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Isolato E1: Saline/Moras/p.zza del Molo/Barcellona

(via Sardegna, via Napoli, via Roma, via Barcellona)

numeri catastali da 2628 a 2634

come per tutti gli isolati sulla via Roma, la modifica più evidente è dovuta alla costruzione dei palazzi con i portici: il palazzo Garzia, la cui ala destra fu costruita a partire dal 1890, l’ala sinistra a partire dal 1903, ha sostituito le 3 vecchie case che si affacciavano sulla antica piazza del Molo; da notare le due facciate dell’antico palazzo Fulger (2629), mentre la casa Pinna Arthemalle (2628), per riedificazioni o ristrutturazioni, non ha tenuto nessun particolare architettonico del passato. 

 

2628     

Da una causa civile del 1761 è possibile identificare la casa 2628 come quella che era appartenuta nel 1741 a don Juan Bautista Sanjust y Cutis (1700-1760), e prima era di sua madre donna Laura Cutis; una conferma a quanto detto viene da una recente tesi di laurea [1], nella quale è riportato che il commerciante Paolo Maurizio Arthemalle, in data 14.12.1776, concordò la ricostruzione di un edificio, situato fra le strade Moras e Barcellona, col mastro muratore Sebastian Puddu, col mastro falegname Gasparo Cuy e col mastro fabbro Batta Calamida; era stato venduto in data 28.07.1773, in condizioni fatiscenti, dal barone Sanjust dietro pagamento di 3000 scudi.

A fine ‘700 era l’abitazione dei coniugi Paolo Maurizio Arthemalle (1742-1813) e Marianna Pinna (1742-1825), figlia del commerciante sassarese Gio Filippo Pinna e della sua prima moglie Francesca Sanna; come proprietà Arthemalle o Pinna la casa è citata in due atti notarili del 1784, relativi alla vicina casa 2607; è citata nelle denunce per il donativo del 1799 e del 1807 presentate da Marianna Arthemalle nata Pinna, che dichiarò di possedere una casa fra le strada di Barcellona e di Moras, in tutto 26 stanze e 3 botteghe, composta da piano terreno e 4 piani alti, di cui una parte abitata dalla famiglia, parte affittata; nella denuncia del 1799 è scritto che se fosse stata tutta affittata avrebbe potuto rendere 250 scudi, nella denuncia del 1807 l’affitto totale e teorico diventa 305 scudi; vi era caricato un censo di 3000 scudi per il quale si pagava una pensione annua di 120 scudi al barone di Teulada.

La proprietà Arthemalle è ancora citata in atto notarile del dicembre 1800 relativo alla casa 2298, in atto notarile di ottobre 1803 relativo alla casa 2607, ed in una causa civile del 1809, nella quale il mastro falegname Antonio Fadda dichiarò di aver eseguito, tempo prima, l’estimo della casa della moglie di Paolo Maurizio Arthemalle, posta nella strada di Barcellona. L’estimo fu fatto dal Fadda nel mese di agosto 1808; infatti, con atto del notaio Demetrio Satta del 25.08.1808, Marianna Pinna vendette la grande casa al negoziante ligure Francesco Antonio Garzia; in questo documento viene ripercorsa la storia recente dell’edificio: il negoziante Paolo Maurizio Arthemalle l’aveva comprata dal barone di Teulala don Francesco Sangiust e Catalan (1731-1802, figlio del citato don Juan Bautista Sanjust y Cutis) con atto del 28.07.1773 del notaio Bertolomeo Bausà; l’Arthemalle non dovette versare i 3000 scudi pattuiti, ma si obbligò a pagare gli interessi al 4%; la fece riedificare interamente, come risulta dall’atto di ricevuta del 14.12.1776 (citato in precedenza), a rogito del notaio Luigi Carta; la cedette alla moglie Marianna Pinna con atto del notaio Saturnino Corona del 29.10.1796, in pagamento delle diverse somme che la moglie aveva apportato al matrimonio, per lire 19021, soldi 3 e denari 9; restò a Marianna Pinna il peso di dover pagare al Barone Sanjust e ai suoi eredi gli interessi per 120 scudi annui, e dover restituire il capitale di 3000 scudi.

