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Isolato C1: Gesus/S.Eulalia/Saline/vico San Francesco

(via Cavour, via Sant’Eulalia, via Sardegna, via dei Mille)

numeri catastali da 2615 a 2621

 

l’isolato è stato colpito dai bombardamenti del 1943: la casa all’angolo fra la via Sardegna e la via Sant’Eulalia, e quella confinante sulla via Sardegna, sono state sostituite da due edifici recenti; la via ne ha guadagnato in ampiezza, ne ha perso in estetica.

2615

Era la casa di proprietà e di abitazione dei fratelli Giovanni Battista e Antonio Gastaldi; citata in un atto del febbraio 1790 relativo alla casa Doneddu 2587, apparteneva già allora ai fratelli Gastaldi, che l’avevano acquistata da due diversi proprietari: la parte in alto, all’angolo con la strada Gesus, nel 1786 dai coniugi Francesco Laurero e Anna Marras; la parte all’angolo con la strada Saline era stata acquistata dal solo Giovanni Battista dall’Azienda ex-gesuitica, in data non conosciuta; i coniugi Laurero-Marras l’avevano avuta in eredità dal canonico Pedro Antonio Marras, citato come antico proprietario in atto del 1792 relativo alla casa 2901; da una causa civile relativa alla eredità Gorsiglia, in relazione alla casa 2903, si fa riferimento agli eredi del canonico Marras che erano proprietari della casa 2615 già nel 1779.

Nel 1793, la casa e l’isolato di cui fa parte, furono teatro della seguente vicenda: il 28 gennaio, durante il bombardamento francese su Cagliari, alcuni soldati della milizia che combattevano nel molo di Sant’Elmo videro una bandiera che sventolava da un terrazzo della Marina: pensando a dei segnali mandati al nemico, alcuni di loro circondarono l’isolato fra le attuali via Cavour, via dei Mille, via Sardegna, via S.Eulalia e penetrarono nelle abitazioni sfondando le porte; le case erano per lo più vuote, in quanto la maggior parte degli abitanti si era allontanata per paura della guerra; non si trovarono quindi i colpevoli, ma solo uno straccio appeso a una canna in un terrazzo (non della casa Gastaldi, ma della casa 2618, in quello stesso isolato, all’angolo fra la via Sardegna e la via Sant’Eulalia).

I fratelli Gastaldi, che si erano rifugiati a Settimo con le loro famiglie, erano le persone più note che vivevano in quelle case, ed avevano la fama di essere “filo-francesi”; furono perciò subito arrestati e interrogati; alla fine di una veloce inchiesta[1], che non poté riscontrare nulla, furono graziati il 29 marzo, giorno di venerdì santo; molti anni dopo, a fine ‘800, a causa di una interpretazione del letterato e giornalista Felice Uda[2] di una cronaca di quelle giornate, scritta dal canonico Gaetano Porcu Fabre e purtroppo andata perduta, i fratelli Gastaldi furono erroneamente ricordati come i proprietari del “Padiglione Nazionale”, luogo di cospirazione dove si riunivano i Cagliaritani “filo francesi”; è probabile che si parlò in quella cronaca del “Pavillon National”, tradotto malamente “Padiglione Nazionale”, in realtà “Bandiera Nazionale” della Francia repubblicana sventolante in un terrazzo, e che in realtà era solo uno straccio appeso al sole [3].

Oltre alle due famiglie Gastaldi, nel 1793 vi abitava in affitto, in un mezzanino, il notaio Alessandro Alciator [4]; nel 1809 un magazzino fu affittato al caffettiere Fortunato Imerone. Non doveva essere molto dissimile da come è ora: i fratelli Gastaldi l’avevano sicuramente ristrutturata, anche perché dovettero unire due case per farne una.

