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Isolato B1: Saline/Barcellona/strada S.Francesco/discesa di San Francesco

(via Sardegna, via Barcellona, via Roma, via dei Mille)

numeri catastali da 2594 a 2614

Come per gli altri isolati sulla via Roma, le modifiche più notevoli, intervenute negli ultimi 200 anni, sono dovute alla costruzione dei palazzi coi portici; in questo caso, data la posizione delle case, molto arretrate rispetto alla nuova linea dei portici, è stata creata una strada cieca, vico dei Mille, sulla quale si affacciano le vecchie case, nascoste dal palazzo Leone-Manca costruito fra il 1924 e il 1934. Sul lato di via Sardegna, la grande unità catastale 2601 è stata sostituita dal retro del locale cinematografico che si apre sulla via Roma, con probabile annessione della casa 2608.

 

2594 e 2614       

Da atto notarile del 22.07.1789, relativo alla casa sulle mura del molo, numero 2211, risulta che la casa davanti, unità catastale 2594, appartenesse al marchese Villamarina; in quell’anno il marchese era don Bernardino Pes, che morì nel 1796; con atto del 01.08.1796 venne infatti compilato l’inventario dei beni del defunto marchese, su richiesta del nuovo marchese, don Salvatore Pes (1733-1822); dal testamento, pubblicato il 04.07.1796 dal notaio Sisinnio Antonio Vacca, gli eredi risultano i figli don Salvatore, don Giovanni Battista, don Giuseppe, il sacerdote don Emanuele, e don Giacomo; il figlio primogenito don Salvatore è erede di tutti i beni feudali e vincolati; in quel periodo don Giovanni Battista si trovava a Tempio, mentre don Emanuele e don Giacomo (futuro vicerè) si trovavano a Torino; fra i beni immobili era compresa una casa nel quartiere della Marina, in contrada del Molo, (identificata con le unità catastali 2594 e 2614) “confinante davanti con la muraglia ossia cortina del Molo, contrada mediante, alle spalle con casa dell’azienda ex-gesuitica (2615) mediante la contrada delle Saline, da un lato con magazzino del marchese di San Carlo don Francesco Borro (2595), e dall’altro lato con il convento dei padri minimi (2592) mediante la contrada che conduce al molo”; era stata venduta al marchese da Paolo Moreschi il 24.08.1787, e venne stimata lire 10737.

In realtà la proprietà Pes comprendeva la casa 2594 e solo la parte est (all’angolo fra la strada delle Saline e la discesa di San Francesco) della unità 2614, non edificata, adibita a cortile; infatti con atto notarile del 15.10.1799 il Gremio dei Santelmari vendette al marchese Salvatore Pes di Villamarina, per lire 1750, una casa (2614 parte ovest) nella strada delle Saline, “coerente a mattina e a mezzogiorno al cortile e corpo di case dello stesso marchese (2594 e cortile 2614), a sera a casa dell’azienda ex-gesuitica (2613), a mezzanotte a casa dei fratelli Gastaldi (2615)”; il Gremio si decise a vendere anche perché il marchese aveva intenzione di costruire nel terreno adibito a cortile, oscurando le finestre laterali della piccola casa; era composta dal piano terreno e dal primo piano, con sala, alcova ed un’altra stanza, ed era affittata per lire 80 annue; queste ultime informazioni provengono dal donativo del Gremio di Sant’Erasmo (o di Sant’Elmo), datato 22.06.1799, circa 4 mesi prima della vendita fatta al marchese Pes.

Vi sono diversi documenti che citano la proprietà Pes; alcuni sono relativi alla casa Buschetti 2595, confinante di lato a casa e magazzino Villamarina: un atto notarile del 31.07.1800; la denuncia per il donativo del canonico don Gaetano Buschetti, del 16.08.1807; infine l’atto notarile del 05.05.1813, inventario dei beni del defunto canonico Buschetti;

altri due documenti sono relativi invece alla casa 2615, che confinava mediante la strada delle Saline con magazzino e casa Villamarina: sono gli atti notarili del 13.08.1810 e del 24.12.1812, e nel secondo atto è scritto con esattezza “confina strada delle Saline fra mezzo con magazzino e casa e cortile ed un’altra casetta al lato, di proprietà del marchese di Villamarina”; sembra quindi che fino a quel momemto il marchese non avesse ancora edificato il cortile dell’unità 2614, o l’avesse edificato solo in parte.