Dal 1804 Marianna Pinna interruppe il pagamento delle pensioni; forse a corto di denari, cercò di vendere la casa ma la cosa non fu facile; nessuno si fece avanti in un primo momento, al di fuori del barone di Teulada Enrico Sanjust, ma solo per reclamare le pensioni arretrate; per facilitare la vendita Marianna Pinna fece eseguire un estimo dai mastri muratore Raffaele Manca, falegname Antonio Fadda e fabbro Raffaele Meloni; essi consegnarono la loro relazione il 22 agosto 1808 e valutarono la casa poco più di 12733 scudi, da cui sotrarre le spese necessarie per eseguire alcuni lavori; finalmente il 25 agosto il negoziante genovese Francesco Antonio Garzia[2] offrì 8200 scudi (cioè 20500 lire), al lordo dei 3000 scudi del barone di Teulada; avrebbe consegnato subito 1000 scudi, entro 2 mesi avrebbe consegnato altri 2200 scudi coi quali Marianna Pinna avrebbe pagato le pensioni scadute al barone Sanjust, e le spese della lite in corso; entro 2 o 3 anni, a suo beneplacito, il Garzia avrebbe pagato gli ultimi 2000 scudi unitamente agli interessi al 5%. Marianna Pinna avrebbe liberato la casa entro 2 mesi, eccettuate le parti affittate allo speziale Luigi Papi ed al sarto Giovanni Puzzolu; da un atto notarile del 25.10.1808, relativo alla casa 2607, si sa che Luigi Papi aveva una spezieria che si apriva nella strada Barcellona, nella facciata principale della casa.

In data 27.10.1808 don Enrico Sangiust, anche a nome delle sue sorelle donna Maria Grazia e donna Maria Ignazia, firmò la ricevuta per la somma di lire 1672, soldi 18 e denari 6 consegnatagli dal negoziante Francesco Antonio Garzia per conto di Marianna Pinna; lire 1500 per 5 pensioni annuali ormai scadute, ognuna di lire 300 (cioè 120 scudi), il resto per spese processuali, di esecuzione, e per il procuratore incaricato.

Per necessità intervenute, Marianna Pinna chiese al Garzia di pagare 1000 scudi ben prima della scadenza dei 3 anni, cosa che fu fatta in due rate, il 21 gennaio ed il 18 maggio del 1809; il credito residuo, altri 1000 scudi, in data 03.07.1809 fu donato da Marianna Pinna al figlio Francesco Arthemalle (con atto del notaio Demetrio Satta); in data 22.08.1811 Francesco Antonio Garzia pagò a Francesco Arthemalle 600 scudi e i 50 scudi di interesse sulla intera somma per l’anno trascorso, promettendo di pagare gli ultimi 400 scudi entro il mese di settembre. E’ scritto nell’atto che per l’amiciza cordiale che correva fra gli Arthemalle e Garzia fu concessa la dilazione del saldo senza alcun problema.

A conferma della cessione della proprietà, si può citare un atto notarile del 14.08.1813, col quale Marianna Pinna, figlia del defunto Gio Filippo e moglie ormai separata del negoziante Paolo Maurizio Arthemalle, dichiarò di aver ceduto tutti i suoi beni, e di conservare solo una casa nel quartiere di Villanova, dove abitava; con l’atto citato, Marianna Pinna donò meta dei suoi beni residui alla figlia Maria Annica Arthemalle vedova di don Ignazio Musso; con altro atto del 21 dicembre di quello stesso anno, la stessa Marianna Pinna cedette alla figlia Maria Annica, da cui era mantenuta, anche l’altra metà della casa in Villanova.

Nel catasto della metà ‘800 la casa 2628 risulta appartenere a donna Grazia Sardo (1819-1857), moglie di don Michele Ciarella (1815-1859).