Con atto notarile del 13.08.1810 il Gastaldi spostò un’ipoteca che gravava su un magazzino del borgo San Bernardo (che cedette al figlio Francesco) sulla casa di abitazione; l’ipoteca, di scudi 550, era stata accesa il 29.03.1792 e caricata su quel magazzino (acquistato nel 1784), e rappresentava la dote di 500 scudi della moglie Anna Filippa Cossu, costituita da genitori della donna, e Gastaldi vi aggiunse 50 scudi di extra-dote; ne pagava gli interessi al conte Gaetano Pollini, e si era impegnato a versarla ai suoi figli in caso di premorienza della moglie; non si conosce la data di morte di quest’ultima, ma nell’agosto del 1810 era già defunta, probabilmente da poco tempo.

Nel testamento di Giovanni Battista Gastaldi, del 04.08.1812, è specificato che il fratello Antonio era proprietario della metà della casa acquistata assieme, con l’esclusione della porzione acquistata dal solo Giovanni Battista dall’Azienda ex-Gesuitica. Gli eredi di Giovanni Battista erano i 6 figli avuti con la defunta moglie Anna Felippa Cossu Canu; con atto del 24.12.1812 gli eredi Gastaldi (il baccelliere Francesco, il militare Raimondo, Michela coniugata Rossi, Teresa coniugata Valle, Giovanna vedova Battilana e poi coniugata Martelletti, mentre il sesto figlio Gio Antonio morì celibe nel settembre 1812), cedettero allo zio notaio Antonio la parte della casa sulla contrada delle Saline, mentre Antonio cedette ai nipoti la metà della casa acquistata con atto del notaio Trogu del 13.05.1786 dai sigg. Anna Marras e Francesco Laurero.

Con atto notarile del 18.11.1813 Francesco Gastaldi acquisì dai suoi fratelli le quote della casa, confinante fra le altre con la casa dello zio Antonio (2615, parte bassa).

Vi sono un’infinità di documenti che confermano questa attribuzione, ed una testimonianza diretta: la casa infatti, dopo la morte di Giovanni Battista (1812) e di Antonio (1814), fu acquisita per intero da Francesco Gastaldi, figlio di Giovanni Battista, e da lui passò per successione alla figlia Francesca coniugata nel 1831 col dottor Vincenzo Angius, da cui arrivò per successione alla famiglia Orrù; Paola Orrù Cattaneo, socia del Centro sardo Studi Genealogici, ebbe modo di raccontare che suo padre era stato incaricato dalla famiglia di vendere la casa, la quale negli anni ’30 era di diversi eredi; lei stessa, quando era ragazzina, in alcune occasioni accompagnò il padre nella casa.

Questi dati contraddicono quanto si legge nel Sommarione dei fabbricati, che riporta erroneamente che la casa Gastaldi era a metà ‘800 la num. 2619, e attribuisce la 2615 all’Arciconfraternita del Sepolcro; ma, nelle mappe catastali coeve al Sommarione, sulla unità immobiliare 2615 si legge il cognome Angius, a confermare l’errata attribuzione presente nel registro.

Tenendo conto di questo errore, i proprietari di metà ‘800 erano i seguenti: Maria Antonia Doneddu (1777-1862) vedova di Francesco Gastaldi, le figlie Francesca (1812-1879) e Marianna Gastaldi (1807?-1871), maritate rispettivamente col dottore in leggi Vincenzo Angius (1799-1875) e con l’avvocato Edoardo Cappai (1803-1885), e Vincenzo Pipia, ispettore delle gabelle, che nel 1827 aveva sposato Raimonda Gastaldi (1808-) sorella delle precedenti.

In questa casa, allora in vico San Francesco, morì Marianna Gastaldi il 06.02.1871; vi morì il professor Vincenzo Angius il 26.11.1875; vi morì Francesca Gastaldi il 26.09.1879, quando l’indirizzo era diventato vico Roma 2.

