una citazione in un atto notarile del 11.02.1792, relativo alla vendita della casa 2416: la casa sull’altro lato della strada della Costa era del negoziante Allemand, che in quest’occasione è chiamato per errore Luis anziche Eligio.

Eligio Allemand denunciò la casa nei donativi del 1799 e del 1807; in realtà erano due piccole case con l’entrata in comune: una aveva una bottega al piano terreno e due piani, ognuno con 3 stanze, aveva di fronte la casa Rapallo 2416, di lato la casa Chessa (2386) e sull’altro lato l’altra parte della casa Allemand, di spalle il giardino di Chessa; la seconda aveva un piccolo “sòttano” e due piani, ognuno di 2 piccole stanze, di fronte c’è la casa Rapallo, di lato la casa Allemand appena descritta, sull’altro lato e di spalle l’ospedale Sant’Antonio; la prima casa valeva 1750 lire, e fruttava all’anno 190 lire, la seconda ne valeva 500 e fruttava 75 lire.

Con atto del notaio Gioachino Carro del 27.09.1810, la contessa Marianna Allemand vedova Fancello, figlia del fu Eligio, si accordò col mastro muratore Gio Agostino Argiu di Stampace per far eseguire dei lavori nelle due case che possedeva nella contrada della Costa, non lontane dalla sua abitazione (2383 e 2384); che si tratti dell’unità 2387 lo dimostra il riferimento alla “muraglia” fra quelle case e l’ospedale, su cui occorreva lavorare per elevare il tetto; la contessa avrebbe speso 1200 lire, da pagare in 3 rate: 500 lire subito, 350 a metà lavori, altre 350 alla fine, e dopo il collaudo; fu stabilito di completare l’opera in 3 mesi.

Con atto notarile del 18.08.1825 i fratelli Fancello, figli della defunta Marianna Allemand (1770-1918), vendettero a Francesco Antonio Rossi due case nella strada della Costa; si trattava della casa numero 2390, di cui si parlerà più avanti, e di una parte della casa 2387; i confini di questa sono i seguenti: davanti la casa degli eredi Rapallo (2416) e casa del Capitolo (2417), alle spalle il giardino della casa Galbia (Calb, ex casa Chessa 2386), di lato la stessa casa di Giovanni Galbia (2386), sull’altro lato la porzione della stessa casa che era in passato degli stessi venditori e che era stata già venduta ai fratelli negozianti Antonio e Francesco Rocca dalla contessa Marianna Allemand Fancello (casa 2387/b); la casa in vendita aveva l’entrata e la cisterna in comune con la casa Rocca; la contessa Marianna (morta nel 1818) l’aveva ipotecata in data 02.05.1817, unitamente alla casa 2390, per 2000 scudi avuti dallo stesso Rossi; per vendere entrambe le case (2387/a e 2390) venne spostata l’ipoteca su un’altra casa che gli eredi Fancello possedevano nella strada Barcellona (2941).

Due mesi più tardi, il 27 di ottobre, Francesco Antonio Rossi vendette al negoziante Francesco Arthemalle Rapallo per scudi 2000 la casa 2387/a, da pagare in 15 anni, e col patto che venissero pagati 100 scudi annui. Francesco Arthemalleoccupa già il piano terreno ossia la bottega come affittavolo, ed è buon amico e compadre di Rossi; la casa si compone di 2 piani superiori ed uno terreno, e di 2 sotterranei inservibili, con la cisterna ed entrata comune con la casa laterale, di pertinenza dei negozianti fratelli Francesco ed Antonio Rocca (2387/b)”.

A metà ‘800 la casa 2387 risulta avere due proprietari: una parte, presumibilmente la seconda, era di Rosa Carneglias [1] vedova di Antonio Rocca l’altra parte era del negoziante e cappottaro greco Giorgio Sugliotti. 



[1] Rosa Carneglias (1803-1867) era figlia di Antonio e di Francesca Arthemalle Rapallo, quest’ultima sorella del negoziante Francesco Arthemalle Rapallo.