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ISOLATO I: Scarpari/S.Agostino/Fontana Nuova

(via Dettori, via Baylle, via Savoia, piazza Savoia)

numeri catastali da 2348 a 2364

La pianta dell’isolato è rimasta sostanzialmente quella originaria, con l’eccezione di alcune case, sul lato di piazza Savoia, che sono ora arretrate rispetto alla vecchia linea, altre che sono ora unite a formare una sola casa; dal confronto dei documenti rintracciati con i registri catastali di metà ‘800, e con le mappe catastali coeve ai registri, si riscontrano delle irrisolte contraddizioni che portano a constatare, una volta di più, la poca esattezza delle mappe antiche, relativamente alle dimensioni delle singole unità catastali e ai confini fra le case, in particolare in quelli posteriori; vi sono quindi dei punti non chiariti, e dei dubbi che riguardano tutto l’isolato, con incertezze sull’attribuzione dei rispettivi proprietari; nell’ipotesi quindi che le mappe catastali di metà ‘800 presentino alcune inesattezze, e che possano essere errati alcuni numeri proposti dal registro del catasto, si propone la ricostruzione che segue.

 

 

2348

Era divisa anticamente in 3 case distinte.

Il primo documento rintracciato che cita una delle 3 parti è l’atto del 26.08.1786, divisione dell’eredità del defunto Gaspare Perpignano: uno degli eredi era il nipote Francesco Serra, figlio del dottore in “arti e medicina” Giovanni Battista Serra e di Maria Angela Perpignano, figlia di Gaspare, morta nel 1778; a Francesco Serra spettarono 2 case contigue (identificate con le prime due frazioni, a e b, partendo dall’alto, dell’unità 2348), nella strada detta de Sapateros, che avevano davanti una casa del convento del Carmine (2380), da un lato la casa di don Juan Antonio Borro (2364), dall’altro lato e di spalle una casa del Capitolo (2363).

Da un atto del 19.06.1789, relativo alla casa Lebio 2377 (parte sinistra), risulta che le due case davanti a quella appartenessero una al negoziante Pasquale Palmas (2348/c), e prima era del convento di San Domenico, l’altra a Francesco Serra (2348/b).

In data 13.04.1790 Francesco Serra Perpignano vendette entrambe le case di sua proprietà, ereditate dal nonno Gaspare Perpignano, al reverendo Ramon Bassu, Rettore della villa de Mandas; il 17 di marzo erano state stimate per lire 1766 dal capo mastro muratore Sebasiano Puddu; la prima casa (2348/a) si componeva di due piani alti e una bottega, era frontale alla Porta di Stampace, percorrendo la calle de las Tallolas e o de San Agustin, e anche alla casa del Carmine (2380) e confinava da una parte con casa di don Juan Antonio Borro (2364), dall’altra parte con l’altra casa che era del fu Gaspare Perpignano (2348/b), di spalle con casa degli ex-gesuiti (2363); la seconda casa (2348/b) aveva due piccole botteghe e una entrata in mezzo per salire a un piccolo piano alto, ed era contigua alla casa precedente (2348/a), dall’altra parte e di spalle a casa degli ex-gesuiti (2363) (quest’ultima nell’estimo viene detta casa del Capitolo, forse acquistata dall’azienda ex gesuitica).

Non si può certo dire che i notai di quegli anni brillassero per precisione: è più chiaro e risolutivo un atto del 04.01.1792 con cui il negoziante di Cagliari Pasquale Palmas vendette la sua casa (2348/c) “ensostrada”, cioè con piani alti sopra il terreno, sita davanti a casa degli eredi Lebio (2377, parte sinistra) e a casa degli eredi Usai (2377 parte destra), confinante di spalle e di lato con casa che era di Perpignano, poi di Serra e poi di Raimondo Bassu (2348/b), e sull’altro lato con casa del Capitolo Cagliaritano (2363); il Palmas l’aveva comprata dal convento dei padri Domenicani per 500 scudi, in data 08.10.1788, e la vendette allo stesso Raimondo Bassu, già proprietario delle due case ex-Serra.

La casa di Pasquale Palmas doveva essere più piccola, meno profonda delle case limitrofe (2348/b e 2363), e queste ultime confinavano fra loro per la parte posteriore, facendo sì che la casa Palmas venisse a volte trascurata al momento di specificare i confini.

Il reverendo Bassu fu proprietario dell’intera casa 2348 per diversi anni: con atto del 02.12.1798 la ipotecò per avere 300 scudi in prestito dallo scultore Battistino Franco; in quell’occasione venne specificato che era rettore di Mandas, ma originario di Cagliari. Nel suo donativo del 24.06.1799, presentato dal suo procuratore avvocato Antonio Efisio Carta Bassu, dichiarò di possedere una casa di 3 piani con 14 stanze, abitata da familiari, da cui avrebbe potuto ricavare 110 scudi se l’avesse affittata.

In data 27.02.1801 il reverendo Bassu firmò la procura al nipote avvocato Antonio Efiso Carta Bassu per vendere la casa della strada degli Scarpari, laterale a quella appartenente a don Gianantonio Borro (2364); era gravata da un peso di scudi 500 la cui pensione era pagata al Convento dei padri Domenicani, e da altro peso di stessa somma verso i padri Carmelitani; fu venduta il 02.05.1801 al negoziante Francesco Heri; nell'atto relativo a questo passaggio di proprietà è ripercorsa tutta la sua storia: 2 parti erano state ereditate da Francesco Serra dal nonno Gaspare Perpignano, con atto di divisione col cugino sacerdote Francesco Perpignano; dette case furono vendute dal Serra il 13.04.1790 al reverendo Bassu, che acquistò il 04.01.1792 dal negoziante Pasquale Palmas un’altra casa contigua (2348/c), che il Palmas aveva comprato dai padri di San Domenico il 08.10.1788. Pertanto il 02.05.1801 il reverendo Bassu vendette al negoziante Francesco Heri dette 3 case, site nella strada degli Scarpari ossia de is Tagliolas, che erano “ridotte in un solo dominario”, confinanti davanti alla strada per cui si va alla porta di Stampace, da un lato ed alle spalle con casa di don Gio Antonio Borro (2364), e sull’altro lato della strada con una casa del conciatore Antonio Didaco Manca (2379).

Nel donativo dei padri Domenicani del 16.08.1807, venne dichiarata una pensione di 75 lire, su un capitale di 1250 lire, pagata dal reverendo Raimondo Baxu per una casa nella strada degli Scarpari, confinante con una casa del Capitolo; il riferimento è alla casa 2438/c, quella che apparteneva a Pasquale Palmas; sembra poco credibile che il censo gravante su questa casa fosse rimasto in carico al reverendo Baxu che aveva venduto la casa 6 anni prima, per cui si può ipotizzare anche in questo caso una imprecisione del compilatore del donativo, che aveva “scordato” il passaggio di proprietà a Francesco Heri; però, oltre al censo di proprietà dei padri Domenicani restò sulla casa anche la proprietà censuarua di scudi 300, posseduta dal 1798 dal marmoraro Battistino Franco: in data 10.05.1803, fra il Franco e il rettore Bassu fu firmato l’atto notarile per la “luizione” e cancellazione totale di quel censo, acceso sulla casa della strada de is Sabbateris (cioè degli Scarpari); in quella occasione il rettore pagò i 300 scudi al Franco, più 30 scudi per due pensioni arretrate (ogni pensione annuale di 15 scudi, al 5%) più scudi 9, soldi 5 e denari 5 per la pensione ultima di mesi 5 e giorni 9.

Nel donativo del 13.08.1807, presentato da Gio Batta Franco, egli dichiarò che la sua casa 2378, con facciata nella strada di is Tagliolas, aveva davanti la casa di Francesco Heri; nel donativo del Capitolo Cagliaritano del 15.08.1807, venne denunciata la casa Cao, nella strada is Tagliolas (2363/b e 2363/c), confinante di lato con casa di Francesco Heri (2348/c); questi acquistò la casa Cao il 01.12.1807.

Il negoziante Francesco Heri (o Hery), proveniente da Briançon (Francia, dipartimento delle Alte Alpi), si era sposato a Cagliari nel 1790 con Caterina Mirello e nel 1795 in seconde nozze con la vedova Maria Anna Schivo (1769-1848); morì nella sua casa di abitazione (2348) della strada de Sapateros (o is Tagliolas), non lontano da Porta Stampace, il 30.03.1808. Scrisse il suo ultimo testamento il 22.03.1808, con un “codicillo” di 6 giorni dopo; non ho rintracciato i due documenti, ed è probabile che siano stati insinuati molto in ritardo[1]; il 25.04.1808, su richiesta della vedova Maria Anna Schivo, il notaio Francesco Angelo Randachu diede inizio all’inventario dei beni del defunto, ma ancora a fine settembre non era completato e fu chiesta una dilazione di due mesi che fu concessa, come ultima, dai magistrati competenti; fra gli immobili inventariati compaiono solo la casa di abitazione (l’intera casa 2348) e quella posteriore ad essa (numero catastale 2363, a cui si rimanda); la casa 2348 fu stimata dal mastro muratore Antonio Vicente Manca e dal mastro carpentiere Antonio Ferdiani in lire 8009 e soldi 5.