 


[1] ASC, Fondo Reale Udienza, Cause Criminali, pandetta 15, busta 839

[2] Vita Sarda del 25.12.1892, Anno II numero 24, Critica Storica

[3] Per maggiori dettagli si vada nella sezione "Varie e approfondimenti/La Causa Gastaldi", accessibile direttamente dal bottone qui sotto

[4] Il notaio risulta abitare nella strada Gesus ancora nel novembre 1808, non si sa se nella stessa casa Gastaldi o in altra; la casa Gastaldi in realtà aveva gli ingressi nella discesa, attuale via dei Mille, la quale però, in assenza di altro nome, veniva chiamata discesa che porta a San Francesco, ma anche e di frequente strada Gesus, riferendosi alla via principale.

 

2616     

La casa confinante alla precedente sulla strada delle Saline, num. 2616, nel 1793 era abitata dagli eredi di Ignazio Serra, cioè il sacerdote Priamo Serra e Maria Sebastiana (Minnia) Serra, probabilmente fratello e sorella, con il marito orafo Nicola Murru; queste informazioni provengono dalla causa penale contro i fratelli Gastaldi, citata nel precedente paragrafo; nel 1799 Maria Sebastiana Serra pagava 25 scudi annui all’Arciconfraternita dei Santi Giorgio e Caterina, forse per un canone enfiteutico, e nell’ottobre 1800 vi morì, lasciando i figli Giuseppe, reverendo Luigi, Francesca, Anna e Teresa;  il sacerdote Luigi Murru viene ricordato nel donativo del 1807 del’Arciconfraternita del Sepolcro in quanto la sua casa di abitazione confinava con quella dell’Arciconfraternita numero 2617; in atto notarile del 1808, relativo alla casa 2617, è detta casa del Capitolo Cagliaritano; nel 1813, da atto relativo alla casa 2615, risulta essere ancora la casa degli eredi del mastro Ignazio Serra; a metà ‘800 risulta invece di proprietà del Capitolo di Cagliari.

Dai dati riferiti è chiaro che occorre colmare alcune lacune; si può però ipotizzare che fosse stata concessa in enfiteusi al mastro Ignazio Serra dall’Arciconfraternita dei genovesi (cioè dei santi Giorgio e Caterina), e che quest’ultima ne avesse ceduto la proprietà al Capitolo fra il 1799 e il 1808.

 

2617     

La casa successiva, sulla strada Saline, nel 1793 era di proprietà dell’Arciconfraternita del Sepolcro; dalla Causa Penale Gastaldi, già citata per la casa 2615, si sa che in quell’anno vi abitavano Lucrezia Frau Calvo, la serva Rita Pistis, la figlia di quest’ultima Maria Grazia Murgia col marito notaio Giovanni Baxu Cadello nativo di Gavoi. Lucrezia Frau Calvo morì il 10 maggio 1801, lasciando tutti i suoi oggetti personali a Maria Grazia Murgia.

Atti notarili del 1796, 1798, 1807 e del 1812, confermano la proprietà dell’Arciconfraternita, che dichiarò la casa nel donativo del 1807; con atto del notaio Gio Batta Azuni del 21.11.1808 i guardiani dell’Arciconfraternita la affittarono per 6 anni, e per 48 scudi annui anticipati, al negoziante livornese Francesco Calamaro; fu necessaria la garanzia del padre, negoziante Raimondo Calamaro, e l’impegno da parte dell’affittuario di occuparsi a sue spese di alcune riparazioni necessarie; egli abitava già in una parte della casa, composta da un magazzino al piano terreno, due piani alti e la terrazza; fu autorizzato ad abitarla o subaffittarla tutta o in parte; Francesco Calamaro, confratello benemerito della Arciconfraternita, si decise a chiederla interamente in affitto per liberarsi dell’altra affittuaria, tale Chiara Rocchetto; si legge nell’atto notarile che la donna “molesta il supplicante e la sua famiglia con parole ingiuriose e si impadronisce dell’acqua che spetta a metà al supplicante, e vuole scacciarlo di casa con continue minacce”. Non si sa se egli sia riuscito senza ulteriori problemi ad allontanare Chiara Rocchetto. 