Dai dati catastali del Sommarione dei Fabbricati, successivi al 1850, entrambe le unità 2594 e 2614 risultano proprietà del marchese Salvatore (1808-1877) e dei suoi fratelli Francesco, Chiara e Teresa Pes di Villamarina, figli del marchese Emanuele (1777-1853), figlio quest’ultimo del marchese Salvatore prima citato.

 

2595     

Nell’atto appena citato dell’agosto 1796, relativo alla casa 2594, la casa 2595 risulta appartenere al marchese di San Carlo don Francesco Borro; in realtà il marchese era già morto da due anni: il 31.07.1800, il reverendo canonico don Gaetano Buscheti Borro, erede del suo defunto zio don Francesco Borro Servent marchese di San Carlo, a causa di alcuni debiti, che aveva verso i coniugi Carlo Belgrano e Francesca Novaro, ipotecò il magazzino (2595) di 3 piani e sòttano sito in strada di S.Francesco di Paola, confinante da un lato col magazzino e casa Villamarina (2594), dall’altro lato con casa di S.Eulalia (2596), di spalle con casa del Capitolo (2613), e davanti con la muraglia della strada di San Francesco; il magazzino era affittato al negoziante Francesco Novaro e al negoziane Domenico Cervia.

Da atto notarile del 24.08.1801, relativo alla casa 2596, la casa 2595 risulta ancora quella che era del quondam marchese Borro, ereditata dal nobile canonico della Primaziale don Gaetano Busquetti (-1813).

E’ stata rintracciata la denuncia per il donativo del canonico Buschetti, datata 16.08.1807: egli dichiarò una proprietà nella strada di San Francesco di Paola, formata da 2 piani utilizzati come magazzino, del valore di scudi 2500, gravata però da alcune ipoteche; vengono confermati i confini appena riferiti.

Il canonico Buschetti morì 16.04.1813, lo stesso giorno venne pubblicato il suo testamento e si iniziò l’inventario dei suoi beni, ammontanti a lire 36710 e qualche spicciolo; fra i beni immobili era compresa una casa nella Marina, nelle vicinanze del convento di San Francesco di Paola, valutata in lire 6022, soldi 11 e denari 8; le sue eredi erano la sorella, donna Speranza Buschetti vedova del cavaliere don Alessandro Vidua, vivente nella città di Casale in Piemonte, e le nipoti donna Marianna, donna Mariangela, e donna Giuseppa, sorelle Guirisi Buschetti, figlie di don Giovanni Battista Guirisi e donna Caterina Buschetti, sposate rispettivamente con l’avvocato don Bachisio Mearza, con don Manuele Manca Aimerich di Thiesi, e con il cavalier Antonio Mearza, tutte viventi nel quartiere del Castello.

Dopo il 1850 la casa apparteneva al negoziante svizzero Josias Pernis (1797-1895).

 

2596

Il presidente della comunità di Sant’Eulalia, dottor Angelo Francesco Aitelli, in data 24.06.1799 presentò la denuncia per il donativo; vi era inclusa una casa nella strada del Molo, chiamata casa Ricardo, composa da 3 piani di 8 stanze più un magazzino; come al solito, dal donativo della Comunità non è possibile identificare le case dichiarate, data l’esiguità dei dati inseriti; però, dall’atto notarile del 31.07.1800 relativo alla casa 2595, risulta che la casa confinante, numero 2596, appartenesse alla comunità di Sant’Eulalia.

In data 24.08.1801 la comunità di Sant’Eulalia, rappresentata dai reverendi beneficiati dottor Angelo Francesco Aitelli, Pasquale Humana, Luigi Durante, dottor Giuseppe Maria Valdes, e altri, cedette in enfiteusi una casa “ensostrada”, cioè con piani alti sopra il terreno, ai coniugi negoziante Nicola Dentone e Giovanna Podda; la casa era detta di “Riccardo”, nome d’un antico proprietario, composta da 3 piani alti e magazzino, e si trovava nella strada di San Francesco detta anche strada del Molo; confinava da una parte con la casa del canonico Buschetti (2595), che prima era del marchese Borro, dall’altra parte con una casa di Giovanna Fassio Mantelli (2597), e prima era di suo marito, il defunto Gio Filippo Pinna, di spalle con una casa del segretario della Reale Udienza Raimondo Doneddu (2612); i coniugi Dentone e Podda avrebbero pagato 103 scudi annui per il fitto.