[1] Università degli studi di Cagliari, Dipartimento di Architettura, dottorato di ricerca di Marcello Schirru: Palazzi e dimore signorili nella Sardegna del XVIII secolo

[2] Non si hanno molte informazioni sul Garzia; di origine ligure, forse genovese, è forse da identificare col marito di una Francesca Rapallo, morta nel 1783, da cui nacque il figlio Francesco Emanuele Geronimo nato proprio in quell’anno; per la sua origine, è da escludere una parentela con la famiglia Garzia di Ischia, a cui appartengono i due fratelli Emanuele e Giovanni figli di Francesco, che costruirono l’omonimo palazzo di via Roma a fine secolo XIX, e a cui appartengono il commerciante Raffaele e il suo cugino omonimo “Raffa” Garzia, letterato e giornalista. 

 

 

2629 

Era la casa del commerciante francese Gian Maria Fruchier (o Fulgier, Fulger, Fulcher, Furcher), e della moglie Anna Belgrano; lui morì nel 1762 a Portoscuso, lei morì a Cagliari nel 1790; non avevano figli e la grande casa, con facciata nella strada Barcellona e nella strada Mores, divenne proprietà della Congregazione del Santissimo Sacramento.

In atto notarile del luglio 1788, inventario dei beni lasciati da donna Caterina Buschetti y Borro, è compresa la casa 2604 che confina con casa del fu Gio Maria Fulger strada di Barcellona frammezzo; in atto notarile del dicembre 1788, la casa Paderi 2259 confina davanti con la casa della vedova del defunto Juan Fulcher, “calle di Moras mediante”; le stesse informazioni vengono da un atto di agosto 1792, relativo alla casa Pintor Frongia (2633); in un documento datato 29.11.1793, inserito in una causa civile e relativo all’enfiteusi della casa Villa 2605, è scritto che la casa di fronte, sull’altro lato della strada Barcellona, era quella della Congregazione del Santissimo Sacramento, e prima era della vedova Fulgery. 

Un atto notarile del 21.01.1805 riporta alcune informazioni interessanti, anche se non dettagliate: per disposizioni testamentarie di Juan Maria Fruchier, la grande casa doveva rimanere usufrutto della sua vedova e, dopo la morte di Anna Belgrano avrebbero goduto dell’usufrutto i nipoti del testatore Fruchier; fra questi c’erano dei nipoti Fignon, Maddalena, Teresa e Paolo, che erano figli del dottor Giuseppe Fignon e di Rosa Bono (o Bonu); il defunto Fruchier era figlio di Giuseppe Fruchier e di Giuseppa Bonu, da qui probabilmente la parentela con i Fignon; Maddalena Fignon aveva sposato nel 1724 Giovanni Battista Martin di Valencia, e avrebbero dovuto godere l’usufrutto i loro figli Rosa Maria, coniugata Cardano, e il reverendo Alejo Martin; probabilmente sorsero delle contestazioni e delle liti sull’interpretazione delle disposizioni testamentarie e il 21.10.1793 il reverendo Martin firmò un atto di cessione alla Congregazione del Santissimo, non si sa se unitamente agli altri parenti; nel 1805, trovandosi anziano e in gravi difficoltà economiche, tanto che “trovasi così indecente di vestito che per ordine del Vicario Generale gli sarbbe stato impedito di uscir di casa ove non provveda alla decenza esteriore”, confermò la sua cessione della casa Fruchier in favore della Congregazione, unitamente a una supplica perché la stessa Congregazione si interessasse a “prendersi cura dei pochi giorni che piacerà al signore di concedergli, provvidendolo degli alimenti ed indumenti necessari alla sua età e proporzionali alla decenza della sua condizione”.

Nelle denunce per il donativo sono diversi i riferimenti alla casa 2629: nella denuncia di Speranza Tuveri la sua casa 2606 aveva davanti la casa dell’eredità Fulcer, e lo stesso dicasi per la denuncia senza data di Giovanni Villa, proprietario in enfiteusi della casa 2605; la stessa informazione fornisce la denuncia del 1807 del Capitolo, proprietario della casa 2261 sulla strada Moras, mentre la Congregazione del Santissimo Sacramento, nella sua denuncia priva di data, dichiara di ricevere alcune pensioni dalla casa Fruchier: il notaio “Mammelli” pagava 80 scudi annui per l’affitto del primo piano, il negoziante Ciapella (Chapelle) ne pagava 100 per l’affitto del secondo piano, il negoziante Francesco Antonio Garzia ne pagava 80 per il terzo piano e altri 80 scudi per 3 magazzini, e infine un signor Crobu (forse il negoziante Pietro) pagava 60 scudi per un magazzino grande.