In atti notarili del 1811 e del 1813 ci si riferisce alla casa 2348 come quella della vedova Marianna Heri nata Schivo.

A metà ‘800 l’unità catastale 2348 aveva diversi proprietari: il sacerdote Raimondo Frau Heri (figlio di Giovanni Frau Porcu e di Francesca Heri, figlia di Francesco), e le figlie di Francesco Heri, cioè Chiara maritata con Efisio Frau Porcu (fratello di Giovanni), e Rita vedova Vacca; i tre eredi risultavano comproprietari di un’unica proprietà indivisa; parti separate appartenevano a Teresa Crobu monaca di Santa Chiara (1787-1871), che vi aveva una casa con bottega, e al negoziante di Ischia Giovanni Califani, che morì in quella casa (allora al numero 21 della via Scarpari) il 23.10.1867, a 68 anni; il 25.09.1886 vi morì a 86 anni la sua vedova Carmina Pugliese, anch’essa nativa di Ischia. 



[1] L’inventario fu iniziato nell’aprile del 1808, fu continuato per diversi mesi e inserito fra gli atti insinuati del mese di maggio del 1809; forse anche il testamento e il codicillo possono trovarsi fra gli atti del 1809, ancora da ricercare.

 

2349

Da un atto notarile del 27.04.1799, relativo alla casa 2375 della contrada de is Tagliolas, risulta che la casa di fronte, numero 2349, appartenesse al negoziante Salvatore Cocco. Il dato è confermato da due atti del dicembre dello stesso anno, relativi alle case situate alle spalle della casa Cocco.

Il 16.12.1800 i coniugi Salvatore Cocco e Annica Usai, domiciliati alla Marina, “di età avanzata ma ancora sani di salute”, senza figli, consegnarono il loro testamento al notaio Raimondo Piras; il Cocco destinò i suoi oggetti personali ai suoi fratelli Lussorio e Francesco e alla sorella Isabella, che vivevano in Quartucciu e Quartu; Annica Usai lasciò i suoi oggetti personali a sua sorella Francesca e alla serva Bernarda Pintus, che viveva con i coniugi da più di 20 anni.

L’usufrutto della casa dove vivevano, in “calle de los Sapateros”, è lasciato alla stessa Francesca Usai, che avrebbe dovuto convivere con la serva Bernarda Pintus se questa non si fosse sposata; la casa era composta da un sottano e due piani alti, ed era stata acquistata durante il matrimonio; dopo il decesso di Francesca Usai sarebbe spettata alla Arciconfraternita del Sepolcro, di cui i coniugi erano confratelli.

Nel donativo del Capitolo Cagliaritano, datato 15.08.1807, il Cocco risulta ancora proprietario della casa 2349, confinante con la casa Cao del Capitolo (2363/C); in data 28.01.1808 i coniugi Cocco Usai consegnarono al notaio Raimondo Piras un altro testamento; non si conosce la data del loro decesso.

Il negoziante Salvatore Cocco è ancora citato in atto notarile del 26.10.1811, relativo alla casa Truffa 2375, posta di fronte alla casa 2349. 

A metà ‘800 apparteneva al negoziante Francesco Brouquier che vi morì il 07.01.1872 all’età di 74 anni.

 

2350

Due atti notarili del 1792, uno di agosto e l’altro di novembre, e un atto del gennaio 1806, relativi il primo e il terzo alla casa Truffa 2351, il secondo alla casa Touffani 2374, fanno riferimento alla casa 2350 come appartenente all’ospizio dei padri Cappuccini del convento maggiore.

A metà ‘800 apparteneva ancora al Convento maggiore dei frati Cappuccini.

 

2351

Nell’inventario dei beni del canonico Giovanni Battista Fulgheri Gallus, databile 1789, la casa del canonico, numero 2373, aveva davanti una casa che era dei padri Gesuiti, identificabile con l’unità 2351.

Con atto notarile del 24.08.1792 il mastro muratore Francesco Magnetto e il mastro falegname Marco Antonio Mereu firmarono una ricevuta di £ 2696, soldi 14, denari 8 in favore del negoziante Angelo Truffa, che aveva pagato i lavori di riedificazione e ingrandimento nella sua casa in calle de las Tallolas, identificata con la casa numero 2351; aveva davanti la casa del negoziante Angelo Carcassi che prima era della eredità del canonico Fulguery Gallus (2373), di spalle una casa del Capitolo (2360), da un lato una casa dell’ospizio delle Cappuccine (recte Cappuccini) (2350), dall’altro lato una casa di don Luis de Pany (2352); il Truffa l’aveva comprata per £ 3385 dalla Azienda ex-gesuitica il 22.08.1791.

La casa è citata ancora nell’atto del 09.01.1806, inventario dei beni della defunta Chiara Demoro, moglie di Angelo Truffa; in quell’occasione fu valutata lire 6005, soldi 2, denari 5.

Con atto del notaio Carlo Franchino Amugà del 24.03.1808, Angelo Truffa formò una società col notaio cagliaritano Francesco Soro per gestire una “stamperia” nella sua casa della strada is Tagliolas (2351), di fronte alla casa di sua abitazione (2375); i due soci crearono un fondo di 500 scudi e Soro mise a disposizione le attrezzature, che già possedeva; nella casa avrebbe abitato il lavorante della stamperia con la sua famiglia; fu stabilito un affitto di 40 scudi annui.

A metà ‘800 apparteneva al Convento dei padri Minimi di San Francesco.

 

2352

Era la casa di don Luis (de) Pany, citato nell’atto dell’agosto 1792 relativo alla casa 2351; un altro atto notarile del 19.09.1793, relativo alla casa Lixi/Schivo (2353), riporta i proprietari “ab antiguo” della casa confinante 2352, cioè i coniugi don Thomas Depany e donna Anna Cara, e riporta anche il proprietario del 1793, cioè il dottore don Luis Depany; dovrebbe trattarsi del giudice della Reale Udienza Luigi Pani o Depany, figlio appunto del dottore in diritto don Thomas Pani.

In atto del gennaio 1806, relativo alla casa Truffa 2351, la casa 2352 è detta “degli eredi del fu don Luigi Pani[1].

A metà ‘800 apparteneva a Filippo Altea [2]. 



[1] Aldilà dell’uso dei cognomi Pani o Pany o Depany, da considerarsi assolutamente intercambiabili, sono stati rintracciati dei dati contraddittori relativi a questo proprietario; si legge in “Giacobini moderati e reazionari in Sardegna” di Vittoria Del Piano, che il giudice don Luigi Pani (1744-) era figlio di Thomas e di donna Pepa Cara (Cara Massa); il primo dubbio è quindi sul nome della madre: Pepa o Anna? La confusione nasce forse dal fatto che don Luigi Pani sposò nel 1769 donna Anna Maria Carboni Borras, e da atto notarile del 1784 si sa che era vedovo e amministratore delle due figlie “impuberi” donna Maria Annica e donna Pepica Depany y Carbony; per cui è forse lecito pensare che l’atto notarile del 1792, in cui si parla di Anna Cara, dia un’informazione errata. Secondo la fonte prima citata (Giacobini moderati…..) don Luigi Pani era ancora in vita nel settembre del 1806, quando venne nominato “giudice nella Sala di Supplicazione”; però nell’atto citato del 09.01.1806, la casa 2352 è detta “degli eredi del fu don Luigi Pani”; nel sito www.araldicasardegna.org è riportata la morte, avvenuta in Castello nel 1810, di un don Luigi Pany, mentre nel registro dei defunti della parrocchia di Sant’Eulalia è stata rintracciata la morte, nel 1802 di un don Luigi Pani. Viene quindi il sospetto che vi fossero due omonimi, entrambi nobili; il proprietario della casa 2352 potrebbe essere morto quindi nel 1802.