Nicola Dentone e Giovanna Podda fecero testamento congiunto il 18.02.1804 e Nicola morì il 08.06.1806; su richiesta di Giovanna Podda, il notaio Giuseppe Isola si recò nella casa di abitazione della vedova, nella strada di San Francesco di Paola; il testamento venne aperto in presenza dei 6 testimoni che avevano presenziato 2 anni prima alla sua consegna al notaio, ed alla presenza della stessa vedova, di suo padre notaio Giorgio Podda, e della madre del defunto Francesca Gorlero vedova di Tommaso Dentone. In mancanza di figli, i coniugi avevano eletto erede universale dei loro beni l’ospedale di Sant’Antonio, e usufruttuario universale il coniuge superstite; eredi parziali la madre del defunto ed il padre della vedova; nell’atto notarile del 1806 è riportata la seguente dichiarazione: “Il pro vicario parrocchiale di Quartucciu, Giovanni Andrea Uda, certifica che nel foglio 367 del registro, pagina seconda, è registrata la morte accidentale il giorno 08.06.1806 di Nicolas Dentone, hombre casado con Joannica Podda, ambos de Caller, hijo de Tomaso Dentone y Fran.ca Corlero; ha potuto solo stringere la mano come segnale di contrizione e ricevette solo l’estrema unzione per essere inabile; interrato nella chiesa parrocchiale.”

Il 28.06.1806 il notaio Isola si occupò dell’inventario dell’eredità Dentone: vi era compresa la casa grande di abitazione, nella strada San Francesco, avuta in enfiteusi dalla comunità della parrocchia della Marina, da restituire alla comunità alla morte della vedova Giovanna Podda, con i miglioramenti eseguiti, stimati per lire 2574.18.9.

Con atto notarile del 06.09.1806 la vedova Dentone Podda firmò un accordo con la suocera Francesca Gorlero che aveva diritto ad una porzione legittima di eredità; nel calcolo della legittima entrarono i frutti che la vedova godeva, come usufruttuaria, della casa 2288 nella strada Pabillonis e della casa 2596 nella strada di San Francesco di Paola.

Con atto notarile del 05.08.1806 Giovanna Podda si accordò col genovese Giovanni Passalaqua per gestire in società la bottega del defunto, la quale si trovava nella stessa casa posseduta e abitata dalla vedova; il Passalaqua sarebbe stato in grado di continuare l’attività e in particolare di produrre le “paste genovesi” che erano la specialità della bottega, “attesa la pratica in alcuni anni che ha servito al predetto Dentone”; la vedova avrebbe fornito le spese per il vitto e il vestiario, si sarebbe occupata delle spese straordinarie per le riparazioni, e avrebbe pagato un aiutante, nel caso di necessità; i due soci avrebbero diviso le spese per il “fondo di magazzino”, e avrebbero diviso gli utili, da cui dedurre il costo dell’affitto della bottega e del torchio per la pasta e gli altri attrezzi.

La società non durò a lungo: con atto notarile del 22.09.1807 la vedova Giovanna Dentone nata Podda si accordò col negoziante Pasquale Peluffo per fargli gestire la “fabbrica di paste” del defunto marito; Pasquale Peluffo vi avrebbe lavorato col figlio quindicenne Efisio.

Si sa che Giovanna Podda nel 1811 era coniugata col notaio Giuseppe Tatti; con atto del notaio Efisio Usai Todde, del 10.04.1812, i coniugi Giuseppe Tatti e Giovanna Podda diedero in locazione per 3 anni ai negozianti Giuseppe Corvetto e Domenico Castellini un magazzino sito nella loro stessa casa di abitazione, nella strada di San Francesco del Molo; insieme al locale consegnarono ai due negozianti un torchio per fare paste (farcite di ogni qualità), nove forme di rame, parecchie tavole per stirare la pasta, arnesi vari, due fornelli in ferro e un banco nuovo per la vendita.

