Usare il tasto sinistro del mouse per aprire la mappa al posto della pagina attuale;

usare il tasto destro del mouse per aprire la mappa in un'altra scheda o in un'altra finestra, senza chiudere la pagina attualmente aperta.

ISOLATO L1: Costa/portico Sant’Antonio/discesa Sepolcro

(via Manno, portico Sant’Antonio, vico Manno)

numeri catastali da 2723 a 2727

l’isolato è rimasto integro: non si segnalano modifiche sostanziali rispetto alla situazione di 200 anni fa, a parte la probabile ricostruzione e sopraelevazione fino al quarto piano della casa 2726.

 

2723, 2724, 2727              
Il numero catastale 2723 corrisponde alla chiesa di Sant’Antonio Abate e alle sue pertinenze.

Due atti notarili del 1802, del 7 e del 10 agosto rispettivamente, riportano la notizia che il negoziante Martino Calderaro e la sua famiglia abitavano in una casa, con annessa bottega, situata fra la chiesa di Sant’Antonio ed il portico, esattamente davanti alla casa Capra (2409): dovrebbe quindi trattarsi di quella costruzione senza numero catastale situata appunto fra la chiesa ed il portico; il motivo per cui non le fu assegnato il numero catastale è con tutta probabilità legato alla proprietà, da attribuire all’ospedale di Sant’Antonio, e all’inscindibilità dell’edificio religioso da quello confinante; Martino Calderaro, nativo di Fosseno nel milanese, morì il 07.08.1802, e in quello stesso giorno Lucifero Caboni, notaio di Villanova, si recò nella casa del defunto per la lettura del testamento che gli era stato consegnato il 24 febbraio di quello stesso anno; eredi erano la vedova Agata Maria Bertola, anch’essa di Fosseno, i figli minorenni Efisio e Teresa, e la figlia Rosa, coniugata col negoziante Giovanni Galb (Kalb); il Calderaro, insieme al fratello Giambattista, gestiva anche un’altra bottega sita nella stessa strada della Costa, probabilmente poco più in basso, dopo il portico (2365).

In data 21.03.1806 Agata Bertola (o Bertolo), vedova di Martino Calderaro, scrisse il suo testamento in società col cognato Giovanni Battista Calderaro; si elessero eredi usufruttuari a vicenda, mentre eredi universali furono nominati i figli della Bertola, che avrebbero avuto tutti i beni dopo la morte di entrambi i testatori; nel caso però che Agata Bertola fosse morta prima del cognato, i figli avrebbero avuto subito la parte legittima, esclusa quindi dall’usufrutto. I figli erano Efisio, Rosa coniugata con Giovanni Kalb e Teresa coniugata con Giuseppe Antonio Capra.

Agata Bertola morì 5 giorni dopo, il 26 marzo; si sarebbe dovuto fare subito l’inventario dei suoi beni, ma essendosi “imbarcato per la terraferma” il figlio Efisio, si aspettò il suo ritorno; il giovane (era nato nel 1781) non poté tornare immediatamente a causa della “nota guerra” (c’era sempre qualche guerra nel periodo napoleonico, non si sa dove esattamente si fosse recato Efisio); il 14 giugno si trovava a Marsiglia, e fu chiesto alle autorità competenti il permesso di posticipare la formazione dell’inventario, che fu iniziato dal notaio Giovanni Battista Cicalò Galisai il 02.07.1806.

Il notaio si recò quindi nella casa e bottega dove viveva Giovanni Battista Calderaro, con tutta probabilita la stessa casa e bottega dove aveva vissuto e lavorato suo fratello Martino e dove morì Agata Bertola. L’inventario si compone di 60 fogli delle merci di bottega, dei generi più diversi; il totale inventariato fu di lire 19227, soldi 5 e denari 10, al netto di alcuni debiti.

La casa e le bottega appartenevano ai padri Ospedalieri di Sant’Antonio che, nella loro denuncia per il donativo presentata il 16.10.1807, dichiararono di possedere 9 botteghe nella strada della Costa, comprendenti un piccolo piano superiore; la prima bottega era attigua alla chiesa di Sant’Antonio, era affittata per lire 27 e 10 soldi, e la si identifica con l’unità catastale 2724; la seconda era una casa, attigua anch’essa alla chiesa, affittata per lire 90, e la si identifica con l’abitazione di Martino Calderaro; sia per l’affitto più elevato, sia perché è l’unica che viene definita casa, doveva essere di dimensioni maggiori; le successive botteghe si trovavano nell’edificio dell’ospedale, scendendo a sinistra, dopo il portico di Sant’Antonio (si veda l’unità catastale 2365).