[2] da identificare probabilmente col giudice don Filippo Altea Sotgiu, originario di Tempio, deceduto il 24.12.1855, il quale aveva altre proprietà in città

 

 

2353

Da un atto notarile del 08.02.1779, relativo alla casa 2696 sull’altro lato della piazza, la casa 2353 è indicata come appartenente agli eredi di Giambattista Russuy; questa attribuzione sembra non ricollegarsi con quanto è scritto in due atti notarili del gennaio e del maggio 1792, relativi entrambi alla casa 2358, confinante di spalle “con casa che prima era di Joseph Aleman e ora degli eredi del quondam Vicente Lixy”, identificata appunto con l’unità 2353; in un terzo atto dell’ottobre 1792, relativo alla casa Degioannis 2354, è scritto che quest'ultima  confinava di lato con quella che era del defunto Vicente Lixy, posseduta dai suoi eredi; in altro atto del novembre 1801, relativo alla casa 2357, è confermato che quest'ultima confinava di spalle, così come la 2358, con casa “che era del quondam Joseph Aleman e oggi degli eredi del quondam Vicente Lixi”; come si vedrà più avanti, l’informazione di questo atto è però da ritenere ormai superata, forse semplicemente copiata da atti notarili più datati.

Dal confronto con altri documenti si riesce a trovare un collegamento fra Russuy, Aleman e Lixi: gli ultimi due sono ricordati in un atto notarile del 19.09.1793 col quale il negoziante Raffaele Schivo aveva acquistato in enfiteusi perpetua la casa 2353: apparteneva ad Antonia Angela Solinas di Orani che, in quanto assente, aveva nominato suo procuratore il dottore in diritto Juan Maria Siotto, anch’egli di Orani; era una casa di due piani più il piano terreno col magazzino, e si affittava per 105 scudi annui; nel 1793 era stata fortemente danneggiata dalle bombe francesi e la proprietaria, non disponendo dei soldi per farla riparare, aveva pertanto deciso di venderla; nell’atto venne specificato che si trattava della stessa casa che il defunto negoziante Vicente Lixy aveva comprato nel 1768 dai coniugi Geronima Sotgiu Gabrieddu e Joseph Alemand; il Lixy, nel suo testamento del 31.12.1772, la legò a Baquis Russuy, figlio di Antonia Angela Solinas, la quale ereditò la casa in quanto il figlio, morto prima della madre, la nominò erede universale nel suo testamento del 17.03.1779; nell’atto del 1793 vengono riportati i proprietari delle case confinanti, sia quelli ”ab antiguo” sia quelli del 1793 [1].

Per far “quadrare” tutte queste informazioni occorrerebbe capire che parentela esisteva fra Giambattista Russuy (nominato nel documento del 1779) e Baquis Russuy; l’ipotesi che sembra più probabile è che fossero padre e figlio, per cui parrebbe corretto quanto riportato nell’atto del febbraio 1779, cioè che la casa appartenesse agli eredi di Giambattista Russuy, cioè alla sua vedova Antonia Angela Solinas e a suo figlio Baquis Russuy; essi però non la ereditarono dal marito e padre defunto ma da Vincente Lixi, il quale era con tutta probabilità uno zio o un prozio[2].

Il negoziante Raffaele Schivo (Squivo, Squifo, Esquivo) era l’unico figlio maschio del negoziante Ignazio Schivo (la cui famiglia proveniva da Alassio) e di Maria Giuseppa Abraham (famiglia proveniente da Trapani e, più anticamente, dall’isola di Creta); Raffaele morì celibe nel 1795 all’età di 45 anni; eredi erano la madre (che morì ottantaduenne nel 1805) e le numerose sorelle; sono state rintracciate alcune notizie sulla sua casa nel fascicolo di una causa civile (p. 54/55, b. 1891, f. 21325), da cui si apprende che le eredi Schivo nel 1796 convinsero il negoziante Bartolomeo Sciaccarame (che era sposato con Rita Schivo, una delle eredi), “a farsi carico della casa” che era gravata da alcune ipoteche per le quali si era impegnato il defunto Raffaele; era stata danneggiata dal bombardamento francese del 1793 e Sciaccarame si occupò di ripararla e vi si trasferì in quell’anno, nonostante i contrasti sorti col cognato notaio Giuseppe Gabba, marito di Maddalena Schivo (vedi casa 2308 per ulteriori notizie). Raffaele Schivo aveva acquistato la casa in enfiteusi perpetua da Antonia Angela Solinas di Orani il 19.09.1793, con l’obbligo di pagare ogni anno 115 scudi di pensione, e pagare subito 500 scudi per ripararla; con atto notarile del 12.02.1796 la vedova Giuseppa Abraham, madre di Raffaele Schivo, e le sorelle di quest’ultimo, cedettero a Bartolomeo Sciaccarame la casa nella strada Tallolas, ma l’atto non venne firmato dai coniugi notaio Giuseppe Gabba e Maddalena Schivo, per contrasti col cognato Sciaccarame, e dai coniugi Francesco Heri e Anna Maria Schivo, assenti per ragioni di salute; si dovette comunque arrivare alla cessione, visto che Bartolomeo Sciaccarame, nel suo donativo del 24.06.1799, dichiarò di possedere una casa sita nella strada delle Tagliole (con errata traduzione, visto che Tallolas equivale a carrucole), composta da una bottega che avrebbe potuto rendere se affittata lire 62, e due piani alti con 7 stanze in ognuno, il primo piano affittato per lire 100, il secondo abitato dalla famiglia del denunciante, e una eventuale rendita di lire 150 di affitto; era gravata da una pensione di lire 287 e 10 soldi che si pagava al dottor Siotto Pintor (procuratore della precedente proprietaria Antonia Angela Solinas).

Vi sono alcune conferme in documenti successivi: nel donativo del 13.08.1807 dell’Arciconfraternita del Sepolcro è scritto che la casa di proprietà 2700 aveva davanti la casa di Bartolomeo Sciaccarame; nell’elenco dei maioli presenti in città nel 1808 è compreso Andrea Madau di Bolotana, che viveva a casa di Bartolomeo Sciaccarame, nella strada di is Tagliolas; in atto notarile del marzo 1813, relativo alla casa 2359, si fa ancora riferimento alla casa Sciaccarame, confinante sul retro con la casa 2359.

Sciaccarame possedeva la sola enfiteusi della casa, concessa a Raffaele Schivo nel 1793 dall’oranese Antonia Angela Solinas; quest’ultima aveva quindi conservato la proprietà della casa, e morì poco tempo dopo; con testamento del 1790 aveva istituito eredi la figlia Caterina Solinas, i 2 figli della figlia defunta Juana Solinas coniugata Nieddu, e l’altra figlia Maria Rosa Solinas, la quale con testamento del 1803 lasciò i suoi beni al figlio Basilio Coy e alla nipote Effisia Coy, figlia del defunto suo figlio medico Pasquale. Con atto del notaio Gioachino Efisio Aru del 04.05.1808, il dottore in diritto Basilio Coy di Orani vendette la sesta parte della proprietà allo Sciaccarame per 432 scudi, 10 soldi e 10 denari [3].

Bartolomeo Sciaccarame proveniva da Albissola (Savona), si sposò nel 1778 con Rita Schivo, sorella di Raffaele, con la quale ebbe numerosi figli; rimasto vedovo nel 1809, l’anno successivo si sposò con Rita Pladeval, vedova di Luigi Rocca, con la quale ebbe altri 2 figli; morì nel 1829.

La casa 2353 risulta appartenere a metà ‘800 a Efisia Podda vedova Coi, la quale probabilmente si chiamava con maggiore esattezza Efisia Coy vedova Podda, nipote di Antonia Angela Solinas; vi è un altro possibile proprietario segnato nel registro catastale di metà ‘800: è Antonio Busu, figlio del medico Francesco; al Busu viene attribuita la proprietà enfiteutica della casa, che egli potrebbe quindi aver acquisito da Sciaccarame o dai suoi eredi; l’unico dubbio è che nel registro, in realtà, è riportato il numero 2963, che non ha però niente a che fare con la piazza Fontana Nuova, ma era invece una casa della strada Santa Teresa; si tratta evidentemente di un errore, ma attribuire al Busu parte della unità 2353 è solo un’ipotesi.



[1] davanti c’era la casa che prima era del cavalier Joseph Humana, poi di Francesco Alemand, poi di Filippo Pinna e in ultimo di suo figlio Paolo Pinna (casa 2700); di spalle aveva 2 case che erano del dottore cavaliere Juan Estevan Massa, poi di sua figlia dama Juana Massa, e una di queste fu donata ai coniugi Joseph Misclis e Maria Grazia Carta (unità 2357 e 2358); da un lato aveva la casa che era del reverendo Canonico Antonio Maria Cara, e poi di mastro Francesco Degioannis (2354); dall’altro lato confinava con casa che era dei coniugi don Thomas Depany e donna Anna Cara, e dopo del dottore don Luis Depany (2352).