Il notaio Mammelli è probabilmente da identificare col notaio Giuseppe Mameli, il quale abitava nella strada di Barcellona nel 1808, come risulta dall’elenco dei maioli presenti in città, e ospitava nella sua casa Nicolò Mattu di Ovodda.
E’ stata rintracciata una causa civile che ha inizio il 01.10.1802 fra la Congregazione e Francesco Antonio Garzia: quest’ultimo aveva preso in affitto sin dal 18.02.1800 per lire 400 annue (cioè 160 scudi) una casa e dei magazzini nella strada Barcellona, proprietà della Congregazione; dopo aver pagato lire 200 nel febbraio 1800, il Garzia non aveva pagato più nulla, e al 18.02.1803 avrebbe dovuto pagare lire 1000 di affitti arretrati; la Congregazione chiese pertanto il saldo del suo credito e pretendeva che Garzia liberasse la casa; il negoziante si meravigliò delle richieste, in quanto gli amministratori della Congregazione erano ben informati sul fatto che la casa aveva necessità di molti lavori per renderla abitabile, per i quali egli aveva speso più delle lire 1000 che gli venivano richieste; in particolare dichiarò di aver speso 540 lire per 6 finestre nuove, 120 lire per i vetri, più di 350 lire per altri lavori; chiese inoltre che un perito stabilisse un ribasso dell’affitto. Non si sa come sia terminata la lite: in ogni caso il Garzia pochi anni dopo comprò la casa confinante 2628, sicuramente lasciò quindi la casa della Congregazione.

Nel fascicolo di una causa civile del 1827, relativa alle proprietà del negoziante Agostino Melis, la sua casa 2633 confinava di lato con la casa Fulger, posseduta dalla Congregazione del Santissimo.

Dal Sommarione dei Fabbricati risulta che a metà ‘800 la Congregazione del Santissimo fosse ancora proprietaria della casa 2629.

 

2630     
Il documento più antico che è stato rintracciato, che cita i proprietari di questa piccola casa, è il fascicolo di una causa civile del maggio 1797, relativa a una lite fra gli eredi di Agostino Pintor; egli possedeva la casa corrispondente all’unità catastale 2633, o la parte di essa che dava alla strada Moras: confinava da una parte con la casa della fu Anna Belgrano (2629), di fronte con la casa Gorsiglia 2262, alle spalle con una casa del Monastero di Santa Lucia: quest’ultima dovrebbe identificarsi appunto con l’unità 2630, anche se dalla mappa catastale di metà ‘800 sembra che non ci sia confine fra le due proprietà.

Una fonte decisamente più chiara è un atto notarile del 02.07.1804, rogito del notaio Efisio Usai Todde: si tratta dell’atto di avvaloramento di un immobile fatto dai mastri muratori Francesco Antonio Pilloni e Giuseppe Schirru, su incarico delle Religiose del Monastero della Purissima Concezione e del negoziante Andrea Oddone; l’immobile da valutare era una proprietà del monastero, il negoziante Oddone era interessato al suo acquisto; i confini sono piuttosto chiari: situata difronte alla casa Cortese (2602), fra una casa dei Padri Mercedari (2631) e la casa degli eredi Fulger (2629), dietro aveva la casa di Salvatore Melis (che aveva acquistato la casa degli eredi Pintor), confermando così che, almeno anticamente, l’unità 2630 era più profonda di quanto figuri nella pianta di metà ‘800, forse con un cortile nella parte retrostante; fu stimata per scudi 872 e due reali, cioè lire 2180 e 10 soldi.

Dieci giorni dopo, con atto dello stesso notaio, la casa fu ceduta in enfiteusi perpetua ad Andrea Oddone; fu stabilito il canone annuo di 50 scudi; la casa posseduta dal Monastero, detta “del quondam don Lucifero Aymerich”, era composta da una bottega, e due piani, munita di cisterna, ed era stata ceduta da Aymerich col patto che venissero pagati 48 scudi annui a due sorelle Aymerich (evidentemente figlie o parenti strette di don Lucifero) monache del convento di Santa Chiara, a partire dalla data di morte dello stesso don Lucifero[1].