La casa era una proprietà dell’Arciconfraternita del Sepolcro ancora a metà ‘800, come risulta dai dati del catasto. Non è più esistente, sostituita da un edificio costruito nel secondo dopo guerra.

 

2618

Era la casa ad angolo fra la strada delle Saline e la discesa di S.Eulalia, non più esistente, sostituita da un edificio più recente; era di proprietà di Maria Giuseppa Paderi, vedova del dottore in diritto Giuseppe Angelo Porcu. La vedova l’aveva avuta in dote nel 1764 da suo padre, il Segretario Giacinto Padery, il quale l’aveva comprata il 03.03.1756 dai coniugi Michele Martini e Giovanna Lecca, e questi l’avevano comprata all’incanto il 18.03.1739 dai beni della vedova Vittoria Cossu; la fonte di queste informazioni è un atto notarile del 15.10.1796 (archivio Martini) con cui la vedova Paderi ipotecò la casa per avere 100 scudi a censo dall’Arciconfraternita di Santa Lucia, e per i quali pagava 15 lire di pensione annua al 6%.

Nel 1799 Maria Giuseppa Paderi dichiarò la proprietà della casa, composta dal piano terra e due piani alti, affittata per scudi 22 annui; la donna abitava invece in altra casa di proprietà dell’Arciconfraternita di Santa Lucia nella strada Gesus, numero catastale 2588, come risulta da una causa civile del 1796 e da atti notarili del dicembre 1799 e del maggio 1801; dalla causa civile appena citata si sa che Maria Giuseppa Paderi, vedova dal 1795, nel 1811 abitava nella strada dei Siciliani, e morì prima del 28 novembre 1812; aveva due figli, il notaio Francesco Porcu e Anna Porcu, che nel 1796 denunciarono la madre per avere la loro parte d’eredità paterna.

Da altra causa civile iniziata nel 1832 si sa che nel dicembre 1814 i fratelli Francesco ed Anna Porcu vendettero la casa al “panataro” genovese Giuseppe Sesselego; questi morì nel 1825 e i suoi beni furono ereditati dai figli; in quell’anno la famiglia non abitava nella casa 2618, ma in una di fronte a questa, numero 2625, di proprietà di don Litterio Cugia Manca; il negoziante Andrea Oddone, curatore dei figli minori del defunto Giuseppe Sesselego, si adoperò per liberare dagli affittuari la casa di proprietà e per farla restaurare, ed essa fu quindi l’abitazione degli eredi Sesselego almeno fino al 1832; era composta da due piccoli piani alti e uno terreno, con due facciate, una sulla strada delle Saline, l’altra sul viottolo (cioè la parte più bassa della strada di Sant’Eulalia); erano almeno nove i figli del defunto Sesselego, fra loro i maggiori erano Caterina (1803-1879) coniugata col negoziante svizzero Josias Pernis (1797-1895), Michela (1813-) coniugata col parrucchiere Giuseppe Mura, e Giacomo (1808-1875) che diventò speziale. Michela citò in giudizio la sorella Caterina e il cognato Pernis, contestando loro la cattiva amministrazione dell’eredità paterna, costituita dalla casa, da una barca da pesca e dalle merci e attrezzature della bottega situata nella strada di Barcellona, dirimpetto alla chiesa di S.Lucia; uno dei pezzi pregiati dell’inventario dei beni ereditari era un “torchio da far paste”; Michela accusava Caterina di essersi impadronita della eredità paterna, dopo la cessione dell’amministrazione da parte di Andrea Oddone, anche perché il marito Josias Pernis era oberato dai debiti.

Dal Sommarione dei fabbricati risulta che dopo il 1850 la casa fosse di proprietà del Convento dei Padri Minimi di San Francesco.

Per quel che riguarda il cognome Sesselego e la variante meno frequente Sessego, diffusi in maniera significativa solo in Sardegna, è più che probabile che derivino dal cognome Sessarego, ben presente in Liguria (Genova e Bogliasco), dove è anche il nome di una frazione del comune di Bogliasco (GE).