[2] Il commerciante Gimiliano Russuy, figlio di Giovanni Antonio e Caterina Vera, nativo di Sarule, veniva chiamato anche Russuy Lixi; aveva ereditato una casa (n. 2740) dal negoziante Vicente Lixi, il medesimo da cui aveva ereditato Baquis Russuy, di cui Gimiliano poteva essere cugino.

[3] Da notare che Antonia Angela Solinas aveva ereditato dal premorto figlio Bachisio Russuy, probabilmente  nato da un primo matrimonio; il cognome Solinas era sicuramente quello del secondo marito, senza poter escludere che potesse essere anche il suo cognome da nubile.

 

2354

Da un atto notarile del 08.02.1779, relativo alla casa 2695 sull’altro lato della piazza, la casa 2354 è indicata come quella che era appartenuta al defunto Juan Baptista Massa e poi dei coniugi dr. in diritto Juan Luis Cara e Maria Massa; sono informazioni che già nel 1779 erano superate, come si vedrà poco più avanti.

A fine ‘700 era suddivisa in 3 case distinte, appartenenti ai fratelli Francesco e Gimiliano Degioannis; la prima notizia proviene da un atto notarile del settembre 1792, relativo a una parte dell’unità 2356, che aveva appunto alle spalle la casa dei fratelli Degiuannis; un atto di poco successivo, datato 03.10.1792, riguarda direttamente queste case: è un atto per la costituzione di un censo di 150 scudi, per il quale si impegna il Barquero y Carpentero mestre Francisco Degiuannis a favore del negoziante Cotardo Garibaldo; si recò a firmare l’atto la moglie del Degioannis, Rosa Demiquelis, in quanto il marito non poteva camminare; è scritto nell’atto che il Degioannis, con il fu suo fratello mastro Gimiliano, avevano comprato con atto del 13.07.1767 due casucce da donna Josepha Cara vedova Depani per 708 scudi e 3 reali, e con atto notarile del 16.10.1778 avevano diviso la proprietà; per ottenere il prestito di 150 scudi dal Garibaldo, Francesco Degioannis nel 1792 ipotecò la casa “ensostrada” (cioè con uno o più piani alti sopra il piano terreno) che aveva la cisterna comune con la casa del defunto fratello Gimiliano (dove viveva la sua vedova Francesca Olives); la casa, identificata con la parte più alta dell’unità 2354, cioè parte prima, era sita nella strada de las Tallolas, aveva davanti, sull’altro lato della piazza, la casa degli eredi del rettore Priamo Manca (casa 2706), e la casa del negoziante Francesco Allemand (2702), confinava da un lato con la casa del fu Gimiliano Degioannis (2354,II) e dall’altra parte con la casa degli eredi del quondam Vicente Lixi (2353).

Le case dei due fratelli erano le stesse che il defunto mercante di Cagliari Juan Batta Massa diede in dote nel 1701 a sua figlia Maria Josepha Massa quando si sposò con Don Luis Cara; furono ereditate il 21.10.1741 dal loro figlio canonico Antonio Maria Cara, e furono assegnate a donna Josepha Cara nella divisione dei beni del suo defunto fratello canonico, con atto del 21.05.1761; come già detto, Josepha Cara le cedette ai fratelli Degioannis nel 1767.

Con atto notarile di stessa data di altro prima citato (03.10.1792) anche Francesca Olives, vedova di Gimiliano Degiuannis, ipotecò la casa che era del marito per ottenere altri 150 scudi dal negoziante Garibaldo; i confini anteriori della casa (2354 II) erano i medesimi specificati per la parte I, mentre i confini laterali erano da una parte con la casa di Francesco Degiuannis (2354 I), e dall’altro lato con altra casa (2354 III) che lo stesso Gimiliano Degiuannis aveva comprato (non è specificato in che data) dal mastro Domingo Escano, e apparteneva quindi alla stessa vedova Olives; grazie alla somma ottenuta dal Garibaldo, con atto del 16.11.1792 la vedova Francesca Olives e i suoi figli poterono liberarsi di un censo di 850 lire che gravava sulle loro case, per il quale dal 03.10.1786 pagavano una pensione al Santo Monte di Pietà.

Nel dicembre 1793 la vedova Olives ottenne dal Garibaldo altri 100 scudi, caricando un’altra ipoteca sulla stessa casa 2354/II.
Francesca Olives morì il 12.01.1797, ed il giorno successivo il notaio Antonio Michele Casanova si recò nella casa di abitazione della defunta, nella calle de las Tallolas, per aprire il testamento: la defunta chiedeva essere sepolta nella chiesa del Santo Sepolcro, aveva nominato il figlio Francesco Degioannis (da non confondere con l’omonimo zio) suo curatore testamentario, si raccomandava perché venissero pagati i debiti verso il negoziante Garibaldo, cioè i due censi del 1792 e 1793, e confermò una donazione di 500 scudi fatta al figlio Francesco e alla nuora Geronima Trogu, ai quali lasciò tutti i mobili di casa; lasciò tutti gli altri suoi beni agli altri suoi figli Teresa, Agostino, Nicola, Pasquale, frate Possidio Religioso Agostiniano, e frate Rafael Cappuccino, fratelli e sorelle Degioannis; in data 14.02.1797 lo stesso notaio Casanova iniziò la compilazione dell’inventario dei beni lasciati da Francesca Olives; oltre agli effetti personali, nell’inventario fu inserita la casa (formata da due case distinte, dos sitios) che la vedova intendeva vendere a Gottardo Garibaldo, e che era stata stimata in tutto £ 4777; la casa (2354 II e III) aveva davanti la casa Manca (2706) e la casa della vedova Maria Angela Spada (2695), da una lato confinava con la proprietà che era stata del cognato Francesco Degioannis, venduta recentemente dalla sua vedova Rosa Demiquelis e dai suoi figli al negoziante Gottardo Garibaldo (2354 I), e dall’altra confinava con la casa del fu don Antonio Maria Copula (2355).

Con atto del 24.02.1797 i fratelli Degioannis (figli di Gimiliano) vendettero le due case al Garibaldo che pertanto diventò il proprietario dell’intera unità 2354 (è possibile che nella casa o in parte di essa abbia continuato ad abitare Francesco Degioannis, figlio di Gimiliano, che morì in una casa della strada Tagliolas o Fontana Nuova il 28.12.1812), avendo già comprato (con atto notarile che non è stato rintracciato) la parte di Francesco Degioannis zio dei precedenti. 

Il 16.06.1798 venne aperto il testamento dell’appena defunto Cottardo Garibaldo, su richiesta della vedova Anna Mameli; il defunto aveva lasciato al nipote dottor Nicola Antonio Pittaluga le case “Cartaros” comprate dai fratelli Degioannis[1], site nella Marina e calle di Argiolas (recte Tallolas), di fronte alla Fontana Nuova, con l’obbligo di dare abitazione alle nipoti Anna e Maddalena Pittaluga, e con l’obbligo di lasciare che in un piano terreno abitasse la serva Angela Sequi.

L’avvocato Nicolò Antonio Pittaluga mantenne il possesso dell’intera unità 2354 fino al 1812; con atto notarile del 14 gennaio di quell’anno la cedette alla Congregazione del Santissimo Sacramento; nell’atto dichiarò che aveva attraversato dei momenti di difficoltà, per “gravissime malattie” e pesanti perdite “sui suoi negozi”, cioè nei suoi affari e investimenti; dal 1805 aveva caricato sulle due case un censo di scudi 600, avuti dalla stessa Congregazione, e doveva pagare 3 pensioni già scadute; inoltre doveva pagare alcune pensioni enfiteutiche, ai padri Scolopi e alla chiesa del Santo Sepolcro, per la sua casa di abitazione (unità 2728).

Le due case inoltre garantivano la dote della moglie Luisa Arthemalle, per il capitale di 2000 lire; per permettere la vendita, la donna rinunciò al suo diritto. Non si sa se nel frattempo fossero morte le sorelle Pittaluga e la serva Angela Sequi, che avrebbero dovuto avere il diritto di abitazione per la loro vita.

Con atto del notaio Giuseppe Isola del 08.07.1812, Pittaluga firmò la ricevuta di lire 1027 e soldi 10 che gli furono consegnati da Giuseppe Novaro, tesoriere della Congregazione del Santissimo, rata di pagamento per la vendita di sei mesi prima; con altro atto notarile del 13 luglio la Congregazione pagò altre 2000 lire e con atto Isola del 20.10.1812 pago lire 666 soldi 13 denari 4, somme che furono consegnate direttamente al mastro muratore a cui Piccaluga aveva commissionato diversi lavori di ristrutturazione nella sua casa di abitazione della strada della Costa (2728).