E’ probabile che il contratto d’enfiteusi sia stata interrotto dallo stesso Oddone: egli, nel 1809, ebbe in enfiteusi la casa 2604, sull’altro lato della stessa strada[2].

Andrebbe certo verificato se ci fu un passaggio di proprietà fra il 1797 e il 1804 dal Monastero di Santa Lucia a quello della Purissima, oppure se uno dei documenti citati è inesatto (il primo è il più incerto).

Nella denuncia per il donativo del Monastero di Santa Lucia, del 1799, non c’è nessuna casa che potrebbe corrispondere alla casa 2630, e non è stato rintracciato il donativo del Monastero della Purissima Concezione.

Una conferma arriva dal primo registro del Catasto, appena successivo al 1850, nel quale l’unità 2630 risulta appartenere al Monastero della Purissima, che ne conservò la proprietà, aldilà dell’enfiteusi concessa. 



[1] Utilizzando i dati messi a disposizione nel sito http://www.araldicasardegna.org/,  Lucifero Aymerich dovrebbe essere un figlio di don Demetrio e di donna Teresa Asquer, battezzato nel 1701, di cui si ignora la data di morte e la discendenza.

[2] Non si hanno molte notizie di Andrea Oddone (anche Odone e Odoni): appartenente ad una famiglia di origine piemontese o ligure, può identificarsi con un figlio di Simone Oddone e Caterina Calbs, sposato con Antonia Gianone 

 

2631     

Era una casa di proprietà del Convento dei Padri Mercedari di Bonaria (o Mercenari, come venivano spesso erroneamente chiamati); se ne trova citazione in atti del 1789 e del 1792, relativi alle diverse parti che componevano l’unità 2633, e in atti del 1804 relativi alla casa 2630; in uno di questi ultimi è scritto che la casa dei Padri Mercedari era stata concessa in enfiteusi a un Pittaluga del quale non è riferito il nome di battesimo.

Un atto del notaio Francesco Antonio Vacca del 24.07.1804 riporta l’estimo eseguito su una casa dei Padri Mercedari, richiesto dagli stessi Padri e dal negoziante Antonio Pittaluga Demoro; era composta da piano terreno e due superiori, sita nella strada di Barcellona, identificabile chiaramente con l’unità catastale 2631 grazie ai proprietari confinanti; il mastro muratore Francesco Usay e il mastro falegname Pasquale Marteddu la valutarono complessivamente in lire 3634, soldi 14, denari 6; con atto di stessa data la casa fu concessa in enfiteusi ad Antonio Pittaluga per 92 scudi e mezzo l’anno, col patto che costruisse un altro piano. Era chiamata casa di “Carinena”, dal nome di un precedente proprietario.

La casa è quindi quella da cui nel 1812 il Convento ricavava un canone enfiteutico annuo di lire 231 pagato da Antonio Pittaluga; è quel che riferisce la dichiarazione per il donativo dei Padri Mercedari.

Antonio Pittaluga dovrebbe identificarsi col primo figlio di Francesco Pittaluga e di Teresa Demoro, nato nel 1772.

Il Convento ne era ancora proprietario a metà ‘800, come risulta dal Sommarione dei Fabbricati.

In un atto del maggio 1890, relativo alla vendita della casa 2632, la casa 2631 è detta casa Serpieri (Enrico Serpieri, Rimini 1809 - Cagliari 1872), mentre in altro atto notarile del dicembre 1900, relativo alla vendita della casa 2633, viene detta casa Carlomagno già Serpieri.

 

 

2632     

In due atti notarili del 1789, relativi alla casa 2633, l’unità 2632 è la “nuova” Dogana Civica, spostata dalla casa 2602 sull’altro lato della strada Barcellona. Le stesse notizie vengono fornite da altri atti notarili del 1790 e 1792 relativi alla casa 2602.