 

2619     

E’ la casa ad angolo fra la discesa di Sant’Eulalia e la strada Gesus; dalla Causa Penale Gastaldi, già citata per la casa 2615, risulta che nel 1793 vi abitasse il notaio Nicola Murroni che era stato l’anno prima Giurato e Obrero della città; nel 1793 Murroni era ottantenne e vedovo, vi abitava con la figlia Maria Francesca, l’unica rimasta nubile fra i tanti suoi figli. E’ probabile che il Murroni vi abitasse da diversi anni: nel 1779 aveva affittato un basso della casa della strada Gesus al tavernaio Salvatore Siotto, col quale entrò in lite[1]; dopo la morte del notaio Murroni (14.09.1794), Maria Francesca abbandonò la casa e morì a Pirri nel 1800. Il notaio Murroni era probabilmente un affittuario o enfiteuta, la proprietà era già da allora dell’Arciconfraternita del Sepolcro; nel 1796 fu ceduta al notaio Francesco Ignazio Vargiu, come risulta dall’atto notarile relativo alla casa confinante 2618; anche quella di Vargiu non doveva essere una piena proprietà, forse una enfiteusi, visto che l’Arciconfraternita del Sepolcro la dichiarò fra i suoi beni nel donativo del 1807, descrivendola come casa di due piani, in tutto 8 stanze, e un “sòttano”; la proprietà del Sepolcro è citata in atti notarili del dicembre 1810, relativi alla casa 2623, e non era cambiata nel 1825, come risulta dalla causa civile fra le sorelle Sesselego, citata nel precedente paragrafo.

Nel Sommarione dei Fabbricati successivo al 1850, per l’errore di cui si è riferito per la casa 2615, la casa 2619 è attribuita agli eredi Gastaldi, e la casa 2615 all’Arciconfraternita del Sepolcro, ma si tratta solo di uno scambio di numeri. 



[1] ASC, Reale Udienza, Cause Civili, pandetta 54, busta  1795 fascicolo 20033 

 

2620

La casa confinante con la precedente, con facciata sulla strada Gesus, fu acquistata il 09.02.1791 dai fratelli Giovanni Battista e Antonio Gastaldi (gli stessi proprietari della casa 2615) da don Antonio Salazar di Iglesias, che l’aveva ereditata dal padre. Vi abitava allora la vedova Rosa Sciaccaluga Carta, con cui i Gastaldi entrarono in lite nel maggio del 1791, in quanto inquilina morosa e 'para necessitar la misma (casa) de restauracion indispensable'; infatti i fratelli Gastaldi, nei giorni dell’invasione francese del gennaio 1793 la facevano restaurare o riedificare, come risulta dalla causa penale citata per la casa 2615. I proprietari la dichiararono nella denuncia per il donativo del 1799, ed era composta da 2 piani alti e un piano terreno, in tutto 14 stanze fra grandi e piccole, con 4 balconi in ferro, due cisterne, un piccolo cortile, affittata per lire 287 e soldi 10; fu venduta il 04.06.1807 al negoziante di Lavagna (GE) Francesco Ravenna, che venne infatti nominato nel donativo del 13.08.1807 dell’Arciconfraternita del Sepolcro, in quanto confinante della casa 2619; si ha conferma anche da atto notarile del novembre 1808, relativo alla casa 2617, confinante con la proprietà Ravenna per la parte posteriore; con atto del notaio Gio Batta Azuni del 16.03.1809, Francesco Ravenna incaricò due periti falegnami per valutare una partita di tavole di pino di Corsica (ben 150 dozzine) che, in parte tarlate e inutilizzabili, aveva stipato nel magazzino della sua casa della strada Gesus.

Lazzaro Ravenna (1796-1882), figlio di Francesco, era ancora proprietario della casa a metà '800, come risulta dai registri del primo catasto urbano.