A metà ‘800 l’intera casa 2354 apparteneva ancora alla Congregazione del Santissimo Sacramento.



[1] Nell’inventario dei beni del defunto Garibaldo, (ASC, atti notarili insinuati di Cagliari, vol. 1429 del mese di agosto 1798, carta 25), datato 22.06.1798, le sue case 2354 della strada Tagliolas vengono chiamate case “Cartaros”, soprannome dei fratelli Degioannis, precedenti proprietari 

 

2355

Un primo riferimento a questa unità catastale è stato trovato in un documento del Regio Demanio del 1755, relativo a una parte della casa 2317: in questo documento la casa 2355 è così descritta: era un tempo un magazzino del dottore in diritto Sabastiano Català, poi diventò una casa grande fabbricata da Sebastiano Buscalla, posseduta dal Capitolo di Oristano; queste più antiche informazioni non trovano legami con quanto riporta il fascicolo di una causa civile iniziata nel 1769, dove è scritto che la casa, fino al 1768, apparteneva al Conte del Castillo Don Fernando Nin y Lima; le parti in causa erano il canonico Jayme Massa y Masones e sua sorella Juana Maria Massa y Masones contro lo stesso Ferdinando Nin, a causa di un debito di 400 scudi che il conte avrebbe dovuto saldare ai fratelli Massa entro il 1767, e per il quale aveva ipotecato la casa di sua proprietà, sita nella strada di sant’Agostino (2355), che aveva davanti la piazza della chiesa, e che confinava da un lato, strada mediante, coll’ospedale dei soldati (2317), e dall’altra parte (con l’altra strada in mezzo) con la casa degli eredi Esquivu (Schivo) (casa 2693).

Il conte del Castillo però aveva venduto la casa (forse proprio nel 1768) a don Antonio Maria Copola[1] mettendo in allarme i fratelli Massa Masones. Nel 1772 morì don Antonio Maria Copola e al curatore dell’eredità (il cavalier Giuseppe Humana, secondo il testamento scritto il 24.10.1758) venne notificato il sequestro dei beni per la somma dovuta ai creditori Massa.

La casa 2355 restò per diversi anni nell’eredità indivisa di don Antonio Copola, amministrata dal curatore: ne danno testimonianza i seguenti documenti: due atti notarili del 1797 relativi alla confinante casa Degioannis, numero 2354; il donativo (non datato, forse del 1799) dell’eredità Copola, presentato da don Michele Humana (che era subentrato al padre don Giuseppe nell’incarico di curatore dell’eredità), nel quale venne dichiarata la casa della strada di Sant’Agostino, di 3 piani alti e terreno, con 33 stanze in tutto, e che fruttava lire 742 e 10 soldi all’anno; un altro atto notarile del 29.04.1801, relativo all’estimo del magazzino (2318) laterale alla chiesa di Sant’Agostino, che aveva davanti la casa del defunto don Antonio Maria Copola, strada mediante; un altro atto notarile del maggio 1812, relativo alla casa 2318, che aveva davanti la casa degli eredi Copola.

Col suo testamento del 21.10.1758 don Antonio Maria Copola, morto vedovo e senza discendenti diretti, nominò eredi le nipoti donna Alberta, donna Maria Vincenza e donna Giovanna Copola, figlie di suo fratello don Salvatore; fra i destinatari dei suoi legati testamentari vi era anche il Monte Nummario, che vantava perciò diritti su diversi crediti da riscuotere, lasciati dal defunto.

A metà ‘800 la casa apparteneva al Monte Nummario; agli inizi del XX secolo fu utilizzata come sede delle Poste e Telegrafi. 



[1] In una recente tesi di laurea (Università degli studi di Cagliari, Dipartimento di Architettura, dottorato di ricerca di Marcello Schirru: Palazzi e dimore signorili nella Sardegna del XVIII secolo), è riportata l’informazione che un edificio appartenente a don Antonio Maria Coppola, situato nella Marina, in calle de San Agustin, era detto casa de Buscalla, ed era stato venduto al Coppola da don Fernando Nin y Lima

 

2356

La prima notizia su questa casa proviene da un atto notarile del 04.09.1792, relativo alla casa 2357; quest’ultima confinava da un lato con casa del reverendo Joseph Denegry (2356).

Pochi giorni dopo, il 13.09.1792, venne aperto e pubblicato il testamento del reverendo don Joseph Denegry, appena defunto; era morto nel quartiere di Stampace, in casa del negoziante don Francesco Maria Viale, suo cognato (marito di Pasquala Denegri); il suo erede universale era il nipote Joseph Angelo Viale, il quale ereditò la casa 2356.
Nel 1797, da atti relativi alla casa 2354, risulta che appartenesse in enfiteusi al mastro Antonio Giuseppe Spano, che già possedeva la casa 2357; infatti in un documento del 1804 dell’archivio di Sant’Eulalia, relativo alla casa 2317, risulta che questa avesse davanti una casa del conciatore Giuseppe Antonio Spanu (2357), e anche una casa che il medesimo Spanu aveva avuto in enfiteusi dai fratelli Viale, eredi del mastro Marcantonio Denegri (2356); quest’ultimo era il padre del reverendo Giuseppe Denegri morto nel 1792.
 

A metà ‘800 l’unità catastale 2356 risulta appartenere all’ Opera Pia Viale per sussidio ai poveri ammalati in Stampace”.

 

2357

Apparteneva al convento dei padri di Sant’Agostino, i quali la concessero in enfiteusi il 04.09.1792 al mastro conciatore Giuseppe Antonio Spano; era composta dal piano terrreno e un piano alto, l’abitava già da tempo lo stesso Spano, e venne stimata, pochi giorni prima della concessione enfiteutica, per 447 scudi e 4 soldi; veniva chiamata “casa del nuestro padre Piu”, (quindi apparteneva a un padre Agostiniano che la lasciò al convento), e venne concessa in enfiteusi col canone annuo di 24 scudi per i primi 3 anni, poi di 25.

E’ citata in atto notarile del 10.11.1801, relativo alla casa 2358, ed anche allora apparteneva al mastro conciatore Giuseppe Antonio Espano; nel documento del 1804 relativo alla casa 2317, già citato per la casa 2356, è ancora attribuita allo Spano; inoltre nel donativo (senza data) del Convento dei Padri Agostiniani è dichiarata una rendita di lire 55 pagate da Giuseppe Antonio Spano per una casa in enfiteusi nella Marina.

In atto notarile del giugno 1808, col quale lo stesso Spano cedette la confinante casa 2358, viene citata come casa dei padri Agostiniani, senza avere la certezza che lo Spano avesse interrotto il contratto enfiteutico. 

A metà ‘800 apparteneva al sacerdote beneficiato Giovanni Maria Piredda, figlio del fu Domenico.

 

2358

Era una proprietà di donna Juanna Massa che possedeva anche la vicina casa 2359; nell’atto del 04.09.1792 con cui i padri Agostinani concessero a Giuseppe Antonio Spano l’enfiteusi della casa 2357, la confinante casa 2358 risulta dello stesso Spanu, che l’aveva in affitto o in enfiteusi.

A conferma di quanto detto, con un atto notarile del 10.11.1801 Giuseppe Antonio Espano (o Spano) ottenne in prestito 300 scudi a “censo onerativo” dal sacerdote Gavino Cocco di Bolotana, e ipotecò la casa che possedeva nella strada di S.Agostino con “sòttano” e 2 piani alti di cui uno nuovo, confinante davanti con casa del Capitolo (2316) e col Quartiere dei soldati (2317), da un lato con casa che “oggi possiede” il mastro conciatore Ignacio Opus (2359), dall’altro lato con casa del medesimo Espano (2357); viene specificato che la casa ipotecata era “la stessa che Espano comprò il 12.12.1794 dalla dama Juana Massa y Masones, che l’aveva ereditata da sua madre donna Francisca Masones y Soler”. Quindi lo Spano comprò la casa Massa nel 1794, ma ne aveva disponibilità già dal 1792, forse in enfiteusi, forse in affitto. Il prezzo d’acquisto del 1794 era stato di 515 scudi, 3 reali e un soldo; nel 1807 lo Spano spese 610 scudi per migliorarla.