In un atto del maggio 1813, relativo alla casa 2595, la casa 2596 è detta della Comunità di Sant’Eulalia; potrebbe essere un’informazione parziale che non abbia tenuto conto dell’enfiteusi; potrebbe anche essere che fosse cessata nel frattempo l’enfiteusi di cui era titolare Giovanna Podda, o per sua morte, o per sua rinuncia.

Ancora dopo il 1850 la casa 2596 apparteneva alla Comunità di Sant’Eulalia.

 

2597

Nella notte fra il 15 e il 16 dicembre 1788 morì il negoziante Gio Filippo Pinna, di cui si è parlato per la casa di abitazione, numero 2591; fra i beni del suo inventario, pubblicato il 16.08.1789, vi era anche una casa nella strada del Molo, con piano terreno e due piani alti, valutata 1616 scudi, identificata con l’unità catastale 2597.

Nell’atto notarile di inventario dei beni del defunto don Francesco Maria Viale, datato 23.12.1797, era compresa una casa nella strada del Molo, identificata col numero 2598, confinante da un lato con la casa degli eredi di Filippo Pinna (2597).
Nell’atto notarile del 24.08.1801, citato nel paragrafo precedente, relativo alla casa 2596, la casa confinante 2597 era quella del quondam Juan Felippe Pinna, posseduta dalla sua vedova Juana Fassio (Fazio) Mantelly.

Con atto del notaio Lucifero Cabony del 25.10.1806 l’avvocato Giuseppe Antonio Sahiu (o Saiu), secondo marito (dal 1794) di Giovanna Fazio, concesse in affitto un magazzino, i mezzanelli e il piano nobile della casa della contrada di San Francesco di Paola, per 6 anni e per scudi 130 annui pagabili a mezze annate anticipate, al panettiere di famiglia ligure Pasquale Piluffo (Peluffo); più esattamente il Peluffo avrebbe pagato 50 scudi annui per il magazzino, 30 scudi per i mezzanelli, e 50 scudi per il piano nobile; avrebbe potuto costruire nei mezzanelli, nella parte adibita a cucina, “un forno alto ed abile per il mestiere di Panatiere Francese che esercita, per cuocere pane e gallette”; il magazzino era però affittato al momento al negoziante Giovanni Battista Gastaldi che l’avrebbe tenuto per alcuni mesi fino alla scadenza del suo contratto. 

Dopo il 1850 la casa 2597 apparteneva a diversi proprietari; fra questi due eredi di Gio Filippo Pinna: l’impiegato Francesco Frau era, dal 1841, il marito di Efisia Doneddu Pinna (1816-), figlia di Pietro Doneddu e di Angela Pinna Fazio (1787-1833), figlia quest’ultima di Gio Filippo Pinna e Giovanna Fazio; l’altro erede era il sacerdote Antonio Doneddu Pinna, altro figlio di Pietro; altri proprietari erano i fratelli Paolo e Speranza Altea, di Tempio, e infine l’Arciconfraternita di Santa Caterina.

 

2598     

Nel mese di gennaio 1796 morì il nobile don Francesco Maria Viale; il 23.12.1797 venne effettuata la divisione dei suoi molti beni fra gli eredi, cioè la vedova donna Pasquala Denegri e i figli; al figlio reverendo dottore don Pasquale Viale (1757-), dimorante presso la corte di Torino, in quanto assente rappresentato dal fratello don Giuseppe Angelo, spettarono due case: una in Stampace presso la chiesa di San Francesco, l’altra alla Marina e strada di San Francesco di Paola, detta casa Massa, identificata con l’unità catastale 2598; era posta davanti alla cortina del molo, confinante alla spalle con una casa della stessa eredità del defunto Viale, che faceva parte della quota di donna Pasquala Denegri (casa 2610), di lato con la casa degli eredi di Filippo Pinna (2597), e dall’altra parte con casa di Francesco Navarro (2599); la casa fu valutata lire 7156 e 4 soldi, era composta da un camerone terreno col forno per il pane; un mezzanello di 2 camere; un piano superiore con una sala, l’alcova, una camera e la cucina; l’ultimo piano con una sala, una camera, l’alcova, un retrocamera, un’altra camera e una cucina.