 

2621

Questa casa era originariamente composta da due unità immobiliari, ed entrambe le parti erano di proprietà dell’Oratorio della Beata Vergine d’Itria; il primo riferimento rintracciato è del 1779, proviene da una causa civile relativa alla eredità Gorsiglia: viene citato l’Oratorio d’Itria in quanto proprietario della casa 2621, frontale alla casa 2903.

Nella parte attigua alla casa 2615 vi abitava come affittuario già nel 1793[1] Andrea Marzano, pesatore del formaggio e, dopo la sua morte (gennaio 1798), la sua vedova Vincenza Spettu; dalla denuncia per il donativo del 22.06.1799, presentata da Bartolomeo Zenoardo come procuratore dell’Oratorio della Beata Vergine d’Itria, risulta che il piano terreno fosse affittato al mastro Francesco Adamo, mentre i due piani alti, composti in tutto da 4 stanze e cucina, erano ancora abitati da Vincenza Spettu vedova Marzano; nel 1799, il piano terreno della parte contigua alla casa 2620 era affittato al reverendo Pasquale Martini, mentre la parte alta non poteva essere affittata in quanto i lavori di riedificazione erano bloccati da una lite iniziata nel 1792 con i fratelli Gastaldi, proprietari di entrambe le case confinanti 2615 e 2620; la lite riguardava il fatto che la sopraelevazione di un muro nel cortile della casa dell’Oratorio avrebbe tolto luce a 2 o 3 finestre di una delle case Gastaldi.

Dalla dichiarazione per il donativo del 1799 risulta che queste due case, come altre proprietà dell’Oratorio, provenissero da un legato testamentario del 1728 del confratello Gio Batta Alard di Nizza, col vincolo di “distribuire tanti vestiti a Signore povere”.

Nel dicembre 1805 si arrivò finalmente a chiudere la lite con i fratelli Gastaldi; in atto notarile del 05.07.1806 venne riportato l’estimo sui lavori compiuti sulle due case, lavori pattuiti fin dall’agosto 1792 e non portati a termine a causa della lite; il mastro muratore Pasquale Cao e il mastro falegname Angelo Cardu (Capo Mastro Regio) valutarono i lavori fatti fino a quel momento in lire 1577, soldi 12, denari 4; l’estimo era stato chiesto dagli “Illustrissimi Signori Governatori e Congiunti della Venerabile Confraternita dell’Oratorio della Santissima Vergine d’Itria, cioè il Negoziante Antonio Garzia, l’Avvocato Cavalier Don Luigi Castelli e il Negoziante Nicolò Puddu”; con atto notarile del 17.07.1806 il mastro muratore Raffaele Manca e il mastro falegname Antonio Fadda rilasciarono una ricevuta di pagamento per la somma di lire 302, soldi 12, denari 4, a saldo dei lavori da loro eseguiti sulla casa; erano stati pagati solo in parte: una prima rata alla firma del contratto di impresa, in data 24.08.1792, e una seconda rata il 16.12.1792; chiusa quella partita, il 25.08.1806 i governatori della Confraternita si accordarono con i Mastri Cao e Cardu e firmarono “l’atto d’impresa per perfezionare le due case”; nel dicembre 1806 i lavori erano in corso: il giorno 24 il mastro muratore Pasquale Cao e il mastro falegname Angelo Cardu firmarono la ricevuta per lire 440, seconda rata a loro dovuta dalla Confraternita per i lavori pattuiti.

La proprietà dell’Oratorio è confermata nei donativi del 1807 ed in atti notarili del 1807, del 1812 e del 1813, relativi alle confinanti case Gastaldi 2620 e 2615. 

Tutta l’unità catastale 2621 risulta ancora di proprietà dell’Oratorio della Beata Vergine d’Itria dopo il 1850.



[1] Causa Gastaldi, ASC, Fondo Reale Udienza, Cause Criminali, pandetta 15, busta 839