Con atto del notaio Gio Batta Azuni del 17.06.1808 il conciatore Giuseppe Antonio Spano e sua moglie Maria Baccaredda vendettero la casa per lire 2498, 6 soldi e 8 denari ai guardiani dell’Arciconfraternita dell’Orazione e della Morte (o del Sepolcro). Il prezzo pattuito, svantaggioso rispetto alla somma del prezzo d’acquisto e alla spesa del 1807 (515 e 610 scudi, in tutto 1125 scudi equivalenti a 2812 lire e 10 soldi) corrispondeva ad un estimo eseguito pochi giorni prima dai muratori Francesco Porcu e Gioachino Marras, e dai falegnami Giovanni Porcu e Salvatore Murru; sulla casa gravavano due censi: uno di scudi 300, di proprietà del reverenddo Gavino Cocco, l’altro di scudi 100 di proprietà del reverendo Raimondo Piselli, per i quali lo Spano pagava interessi al 6%; tolti i pesi e le pensioni in scadenza rimase la somma di lire 1455, soldi 15, denari 6; al momento della vendita la casa era composta da 2 piani, un sotano e la terrazza, con balconi di ferro, di nuova fabbricazione. I motivi che obbligarono i coniugi Spano Baccaredda alla vendita furono le necessità della famiglia composta da 11 figli; una parte l’avrebbero impiegata all’acquisto di merci relative alla professione di conciatore.

Dai registri dell’antico catasto risulta che la casa 2358 a metà ‘800 appartenesse ancora all’Arciconfraternita del Sepolcro.

 

2359

Con atto notarile del 27.01.1792 la dama Giovanna Massa Masones firmò la rinuncia a qualsiasi diritto su una casa, identificata con l’unità 2359, che insieme al defunto marito Luigi Petricholi avevano donato il 22.08.1780 per costituire la dote di Maria Giuseppa Carta moglie di Giuseppe Misclis; si trattava di una casa di un piano nella strada di Sant’Agostino, confinante davanti con casa del Capitolo (2316), di spalle con casa che prima era di Joseph Aleman e poi degli eredi del quondam Vicente Lixi (2353), da un lato con altra casa del Capitolo (2360), dall’altro con casa della stessa dama Giovanna Massa (2358); la casa venne donata col patto che morendo detta Carta senza figli, la casa tornasse di proprietà della dama Massa; quest’ultima, con l’atto del gennaio 1792, rinunciò a questo diritto; in data 02.05.1792, i coniugi Misclis e Carta, una volta avuta la piena proprietà della casa, ebbero la possibilità di ipotecarla: ottennero 200 scudi dalla suora Maria Francesca Català del Monastero di Santa Lucia, a cui avrebbero pagato una pensione di 10 scudi annui; erano in grave stato di infermità e avevano molti debiti.

La casa 2359, ceduta dalla dama Massa ai coniugi Misclis e Carta, nel 1801, come già detto, risultava di proprietà del mastro conciatore Ignacio Opus (Oppo); quest’ultimo, insieme alla moglie Mariantonia Fanari, l’aveva infatti comprata con atto del 14.04.1794 per scudi 584, reali 2 e soldi 4 dai coniugi Giuseppe Misclis e Maria Giuseppa Carta; si trattava di una casa col piano terreno e due piani superiori, con un piccolo terrazzo e la cisterna; i coniugi Opus Fanari il 28.01.1808 vi caricarono sopra il censo onerativo di 500 scudi, con pensione annua al 5% da pagare al signor Ignazio Campus; al momento dell’acquisto erano rimaste da pagare 500 lire, di spettanza del Monastero di Santa Lucia; con i 500 scudi (1250 lire) avuti dal Campus fu eliminato il debito verso il Monastero, il resto sarebbe servito “per aumentare il fondo della concia”, cioè per migliorare il giro di affari; la casa in quell’anno era composta da piano terreno e 3 piani, infatti nel corso del 1794 era stata riedificata e sopraelevata con una spesa di circa 1767 lire.

Con atto notarile del 13.03.1813 i coniugi Opus Fanari, oppressi dai debiti e con numerosa famiglia a carico, dovettero vendere la casa per 1100 scudi al notaio Giovanni Usai; in quest’ultimo atto le case confinanti erano la casa Marchi (2360) e una casa di proprietà dell’Arciconfraternita del Sepolcro; quest’ultima è identificabile con la casa 2358, corrispondente alla casa già Massa e già Spano. 

Dai registri dell’antico catasto risulta che la casa 2359 appartenesse a Paolina Usai Porrà figlia di Giovanni Usai e di Francesca Porrà, moglie del capitano Antonio Romagnino (figlio di Pietro Ignazio Romagnino e Caterina Battilana).

 

 

2360

Apparteneva al Capitolo Cagliaritano: ne danno notizia i due atti del 1792 già citati, entrambi relativi alla casa 2359 dei coniugi Carta Misclis, dove è scritto che la casa dei coniugi confinava da una parte con la casa della dama Juanna Massa (2358), e dall’altra con casa del Capitolo. Ne dà conferma un altro atto notarile del 24 agosto dello stesso anno, relativo alla casa Truffa numero 2351, che aveva alle spalle una casa del Capitolo (2360).

Con atto del 11.12.1804 del notaio Efisio Melis Armerin, prodottore in entrambi i diritti, il Capitolo Cagliaritano concesse in enfiteusi la casa al conciatore Luigi Marchi; quest’ultimo aveva già l’enfiteusi e viveva nella casa confinante 2361 e voleva unire le due case per avere una abitazione più comoda (un’altra ipotesi è che il Marchi vivesse già nella parte alta dell’unità 2360 ed ebbe in enfiteusi dal Capitolo la parte bassa della stessa unità, unendo le due case per formarne una); la casa del Capitolo aveva due piani e un sottano ed era in rovina; proveniva dall’eredità del reverendo Efisio Cardia, canonico della Cattedrale, secondo il testamento rogato dal notaio Zara in data 29.08.1741; Marchi si impegnò a fare le riparazioni necessarie entro tre anni, a partire dalla data in cui gli inquilini l’avesseero liberata, e a mantenere l’immobile in buono stato sia dentro sia fuori; avrebbe pagato il canone di scudi 30 annui.

Nella casa visse per un periodo e forse vi morì nel 1806 il tavernaro Giovanni Putzolu, domiciliato a Cagliari ma nativo di Sorradile; in data 07.02.1806 egli dettò le sue ultime volontà al notaio Giovanni Stefano Sotgiu, nominando esecutore testamentario il cognato conciatore Luigi Marchi, nella cui casa della strada di Sant’Agostino egli si trovava ammalato. Il Putzolu, che gestiva una taverna nella contrada Pabillonis insieme a Giovanni Cau, nominò eredi il fratello Domenico e la sorella Giovanna, domiciliati in Cagliari, e le sorelle Rosa e Caterina domiciliate in Sorradile. 

A a metà ‘800, dal Sommarione dei Fabbricati, la casa 2360 risulta appartenere ancora al Capitolo.

 

 

2361

Con alcuni dubbi, questa unità catastale potrebbe essere attribuita all’Arciconfraternita del Sepolcro; in data 28.02.1804 i suoi Guardiani la concessero in enfiteusi perpetua per 28 scudi annui al mastro conciatore Luis Marqui (o Marchi); era composta dal sottano e dal primo piano; fino a quel momento era locata e abitata dalla vedova Rosa Puddu che pagava 26 scudi annui. Marchi si impegnò per migliorarla: avrebbe dovuto spendere subito 150 scudi e in due anni una cifra più alta; sicuramente avrebbe dovuto aggiungere alle finestre sulla strada due balconi in ferro battuto. Confinava da una parte con una casa del Capitolo (2360), dall’altra con la casa del reverendo Salvatore Contini e di sua sorella Rita (2362).

Come già detto nel precedente paragrafo, un’altra ipotesi è che la casa concessa in enfiteusi al Marchi dall’Arcivonfraternita del Sepolcro fosse la parte alta dell’unità catastale 2360, con tutto quanto riferito nel paragrafo precedente; la piccola unità 2361 poteva far parte dell’unità catastale 2349, proprietà dei coniugi Cocco lasciata in eredità all’Arciconfraternita; è anche possibile che fosse soltanto un cortile, una semplice uscita sul retro utilizzata dai proprietari dell’unità 2349 (si veda quanto detto per quest’ultima casa).

Dai dati del catasto, successivi al 1850, risulta che la proprietà fosse proprio dell’Arciconfraternita del Sepolcro; quest’ultima dovrebbe aver posseduto anche la retrostante casa 2349 (forse a partire dal secondo decennio del secolo XIX) dopo la morte dei coniugi Cocco e di una loro erede usufruttuaria; nella pianta di metà ‘800 la casa 2361 sembra la prosecuzione dell’unità 2349 e in altre piante catastali successive[1] è tutt’uno con la casa 2349. 