I Religiosi Spedalieri nel loro donativo dichiararono inoltre di possedere 3 camere site nella discesa dell’ospedale, verso la chiesa del San Sepolcro, una “in prospettiva” a detta chiesa, affittata per lire 20 annue, una seconda attigua alla precedente ed attigua alla porta del carro del convento, affittata per lire 30, e una terza simile alle precedenti, sotto la sagrestia, utilizzata dagli stessi padri Spedalieri. Queste camere sono da identificare con il numero catastale 2727, e con gli spazi a cui non è stato attribuito numero catastale, a ridosso della chiesa.

In data 26.09.1806 venne stilato l’inventario di tutti i beni mobili, semoventi e stabili appartenenti allo Spedale della Marina sotto l’invocazione di Sant’Antonio Abate, e loro consegna al procuratore generale dei Padri Spedalieri della città, “in eseguimento degli ordini di S.M. del 15.09.1806”.

Fra i diversi beni immobili, l’inventario comprende una casa nella strada della Costa, attigua alla chiesa del convento dei Reverendi Padri Spedalieri, a sinistra scendendo verso Porta Stampace; Giuseppe Vacca ne pagava un affitto di 22 scudi annui, pari a lire 55, per metà di pertinenza dell’Ospedale, per metà della Sacrestia della chiesa; corrisponderebbe all’unità catastale 2724: l’Ospedale incassava lire 27 e 10 soldi, come dichiarato nel donativo prima citato; l’unità 2724 infatti non era una proprietà dell’Ospedale ma della chiesa di Sant’Antonio, amministrata dall’Ospedale: da ciò deriverebbe la divisione dell’affitto fra Ospedale e sacrestia di Sant’Antonio.

L’inventario comprende inoltre un’altra casa di un piano attigua alla stessa chiesa, per la quale Efisio Calderaro pagava l’affitto di scudi 30; quest’ultima dovrebbe corrispondere alla unità senza numero già di pertinenza di Martino Calderaro, padre di Efisio; (i 30 scudi corrispondono a 75 lire, inferiori alle 90 lire dichiarate nel donativo; potrebbe mancare l’affitto di una bottega, o forse le condizioni della casa portarono alla riduzione dell’affitto, anche in considerazione di possibili difficoltà della famiglia Calderaro).

Inoltre furono comprese nello stesso inventario due botteghe nella discesa che porta verso la chiesa del Sepolcro (attuale vico Manno), situate “in prospettiva di detta chiesa del Sepolcro”; sono identificabili con l’unità 2727 e con gli spazi privi di numero catastale attaccati alla chiesa di Sant’Antonio; ne pagavano l’affitto di scudi 8 (lire 20) il sarto Giuseppe Mezzanu, per quella più vicina alla porta del carro del convento, e di scudi 12 (lire 30) per l’altra il negoziante Giovanni Galb.

Con atto del notaio Nicolò Martini del 14.01.1808, Giuseppe Vacca nativo di Escolca e dimorante nella Marina, ottenne dai Padri Ospedalieri di San Giovanni di Dio la locazione per tutta la sua vita d’una casa e bottega nella strada della Costa, attigua alla chiesa di Sant’Antonio Abate; avrebbe pagato il fitto annuo di lire 75, pagabili a fine semestre, e si impegnò a fare le riparazioni necessarie nel tetto e nelle muraglie, e aggiungere un balcone di ferro entro anni 9, con finestra e porta; abitava la casa e la bottega già da 12 anni; si tratta dell’unità catastale 2724, già in affitto allo stesso Vacca. 

Dal Sommarione dei Fabbricati, successivo al 1850, risulta che l’unità 2724, costituita da casa e bottega, appartenesse alla chiesa di Sant’Antonio, amministrata dai padri ospedalieri; l’unità 2727 apparteneva in enfiteusi a Tommasa Licheri.