La proprietà Viale è confermata in altro atto notarile del 30.08.1802, relativo alla casa Novaro 2599: quest’ultima confinava di lato con casa degli eredi del quondam Francesco Maria Viale (2598).

Dopo il 1850 la casa 2598 apparteneva al conte Giovanni Viale (1767-1856), altro figlio di Francesco Maria Viale.

 

2599 e 2609

Nel già citato atto di divisione dei beni del defunto don Francesco Maria Viale, del 23.12.1797, la casa Viale 2598 confinava con la casa di Francesco Navarro (o Novaro) 2599; nello stesso atto, l’altra casa Viale numero 2610, nella strada delle Saline, confinava lateralmente con il cortile della stessa casa Novaro, identificato dal numero 2609.

Il dato è confermato da un altro inventario: è quello dei beni dei coniugi Salvatore Mandis e della defunta Francesca Aru, datato 10.02.1798; la casa Mandis 2600 confinava di lato con la casa 2599, degli eredi del quondam Luis Navarro.

Si tratta in realtà di Luigi Novaro, figlio del ligure Camillo Novaro e di Caterina Ganau; Luigi, di cui si ignora l’esatta data di morte, nominò il fratello Francesco erede e curatore della sua eredità, che includeva anche la casa in San Francesco del Molo; nella sua denuncia per il donativo (databile 1799), Francesco Novaro dichiarò una casa nella strada di San Francesco di Paola, composta da due piani con 3 stanze per piano e una bottega; la casa era affittata per lire 200, e si pagava una pensione di lire 90 ai padri Agostiniani per un censo di scudi 720 cioè 1800 lire (al 5%).

Con atto notarile del 10.03.1801 Francesco Novaro restituì il capitale ed estinse il censo: firmò la ricevuta il reverendo frate Massimo Melis del convento di S.Leonardo dei padri di S.Agostino.

In un atto notarile del 15.10.1796, relativo alla casa 2618, è scritto che la casa sull’altro lato della strada Reale (o delle Saline), coincidente con l’unità 2609, era un cortile o giardino di Antonio Rapallo; questa informazione risulta sicuramente risalente a diversi anni prima, anche perché Antonio Francesco Rapallo era morto da diversi anni; infatti un altro atto notarile, del 30.08.1802, fornisce questi particolari: la casa 2599, che comprendeva anche il cortile posteriore 2609, era appartenuta a Giulia Moretti, vedova di Antonio Francesco Rapallo, defunta nel 1774; il 29.03.1761 la vedova aveva ipotecato la sua proprietà per 720 scudi, a favore dei padri Agostiniani; la casa confinava con la casa Mandis poi di Carlo Franchino (2600), e con la casa Viale (2598), davanti aveva la muraglia del molo, e dietro c’era il cortile 2609 che arrivava fino alla strada delle Saline; la casa col cortile annesso fu acquistata, in data imprecisata, da Luigi Novaro che rinnovò il censo.

Col citato atto di agosto 1802, Francesco Novaro destinò alla chiesa delle Cappuccine la rendita di mille scudi caricati sulla casa della strada di San Francesco del Molo, ereditata dal fratello Luigi, casa che era stata liberata dagli altri vincoli (col già citato atto del marzo 1801); egli così intendeva rispettare la volontà testamentaria di suo cognato, reverendo Giuseppe Belgrano, morto nel marzo 1796; il Belgrano, fratello di Chiara, moglie di Francesco Novaro, aveva nominato esecutore testamentario il cognato, e aveva chiesto nel suo testamento di far celebrare una messa (quotidiana) nella chiesa delle monache Cappuccine, assegnando alla chiesa la rendita su un capitale di 1000 scudi, di cui 500 facevano parte di un legato lasciato dal fu Carlo Belgrano, altro fratello del reverendo Giuseppe e di Chiara, gli alri 500 sarebbero dovuti provenire da diversi censi di proprietà del sacerdote defunto; Francesco Novaro, a causa della difficoltà di recuperare puntualmente da quei censi la somma richiesta, destinò alla chiesa delle Cappuccine la rendita della casa.