Con atto notarile del 1813, donna Francesca Montagnana cedette al nipote Raimondo Marramaldo una proprietà censuale di lire 3750, prezzo di due case vendute diversi anni prima dalla dama Montagnana alla Città per la riedificazione della Dogana Civica, e di cui le veniva corrisposto l’annuo frutto di lire 187 e 10 soldi, al 5%; l’atto notarile con cui era stato stabilito il censo era datato 06.10.1786, corrispondente alla vendita delle due case.

In una causa civile del 1827, relativa alle proprietà del negoziante Agostino Melis, la sua casa 2633 confinava lateralmente, sul lato di levante, con la Regia Dogana.

La dogana era munita di un porticato antistante la casa; ancora dopo il 1850 era di proprietà della città di Cagliari, come risulta dal Sommarione dei Fabbricati, e nel 1890 venne venduta dal Municipio ai commercianti fratelli Emanuele (1851-1923) e Giovanni Garzia (1853-1937)[1]; essi, fra il 1890 e il 1894, costruirono in quell’area la prima ala del loro palazzo sulla nuova via Roma; la vecchia casa era composta dal piano terra, un mezzanino e due piani alti, e venne ceduta per £ 35050 a saldo, col patto che entro 3 anni si costruisse un fabbricato nella linea dei nuovi fabbricati di via Roma, occupando anche l’area antistante che il municipio cedette, unitamente con la vecchia casa, ai fratelli Garzia[2]. 



[1] figli di Francesco Garzia dell’isola d’Ischia, e di Rita Carta di Cagliari

[2] i due portoni del palazzo, al numero 2 della via Barcellona, e al numero 93 della via Roma, sono sormontati da un monogramma contenente le lettere F e G, a ricordare la ditta Fratelli Garzia

 

2633

Questa unità catastale sulla mappa è formata da una parte sulla piazza del Molo (via Roma) e una parte con facciata sulla strada Moras (via Napoli); da un atto notarile del dicembre 1788 si sa che la prima era del cavalier Pietro Massa, che la vendette nel dicembre 1766 al negoziante Agostino Melis (detto Gattixedda); quando rimase vedovo di Maria Paola Denegri (-1788) il Melis, che abitava proprio nella casa 2633, fece effettuare un inventario dei beni suoi e della moglie e con atto notarile del 20.08.1789 donò la casa al figlio secondogenito Salvatore (1752–), che viveva in quel periodo a Barcellona; era composta da 3 piani alti, un sòttano e magazzino; Agostino morì poco tempo dopo (entro il 1790); Salvatore viene ricordato come proprietario della casa in alcuni documenti del 1797, 1798 e 1800; era mastro e negoziante, non è stato rintracciato il suo donativo e non si sa quando sia tornato da Barcellona; rimasto vedovo della prima moglie Giovanna Pladeval e della seconda Teresa Pladeval (Teresa era sorella di Giovanna, e dal 1793 era vedova di Francesco Melis, fratello di Salvatore), nel 1804 si risposò con Anna Campus (o Campi); da suo figlio Gerolamo (1785-) e da Grazia Romagnino nacque nel 1834 Enrico Melis Romagnino, architetto, e da quest’ultimo e da Annunziata Marini nacque nel 1871 il noto artista Felice Melis Marini.

La parte sulla strada Moras era anticamente del conciatore Joseph Frongia, ed era a sua volta divisa in due parti: da un atto notarile del 26.08.1792 si sa che Joseph Frongia ne vendette una parte a suo genero mastro Salvador Pinna il 15.09.1756, e il Pinna con sua moglie Teresa (o Giuseppa) Frongia la vendette il 26.05.1788 al nipote (figlio di Maria Antonia, sorella di Teresa) Agostino Pintor Frongia; l’altra parte sulla strada Moras, che era stata acquistata da Joseph Frongia nel 1722 dal monastero di Santa Lucia, fu ereditata da suo figlio dottor Pedro Maria Frongia; nel 1787 Pedro Maria la lasciò in eredità al nipote (figlo di sua sorella Maria Antonia) Agostino Pintor Frongia, che perciò nel 1788 diventò proprietario della intera casa 2633 sulla strada Moras. Col citato atto del 26.08.1792, Agostino Pintor Frongia ipotecò le due case per garantire il pagamento delle pensioni al 5% su un capitale di 1000 scudi, ottenuti dal rettore di Luras, reverendo dottor Pietro Addis.