[1] pianta del 1910/1915 e successive, pubblicate nel volume “Marina” della Silvana Editoriale 

2362

Era la casa abitata o solo posseduta dal Reverendo Salvatore Contini, curato di Quartucciu; vi sono riferimenti in atti notarili di dicembre 1799, relativi alla confinante casa 2363, e del marzo e dicembre 1806, relativi alla frontale casa 2313. In atto del notaio Gioachino Mariano Moreno, del 28 febbraio 1804, è scritto che la casa era di proprietà dei fratelli Reverendo Salvatore e Rita Contini. 

A metà ‘800 apparteneva alla Comunità di Sant’Eulalia.

 

2363

Sulla mappa di metà ‘800 l’unità 2363 si affaccia sulla strada di Sant’Agostino; dai documenti esaminati risulta che fino al 1809 fosse divisa in due case ben distinte (parti a e b); la parte a, confinante con la casa 2364, intorno al 1800 risulta che fosse strettamente legata all’unità catastale posteriore, priva di numero nella pianta, compresa fra le unità 2348 e 2349, con accesso dalla strada Is Tagliolas; si attribuisce a quest’ultima il numero 2363 parte c; risulterebbe inoltre che questa casa (parti b e c) avesse la facciata principale sulla strada Is Tagliolas, mentre sulla strada di Sant’Agostino c’era più che altro il cortile, forse una stanza bassa. 

 

2363/a

Era la parte più a sud sulla strada di Sant’Agostino, confinante con l’unità 2362; nel 1797 apparteneva al Gremio di Sant’Elmo (o Sant’Erasmo): risulta da atto notarile del 02.08.1797, relativo alle case 2311 e 2312, che queste avevano sul davanti una casa della Hermandad de S.Elmo (2363/a) e una casa del Capitolo (2363/b); in data 02.12.1799 il Gremio fece stimare la casa dai mastri muratori Antonio Pilloni e Antonio Demontis e dai mastri carpentieri Francesco Cappai e Agostino Mameli, in accordo col conciatore Pasquale Marini che era interessato al suo acquisto in enfiteusi; si trovava nella strada “come si scende alla chiesa di S.Agostino”, aveva davanti una casa di proprietà del convento di S.Agostino, da un lato la casa di don Juan Antonio Borro (casa 2364, ma nell’atto viene trascurata l'unità 2363/b, proprietà, più che altro un cortile, del Capitolo), dall’altro lato la casa del reverendo Salvador Contini (2362); i mastri muratori la stimarono in 628 lire e 15 soldi, e i mastri carpentieri in lire 332 e 5 soldi; era abitata dal mastro Pasquale Garau, e l’atto di enfiteusi fu firmato il 14 dicembre 1799.

In un elenco di beni del 1799 del Gremio di Sant'Elmo (ASC, Segreteria di Stato II 1326) sono comprese 3 case nella strada di Sant’Agostino, composte da un piano terreno e il primo piano, di poche stanze in tutto; una di queste corrisponde alla casa 2363/A, le altre due corrispondono alle unità 2324 e 2326.

La proprietà dei Santelmari, in enfiteusi a Pasquale Marini, è citata anche in atti del 1807, relativi alla proprietà 2363/B del Capitolo Cagliaritano, e il Marini è ancora citato nell’inventario dell’eredità di Francesco Heri (proprietario dal dicembre 1807 della casa 2363, parti B e C), iniziato il 30.04.1808. 

 

2363/b/c

Il primo documento rintracciato che cita queste due parti è l’atto di divisione del 26.08.1786 dell’eredità di Gaspare Perpignano: al nipote Francesco Serra spettarono 2 case contigue (2348/a e 2348/b), confinanti di spalle e di lato con una casa del Capitolo (2363/b e 2363/c).

Da un atto del 24.08.1789, relativo alla casa Lebio 2377 (parte sinistra), risulta che che davanti ci fosse una casa del Capitolo, corrispondente alla unità senza numero catastale (2363/c).

Da un altro atto notarile del 23.09.1789, relativo alla casa Usai (2377, parte destra), risulta che anche davanti a questa ci fosse una casa del Capitolo (2363/C).

Con atto del 13.04.1790 furono vendute le due case 2348/a e 2348/b; nel documento di vendita è scritto che le due case confinavano di spalle con casa dell’Azienda ex-Gesuitica; invece nell’estimo, del 17 marzo dello stesso anno, è scritto che la casa di spalle era del Capitolo; questa differenza può essere spiegata con una svista del notaio, oppure è possibile che il Capitolo avesse acquisito solo da pochi anni casa e terreno 2363 (b e c) dall’Azienda ex-Gesuitica. Da notare che fra i confini specificati non viene citata la casa Palmas (2348/C); quest’ultima doveva essere più piccola, meno profonda delle case limitrofe (2348/b e 2363/c), e queste ultime confinavano fra loro per la parte posteriore, facendo sì che la casa Palmas venisse a volte trascurata al momento di indicare i confini.

E’ più preciso un atto del 04.01.1792 con cui il negoziante Palmas vendette la sua casa (2348/c) confinante di spalle e di lato con casa di Raimondo Bassu (2348/b), e sull’altro lato con casa del Capitolo Cagliaritano (2363/c).

Con atto del notaio Giovanni Usai del 14.04.1807, il canonico e decano don Pietro Maria Sisternes de Oblites, per conto del Capitolo della Primaziale, ricevette 2000 scudi dalle mani del notaio che rappresentava l’assente vedova donna Chiara Vivaldi Zatrillas contessa di San Lorenzo; il Capitolo aveva infatti necessità di intervenire con lavori urgenti su 3 case di sua proprietà “minaccianti rovina”; non avendo capitali a disposizione ipotecò le 3 case, caricandovi il censo di 2000 scudi, per il quale avrebbe pagato alla contessa l’interesse annuo al 5%, cioè 100 scudi. Le case si trovavano in Castello (strada di Santa Croce) e alla Marina (strada de is Tallolas e strada della Costa); la casa della strada is Tallolas aveva anche una facciata verso la strada di Sant'Agostino e la si identifica con le unità 2363/b e 2363/c; era chiamata casa Cao e confinava dalla parte di is Tallolas con le proprietà Cocco (2349) ed Heri (2348), mentre sul lato di Sant'Agostino confinava con le proprietà Borro (2364) e dei Santelmari (2363/a).

In altri atti del 1799, relativi alla casa 2363/A del Gremio di Sant’Elmo, risulterebbe che quest’ultima fosse direttamente confinante con la casa Borro; una spiegazione a questa contraddizione potrebbe essere che la casa del Capitolo si trovasse per lo più sul retro, verso la strada is Tagliolas, e che dalla parte della strada Sant’Agostino ci fosse solo una stanza e il cortile, trascurato negli atti del 1799.

Nel donativo del Capitolo Cagliaritano del 15.08.1807, venne denunciata la casa Cao, nella strada is Tagliolas (2363/b e 2363/c), formata da un piano terra diviso in due ambienti, un primo piano con 3 stanze, e una stanza che si affacciava sul retro verso la strada di Sant’Agostino, confinante davanti alla casa di Donna Speranza Tuveri (2376), di lato con casa di Francesco Heri (2348/c), dall’altro con casa di Salvatore Cocco (2349), di spalle con la strada di Sant’Agostino. Una nota, aggiunta al donativo del Capitolo, ci informa che la casa Cao il 01.12.1807 fu venduta al negoziante Heri, proprietario della casa 2348; infatti, con atto del notaio Gio Batta Azuni datato 01.12.1807, il canonico decano della Primaziale, reverendo monsignore don Pietro Maria Sisternes de Oblites, per conto del Capitolo e della comunità della Primaziale cagliaritana, cedette una casa al negoziante Francesco Heri che aveva offerto 1000 scudi; in alternativa il compratore aveva fatto una offerta per acquisire la casa in enfiteusi, e avrebbe versato il canone annuo di lire 112 e soldi 10; fu preferita la strada della vendita definitiva, e alla firma del contratto furono consegnati al canonico Sisternes i 1000 scudi; la casa venduta si trovava nel sobborgo della Marina e strada Is Tagliolas (2363/c), era composta da un piano terreno, un piano superiore e un “soffietto”, e sporgeva sul retro verso la strada di Sant’Agostino (unità 2363/b); dalla parte della strada Is Tagliolas confinava con la casa Cocco (2349) e con la casa del compratore Heri (2348/c); dalla parte della strada S.Agostino confinava con le case Marini (2363/a) e Borro (2364).

Francesco Heri morì il 30.03.1808; in data 25.04.1808 fu dato avvio all’inventario dei suoi beni: oltre alla casa di abitazione 2348 fu inventariata la casa 2363 (B e C), fra le strade di las Tallolas e quella di Sant’Agostino e, considerata la recente data d’acquisto, fu dichiarato il valore pagato dall’Heri il 01.12.1807.