Francesco Novaro morì il 07.09.1803; sua moglie Chiara Belgrano era già defunta, l’eredità spettava interamente ai loro figli e, con atto del notaio Sisinnio Antonio Vacca del 05.04.1805, venne eseguita la divisione in 7 quote delle ricche eredità dei defunti coniugi Novaro Belgrano; gli eredi erano i seguenti:

- donna Anna Novaro coniugata col console imperiale don Gregorio De Cesaroni;

- donna Francesca Novaro coniugata con l’avvocato don Giambattista Serralutzu, aggiunto alla Regia Segreteria di Stato e di Guerra;

- il capitano del Reggimento Sardegna Michele Novaro;

- il capitano del Reggimento Sardegna Camillo Novaro;

- donna Maddalena Novaro coniugata con l’avvocato don Giuseppe Angelo Viale;

- Anna Maria Lezani vedova dell’avvocato Luigi Novaro, la quale agiva come tutrice e curatrice di Francesco Maria e Luigi Novaro,

   suoi figli impuberi;

- Giuseppe Novaro che agiva per se stesso e come co-curatore dei nipoti impuberi figli del suo defunto fratello Luigi Novaro.

La casa della piazza del Molo, valutata lire 1386 e soldi 5 (a cui si deve aggiungere il censo di lire 2500, cioè 1000 scudi, la cui rendita era destinata alla Monache Cappuccine), insieme ad altri beni immobili, oggetti d’oro e d’argento e contanti, fu destinata a donna Francesca Serralutzu nata Novaro; era una proprietà di Francesco Novaro dal 06.05.1796, a seguito di un accordo con le sue sorelle Francesca e Giuseppa Novaro.

Nel 1806 Maria Francesca Serralutzu Novaro la ipotecò per garantire un contratto fra i fratelli e le sorelle Novaro e lo zio Felice Ranucci, ex-console di Genova[1].

Nella denuncia per il donativo del notaio Carlo Franchino, del 06.08.1807, la sua casa 2600 confinava con la casa del giudice Serralutzu, corrispondente all’unità 2599; il giudice Giovanni Battista Serralutzu, originario di Cuglieri, aveva sposato nel 1795 Maria Francesca Novaro, figlia di Francesco Novaro e di Chiara Belgrano. Quanto appena detto è confermato da atti del giugno e del luglio 1808, relativi alla casa 2600: la casa 2599 apparteneva agli eredi del fu Francesco Novaro Ganau, poi al nobile giudice don Giovanni Battista Serralutzu.

Dai dati del vecchio catasto, successivo al 1850, la casa 2599 risulta appartenere donna Caterina Serralutzu (1798-1874) figlia di Giovanni Battista e Maria Francesca Novaro, moglie del conte Efisio Cao di San Marco, mentre l’unità 2609 era ancora di sua madre donna Francesca Novaro vedova Serralutzu; quest’ultima morì novantenne il 02.12.1853; una correzione successiva sul registro attribuisce anche l’unità catastale 2609 alla contessa Caterina Cao di San Marco.



[1] si veda il paragrafo relativo alla casa 2969 per maggiori dettagli su questo accordo fra i Novaro e lo zio Ranucci 

 

2600 e 2608       

Le due unità appartenevano al negoziante Salvatore Mandis; egli, in data 08.09.1797, consegnò al notaio Alessandro Alciator il suo testamento; era molto anziano e malato, il notaio si recò nell’abitazione del Mandis, nella casa 2634 della piazza del Molo.