Agostino Pintor Frongia morì celibe e senza testamento il 16.05.1793; i suoi beni furono ereditati dai numerosi fratelli e sorelle; per un breve periodo, dopo la morte di Agostino, nella casa, o in una delle due, abitò uno dei fratelli Pintor, il mastro conciatore Domenico, fatto che portò ad una lite in tribunale con i fratelli, e che portò alla vendita a Salvatore Melis, con atto del notaio Dessì del 08.04.1795, della parte più grande, quella più a nord, come si dirà più avanti.

In data 07.08.1805 la parte sud sulla strada Moras[1] fu sequestrata agli eredi Pintor Frongia e si procedette con la vendita in pubblica asta; la richiesta di sequestro proveniva dal reverendo di Tempio Pietro Addis, a seguito del censo di 1000 scudi acceso nel 1792 per il quale evidentemente non erano state pagate tutte le pensioni; il 27.10.1807 fu assegnata al notaio Gerolamo Palmas; si trattava di una parte piuttosto piccola, nonostante fosse formata dal piano terreno e due piani alti; questi i confini: davanti aveva una casa dei padri Mercedari di Bonaria (2263), da un lato la casa di Bartolomeo Mandis (2634), dall’altro lato la casa che un tempo era degli stessi eredi Pintor Frongia e poi di Salvatore Melis (2633, parte nord sulla strada Moras), alle spalle la casa dello stesso Salvatore Melis (2633, parte sulla strada San Francesco).

I proprietari a cui fu sequestrata erano i fratelli Pintor Frongia, eredi del defunto Agostino loro fratello: il reverendo Francesco (beneficiato della primaziale), Gerolamo (capitano della milizia urbana), Bernardo, (negoziante), mastro Domenico, mastro Michele, Maria Rita, e i figli della defunta Monica, sotto la tutela del loro genitore Rafaele Giuita.

Il notaio Palmas era solo un intermediario: infatti con atto notarile del 10.12.1807 cedette la casa al negoziante Pasquale Gorlero; affermò di aver presentato la sua offerta a nome del Gorlero, con i denari di quest’ultimo, con l’intenzione di cedergli la proprietà una volta assegnata.

E’ possibile che poco tempo la parte di Gorlero sia stata acquistata dallo stesso Salvatore Melis, che diventò proprietario di tutta la casa 2633; infatti non si fa più menzione della proprietà Gorlero e, in data 25.08.1809, il Melis dovette riconoscere di essere in obbligo di pagare due ipoteche di lire 5000 e lire 2500 cui era sottoposta la casa, ipoteche accese dai precedenti proprietari con atti del 10.08.1791 e del 26.08.1792, il creditore era ancora il rettore di Luras reverendo Pietro Addis, dimorante in Tempio.

In un atto notarile del 09.03.1811, relativo alla casa 2262 della strada Mores, quest’ultima aveva davanti una casa del negoziante Salvatore Melis (1752-).

Una causa civile del 1827 permette di ricostruire i vari passaggi di proprietà: la causa fu iniziata dalla cagliaritana Anna Maria Magnon, che citò in giudizio il negoziante Agostino Melis, figlio di Salvatore; la donna, in data 18.07.1822, aveva acquistato da Agostino Melis un censo di lire 2500, con pensione annua al 6% di lire 150; il censo era caricato sopra due immobili di proprietà del Melis; nel 1827, a causa di problemi economici del Melis, le due case furono esposte al pubblico incanto, su richiesta di don Carlo Quesada, marchese di San Sebastiano, per crediti che egli vantava verso il Melis; le due case erano state donate da Salvatore Melis (1752-) al figlio Agostino in data 28.04.1811, e si trattava esattamente delle due parti dell’unità catastale 2633: la parte sulla strada del Molo, confinante con la Regia Dogana (2632), era stata donata a Salvatore Melis (1752-) da suo padre Agostino con atto notarile del 20.08.1789, e quest’ultimo l’aveva comprata dai fratelli e sorelle cavalieri Massa il 24.12.1766, per 825 scudi; la parte sulla strada Moras era una casa grande di 3 piani stimata lire 5004 e soldi 16, situata fra le case Fulger (2629) e Mandis (2634); Salvatore Melis l’aveva acquistata dagli eredi Pintor Fongia in data 08.04.1795.