Con atto del notaio Giuseppe Raimondo Floris del 23.08.1809 il mastro conciatore Pasquale Marini vendette la sua casa (2363/a) alla vedova Marianna Eri (Heri) nata Schivo, che agiva per sé e come curatrice testamentaria dei figli pupilli Rita, Efisio, Francesca, Chiara e Francesco fratelli Eri; la casa fu venduta per 1476 lire, 6 soldi e 1 denaro, secondo la stima eseguita dal mastro falegname Antonio Ferdiani e dal mastro muratore Raffaele Marini; era una casa composta da un piano terreno e un piano alto, nella strada di Sant’Agostino, sottoposta alla proprietà censuale di scudi sardi 400, pensione annua 20, da pagare al Gremio dei Sant’Elmari; confinava da una parte con la casa della stessa vedova Schivo (2363/b), alle spalle con la casa Cocco (2349); è riportato nell’atto che esisteva già un accordo fra il defunto Francesco Heri e Pasquale Marini per la cessione della casa; fu necessario chiedere l’autorizzazione del Gremio di Sant’Elmo, dal momento che il Marini era solo un enfiteuta; i maggiorali del Gremio, fra cui il maggiorale capo Girolamo Capicciola e il maggiorale secondo Andrea Barrago, con i “probi uomini” dell’associazione, si riunirono il 14 maggio 1809 e diedero il loro assenso; la convenienza per i compratori stava nel fatto che avrebbero riedificato la loro proprietà 2363/b (e probabilmente anche la 2363/c) unendovi la casa acquistata 2363/a.

I passaggi di proprietà alla famiglia Heri, sia quello del 1807, sia quello del 1809, sono completamente trascurati da atto notarile del 02.01.1811, inventario dei beni del defunto don Gio Antonio Borro: secondo quest’ultimo documento, a fianco e alle spalle della casa 2364 vi era una proprietà del Capitolo; può trattarsi di un semplice riferimento ad una situazione ormai superata, copiata senza correzione da un atto notarile di qualche anno prima.

La casa 2363 (o almeno le parti a e b) nel 1817 entrò a far parte della dote che Rita Heri, figlia del defunto Francesco e di Marianna Schivo, portò al matrimonio con Giovanni Battista Vacca; nel 1824 Rita Heri, citò il marito per farsi restituire la dote consegnatagli con atto del 04.08.1817, consistente in mobili, pegni d’oro e vestiti per £ 482.11.7, moneta per £ 4780, e una casa nella strada di Sant’Agostino (cosa che conferma la riedificazione e ampliamento della casa 2363, visto che in passato la sua parte importante era sulla strada is Tagliolas) del valore di £ 4780.10.8, per un totale di lire 10043 soldi 2 e danari 3. Secondo Rita Heri il marito “si abbandonò alla prodigalità, perse l’impiego per un deficit rinvenuto in quell’erario(?), dissipò la dote e prese a maltrattare la moglie, che non potendo resistere prese il partito di separarsi da lui con i suoi due figli, e ricorse al tribunale ecclesiastico per dichiarare il divorzio, e ricorse alla reale cancelleria per gli alimenti, per i quali le vennero assegnati i fitti della casa dotale. Detta casa è quanto rimane della dote, ed è soggetta a un capitale di £ 1000 a favore di mastro Nicolò Tocco”.

Rita Heri chiese che si condannasse il marito al reintegro della dote, tenendo conto degli altri beni che possedeva il Vacca in Villanova, nel Castello, in Ussana, e alcuni crediti; una carta del 01.03.1825, proveniente dal fascicolo della causa, riporta che il Vacca “è arrivato nelli scorsi giorni a dar segni non equivoci di pazzia, per cui si trova arrestato e detenuto nella prigione denominata Santa Barbara”.

A metà ‘800 l’unità catastale 2363 apparteneva ad Anastasia Cabras, vedova di Vincenzo Degioannis detto “su zoppu”; la donna, originaria di San Sperate, morì a 70 anni il 02.09.1868 nella casa 2363 che allora corrispondeva al numero 17 della strada di Sant’Agostino. 

 

 

2364

Nell’atto relativo alla divisione dell’eredità di Gaspare Perpignano, del 1787, le case che spettarono al nipote Francesco Serra, corrispondenti alla parte più alta della casa 2348, confinavano da un lato con la casa di don Juan Antonio Borro, identificata quindi con l’unità catastale 2364. Il dato è confermato anche nell’atto dell’aprile 1790 con cui il Serra vendette le sue case al reverendo Ramon Bassu, e negli atti del luglio e agosto 1792 con i quali venne stimata e poi venduta la casa 2307, che aveva davanti la casa Borro. Ulteriori conferme vengono da altri atti del dicembre 1798, settembre 1799, e dicembre 1799, relativi rispettivamente alla casa Bassu 2348, alla casa Sciaccarame/Pittaluga 2308, e alla casa del Gremio di Sant’Elmo 2363; in questi atti il nobile Borro figura sempre come proprietario della casa 2364; nei primi due atti appena nominati è chiamato reverendo e monsignore, mentre il titolo di “don” utilizzato negli altri casi si riferisce sempre e solo all’appartenenza al ceto nobiliare; altri due atti del 1801, relativi alla vendita della casa Bassu 2348 citano ancora don Gio Antonio Borro come proprietario della casa confinante, così come gli atti dell’aprile 1807 del dicembre 1807, relativi entrambi alla casa 2363, così come l’inventario del 1808 della eredità Heri, proprietario delle case 2348 e 2363, entrambe confinanti con la casa Borro 2364.

Nel donativo senza data del convento del Carmine è dichiarata una rendita proveniente dalla casa della strada di Sant’Agostino concessa in enfiteusi a don Giovanni Antonio Borro.

Sulla identità del nobile Borro vi sono alcune incertezze: secondo una genealogia già pubblicata, un don Giovanni Antonio Borro Aymerich, sacerdote, morì il 13.11.1810; ma due testamenti del 1810, aperti e pubblicati il 14.11.1810, ci informano che don Giovanni Antonio Borro Aymerich, morto il giorno 13 novembre 1810[1], era coniugato con Angiolina Porcile, vedova di Francesco Steria (-1803); Angela Porcile ebbe diversi figli dal primo marito, nessuno dal secondo con cui si sposò nel 1806; i beni di quest’ultimo furono lasciati alla moglie e ad alcuni figli di lei, cioè solo ai 4 che vivevano con i coniugi Borro Porcile, chiamati Giuseppa, Marianna, Giovannico, e Rita Steria Porcile; in particolare Giovannico e Rita erano i “prediletti” del patrigno, che lasciò al primo la casa nella strada Scarpari, affittata a diversi inquilini, e a Rita lasciò dei beni per una somma equivalente; il resto dei suoi non pochi beni fu ereditato dalla moglie Angiolina Porcile e dopo la sua morte sarebbe stato diviso fra gli stessi 4 figliastri Steria Porcile.

Il sacerdote Borro, citato in alcuni atti, era probabilmente un parente stretto, forse uno zio del nostro don Giovanni Antonio Borro; una conferma arriva da un atto notarile del 09.05.1803, relativo alla casa 2308: questa era frontale alla casa degli eredi del defunto Monsignor Borro; è chiaro quindi che quel Don Giovanni Antonio Borro, morto nel 1810, non era il sacerdote e monsignore, bensì un suo erede.

Dei suoi 4 figliastri ed eredi si hanno alcune informazioni: Giuseppa Steria Porcile (1773-1819) sposò nel 1819 il conte Raffaele Porcile, di cui era parente, ma morì lo stesso anno; Marianna Steria Porcile (1778-1850) sposò (probabilmente nel 1815) Nicola Cobovich; Giovannico Steria Porcile nato nel 1783, morì giovane e senza discendenza nel 1812[2], i suoi beni furono ereditati dalle sorelle, la madre ne ebbe l’usufrutto; infine Rita Steria Porcile, nata nel 1786, si sposò nel 1819 col negoziante Vincenzo Fiorentino.

A metà ‘800, dai dati del Sommarione dei Fabbricati, la casa 2364 risulta appartenere al negoziante Vincenzo Fiorentino, figlio del fu Nicola, e proveniva dai beni di sua moglie Rita Steria.

 



[1] don Giovanni Antonio Borro Aymerich morì nella sua abitazione della contrada Barcellona, identificata con la casa Allemand 2941

[2] Giovannico Steria Porcile morì nella sua abitazione nella contrada Barcellona, probabilmente la stessa casa Allemand 2941 dove morì il “padrasto” don Giovanni Antonio Borro