 

 

2725     

In atto del dicembre 1795, relativo alla casa Brouquier 2707, la parte sulla discesa del Sepolcro di quest’ultima casa aveva davanti una casa di proprietà della stessa chiesa del Sepolcro;

Sembra probabile che questa casa fosse una di quelle dichiarate nella denuncia per il donativo (senza data) del calderaro Pasquale Caredda, da lui fatta in qualità di amministratore della Cappella della Madonna della Pietà della chiesa del Santo Sepolcro [1].

Con atto del notaio Giovanni Battista Azuni, del 26.08.1806, i Guardiani dell’Arciconfraternita del SS Crocifisso dell’orazione e della morte, eretta nella chiesa del Santo Sepolcro, concessero in enfiteusi una casa nella Marina e contrada della Costa, col canone di scudi 46 a semestri anticipati, allo speziale Vincenzo Murru, sua moglie Teresa Capri, e ai loro figli legittimi; la casa era stata legata (con lascito testamentario non specificato nel presente atto) alla Cappella della Pietà della chiesa del Sepolcro, amministrata dall’Arciconfraternita; l’atto fu firmato da Monsignor don Pietro Maria Sisternes de Oblites, e dai negozianti Francesco Visca e Giovanni Frau, cioè i guardiani in Capo, secondo e terzo rispettivamente. Era composta dal piano terreno con la bottega e il piano superiore diviso in due stanze ed una piccola cucina; la si identifica con la casa 2725 e confinava per levante con altra casa della stessa Arciconfraternita (2726), per ponente con la chiesa di Sant’Antonio abate, per tramontana, attraverso la strada della Costa, con case del monastero della Cappuccine (2406 e 2407), e per mezzogiorno, al di là del vicolo, con la chiesa del Sepolcro. Vincenzo Murru avrebbe dovuto costruire un altro piano con non meno di scudi 500, entro 3 anni; era già abitata dallo stesso Murru, evidentemente in affitto.

Con atto del notaio Azuni del 28.11.1809, l’enfiteusi fu trasformata da “temporale” a ”perpetua”; il canone annuo fu aumentato da 46 a 50 scudi.

Con una concessione edilizia del luglio 1810, rintracciata nel fondo Regio Demanio Affari diversi, lo speziale Vincenzo Murru ebbe il permesso di inglobare nella sua casa, che doveva essere riedificata, un pezzo di terreno non utilizzato “che si rempie di immondizie”; era un piccolo pezzo di terreno di forma triangolare, di superficie piedi tre ed oncie 6 (il piede lineare corrispondeva a cm 52,47, mentre l’oncia corrispondeva a cm 4,37) che venne concesso al Murru per lire 21, soldi 17, danari 6; un lato era in prospettiva alla chiesa di San Sepolcro, l’altro lato confinava con la chiesa di Sant’Antonio, l’altro lato con casa del Murru; quest’ultima aveva due facciate, una sulla strada della Costa, l’altra sulla discesa della chiesa del Sepolcro: anche queste scarse note permettono di identificare la casa Murru con l’unità 2725.

E’ stato rintracciato un altro documento che cita la casa Murru: è un atto notarile del 26.04.1811, relativo alla casa 2406, sull’altro lato della strada della Costa; questa aveva davanti la casa dello speziale Vincenzo Murru.

Dal Sommarione dei Fabbricati, successivo al 1850, risulta che l’unità 2725 appartenesse in quel periodo all’ospedale di Sant’Antonio ed era una “casa in uso dall’ospedale”.



[1] Le due case dichiarate dal Caredda, entrambe nella strada della Costa, erano formate ognuna da due botteghe, un magazzino sul retro, un primo piano con due stanze; rendevano insieme lire 227 e soldi 10 ogni anno; l’altra casa corrisponde all’unità 2726

 

 

2726

E’ una di quelle case (2725 e 2726) che vennero dichiarate nella denuncia per il donativo (senza data) del calderaro Pasquale Caredda, da lui fatta in qualità di amministratore della Cappella della Madonna della Pietà della chiesa del Santo Sepolcro[1].

Con atto notarile del 14.05.1803 Pasquale Caredda, in qualità di “deputato e procuratore generale per i redditi della Cappella della Vergine Santissima della Pietà, eretta nella chiesa del Santo Sepolcro alias della morte”, concesse in locazione per 3 anni una casa sita nella calle della Costa, vicino alla Chiesa di Sant'Antonio abate, come si scende al “callejón” del Santo Sepolcro, cioè nel vicolo; la casa era composta da una bottega e un piano alto, fu concessa per 45 scudi annui al negoziante Giuseppe Campi, il quale si impegnò ad effettuare alcuni lavori di miglioramento, fra i quali la costruzione di una cucina, l’apertura di una finestra e di una porta.