Dopo il 1850, dal catasto, le due parti risultano entrambe appartenere al segretario civico Luigi Novaro (1799-1859), figlio dell’omonimo Luigi Novaro e di Marianna Lezzani; la proprietà Novaro comprendeva una casa sulla via Roma formata da piano terreno e 3 piani alti, e una casa sulla via Mores con piano terreno e due piani, con un terzo piano che era unito alla casa precedente. Nel 1859 la casa venne ereditata dall’avvocato Luigi Novaro, figlio del precedente Luigi e di Francesca Floris Franchino; alla sua morte, il 26.07.1899, fu ereditata da Elisa (Elisabetta) Novaro, figlia dell’avvocato Luigi e di Vittoria Floris Thorel; donna Elisa Novaro morì il 16.05.1900 a 35 anni, appena 8 giorni dopo la morte del marito trentanovenne capitano Vittorio Selis. I loro beni furono ereditati dai 5 figli: Giuseppa, Vittoria, Luigi, Emanuele, Enrico, nati fra il 1890 e il 1898.

In data 29.12.1900 l’intera casa venne venduta dagli eredi Selis Novaro ai fratelli Emanuele (1851-1923) e Giovanni Garzia (1853-1937); essi, a partire dal 1903, costruirono sull’area delle case 2633 e 2634, e sull’area antistante ceduta dal Municipio, la seconda ala del loro palazzo sulla via Roma.



[1] C’è la possibilità che le due case sulla strada Moras non corrispondessero esattamente all’unità 2633: quella più a sud potrebbe coincidere con la parte più a nord dell’unità 2634, visti i confini dichiarati nell’atto di vendita del 1807: risulta infatti che aveva davanti una proprietà del convento di Bonaria, identificabile con la casa 2263, che corrisponde sull’altro della via alla parte alta dell’unità 2634 

 

2634

In atti notarili del 1789 e 1792, relativi alla casa 2633, risulta appartenere al negoziante Salvatore Mandis (soprannominato Sa Scafa); Salvatore rimase vedovo nel 1796 di Francisca Aru e nel 1798 venne effettuato l’inventario dei beni della famiglia, che comprende diversi immobili nella Marina; la casa 2634 è descritta con “llano terreno e dos llanos, cada llano sala, arcova y aposento”; in data 03.07.1798, in occasione della divisione dei beni della defunta Francesca Aru, la casa 2634 fu assegnata allo stesso vedovo Salvatore Mandis. Alla sua morte, agli inizi dell’anno 1800, fu valutata lire 2979, soldi 1, denari 8, ed entrò a far parte della quota ereditaria del figlio Bartolomeo, come conferma un atto notarile del 25.08.1800 relativo alla casa 2263, dove è detta “casa del quondam Salvatore Mandis, ora di suo figlio Bartolomeo”; questi ne era ancora proprietario al 1808: è citato nel donativo dell’agosto 1807 presentato dal cognato Carlo Franchino, proprietario di una casa vicina (2264), ed in atto del 12.07.1808 relativo alla casa 2263, entrambe sull’altro lato della strada Moras.

Nella causa civile del 1827, relativa alla casa Melis 2633, la casa 2634 è ancora detta degli eredi di Salvatore Mandis soprannominato Sa Scaffa.

Dal Sommarione dei Fabbricati risulta che a metà ‘800 appartenesse alle sorelle Placida, Candida e Chiara Rossi (1831?-1907), eredi del padre Domenico.

In data 15.05.1896 detta casa, al numero civico 34 della via Mores, fu sequestrata a Maria Chiara Rossi del fu Domenico, e assegnata in pubblica asta ai fratelli Emanuele e Giovanni Garzia figli del fu Francesco, per lire 10000; era affittata in quel momento al signor Raimondo Loddo fu Efisio, e composta dal piano terreno e 2 piani alti .

I fratelli Garzia, dopo aver acquistato anche la confinante casa 2633, vi costruirono a partire dal 1903 la seconda ala del loro palazzo sulla via Roma.