Con atto del notaio Azuni del 26.08.1806 (stessa data dell’atto di enfiteusi relativo alla casa 2725), i Guardiani dell’Arciconfraternita del SS Crocifisso, prima citati, concessero in enfiteusi una casa nella Marina e contrada della Costa, col canone di scudi 45 a semestri anticipati, al negoziante cagliaritano Francesco Maria Porrà, a sua moglie Giuseppa Romagnino, e ai loro figli legittimi; come la confinante 2725, anche questa proveniva da un legato proprio della Cappella della Pietà, i cui beni erano amministrati dalla Arciconfraternita; era composta dal piano terreno e uno superiore, e confinava a levante mediante il vicolo con casa del negoziante Raimondo Vacca (2709), per ponente con casa della stessa Arciconfraternita appena concessa in enfiteusi allo speziale Vincenzo Murru (2725), per tramontana con case del monastero della Cappuccine (2405 e 2406) sull’altro lato della strada della Costa, per mezzogiorno con la chiesa del Santo Sepolcro, col vicolo in mezzo. Porrà, oltre a pagare il canone avrebbe dovuto costruire un nuovo pano con non meno di scudi 600, “in forma regolare e di buon gusto, al livello dell’attigua casa Murru”; la casa era fino ad allora abitata dal signor Giuseppe Campus (recte Campi); Porrà venne preferito al mastro Giovanni Loy che aveva chiesto anch’esso l’enfiteusi.

Con atto del notaio Lucifero Zuddas, del 11.09.1806, Francesco Maria Porrà e Giuseppe Campi firmarono un accordo secondo il quale il Campi avrebbe lasciato la casa per un periodo sufficiente per eseguire i lavori di ristrutturazione e sopraelevazione che il Porrà doveva completare entro 6 mesi; inoltre il Campi, che era proprietario di una bottega affittata al Porrà, si impegnò a lasciargli la bottega “per non privarlo della sua facoltà di mercante”; il Porrà a titolo di regalo, e per tutto il tempo dei lavori, avrebbe pagato al Campi 15 scudi al mese, e alla firma dell’atto gli consegnò 30 scudi, per due mensilità anticipate.

Con atto del notaio Gio Batta Azuni del 02.11.1809, i mastri muratori Francesco Magnetto e Giuseppe Schirru, i mastri falegnami Salvatore Murru ed Efisio Pes, il ferraro Efisio Sanna e il lanterniere Francesco Deplano, firmarono la ricevuta di lire 2800, soldi 2 e denari 6 che il negoziante Porrà aveva loro pagato per i lavori eseguiti nella sua casa della strada della Costa, all’angolo con il vicolo del Sepolcro.

Con atto del notaio Azuni del 28.11.1809, l’enfiteusi a Porrà fu trasformata da “temporale” a ”perpetua”; il canone annuo fu aumentato da 45 scudi a 47 e mezzo.

Dopo il 1850 apparteneva a Maria Crocifissa Miglior, monaca di Santa Caterina, discendente dei coniugi Porrà-Romagnino[2].

 

2727                      vedi casa 2723



[1] Nella denuncia per il donativo del Caredda è scritto che le due case, entrambe nella strada della Costa, rendevano insieme lire 227 e soldi 10 ogni anno; l’altra casa denunciata dal Caredda era l’unità 2725

[2] Dai registri dell’anagrafe di Cagliari si legge che il 05.03.1889 morì in Cagliari, all’età di 78 anni, Rita Crocifissa Porrà, religiosa Dominicana, figlia dei defunti Francesco Maria Porrà e Giuseppa Romanino, vedova di Francesco Miglior; potrebbe essere la madre della suora Maria Crocifissa Miglior; ma è anche possibile che si tratti della stessa persona, chiamata nei registri del catasto con il cognome del marito. Rimasta probabilmente vedova molto presto, potrebbe essere entrata in convento; un suo figlio nato nel 1831, chiamato Francesco Miglior come il padre, era canonico e morì nel 1884 ad Aversa.