In data 10.02.1798 venne compilato dallo stesso notaio Alciator l’inventario dei beni di famiglia: si sarebbe dovuto compilare appena dopo il decesso di Francesca Aru (morta il 20.06.1796), moglie di Salvatore Mandis, ma era stato trascurato, in accordo con i figli, in considerazione dell’età e stato di salute del Mandis, già ottantacinquenne: per questo non si intravvedeva pericolo che il vecchio potesse disperdere l’eredità, in parte di competenza della moglie già defunta, quindi dei figli; tempo dopo, uno dei figli chiese però di avere la sua parte materna, costringendo il vecchio Salvatore a far compilare l’inventario; fra i beni era compresa anche la casa 2600, con magazzino terreno e due piani ognuno di 3 stanze; confinava da un lato con “casa del Re” dove stava la Guardia Reale (2601), dall’altro lato con casa degli eredi di Luigi Navarro (cioè Novaro, 2599), davanti, al di là della strada, aveva la muraglia del molo, alle spalle una casa dello stesso Mandis (2608); venne valutata £ 5799, soldi 19, denari 2; su di essa gravava un censo di scudi 1000, cioè lire 2500, patrimonio ecclesiastico del figlio reverendo Francesco (-1807), presbitero di Sant’Eulalia; con l’atto notarile del 31.07.1798, divisione dei beni spettanti all’eredità di Francesca Aru, fu stabilito fra tutti gli eredi di lasciare al di fuori dell’asse ereditario tutta la casa 2600, dove probabilmente abitava il reverendo Francesco.

Nell’inventario è compresa anche una casa nella strada delle Saline, identificata con l’unità 2608, composta da un piano terreno e un piano alto, con due sale, due alcove, una stanza e una cucina, confinante con la casa della Guardia Reale (2601), dall’altro lato con la casa Viale (2610) e davanti con la casa di don Litterio Cugia (2625), valutata lire 2032, 18 soldi, 6 denari; può sorprendere il confine con la casa Viale 2610, dal momento che l’unità confinante ha il numero 2609; ma quest’ultima era solo un cortile, annesso alla casa Novaro 2599, e forse non venne ritenuto un riferimento sufficiente.

Con l’atto notarile del 30.07.1798 la casa 2608 venne assegnata al figlio Luigi.

Salvatore Mandis morì nel corso del 1800; il 5 aprile venne fatta la divisione dei suoi beni e di quelli assegnati nel 1798 al figlio Antonio Efisio, assente da Cagliari da parecchi anni, di cui non si avevano notizie; la casa 2608, come si è detto, era già stata assegnata a Luigi nel 1798, mentre la casa 2600, che era rimasta al di fuori della divisione per accordi familiari, non venne presa in considerazione nemmeno in questa ulteriore divisione: vi era ancora caricato il censo di 1000 scudi (2500 lire, poco meno di metà del valore della casa), patrimonio ecclesiastico del reverendo Francesco; solo dopo la morte di quest’ultimo, nel 1807, venne decisa una formale assegnazione.

In data 06.08.1807 Carlo Franchino e il cognato Domenico Mandis presentarono la denuncia per il donativo, in qualità di eredi del reverendo Francesco Mandis, loro cognato e fratello rispettivamente; dichiararono di possedere in comune (con gli altri familiari) una casa nella strada del Molo, composta da un magazzino al piano terreno e due piani, ognuno dei quali formato da una piccola sala, due stanze e due alcove e una piccola cucina; la casa era abitata interamente dai proprietari, e si sarebbe potuta affittare per soli scudi 75, essendo una casa stretta di un solo trabucco (circa 3 metri e 15 cm), valutata scudi 1500.

Il 07.06.1808 fu eseguita una stima della casa: se ne occuparono il misuratore reale Pasquale Piu e il capo mastro Sebastiano Puddu, il primo su incarico di Luigi e Priama Mandis (con l’assenso di Pancrazio Sechi, secondo marito di Priama), il secondo su incarico di Domenico, Bartolomeo e Maria Antonia Mandis (con l’assenso del marito Carlo Franchino); la casa fu valutata lire 3513, soldi 12, denari 9; era composta da 3 piani alti, il terreno e il patio; furono confermati i confinanti dichiarati negli atti notarili precedenti.

Con atto del notaio Alessandro Alciator del 21.07.1808 fu effettuata la divisione dell’eredità del fu reverendo Francesco Mandis fra gli altri fratelli: Domenico, Mariantonia, Luigi, Bartolomeo e Priama; il sacerdote era morto il 03.04.1807, senza aver lasciato testamento; oltre ai fratelli ora nominati ereditava anche l’altro fratello Antonio, assente da 27 anni; l’eredità consisteva in pochi denari, la biancheria, il letto, utensili di casa, libri, vestiti, due orologi (mostre) d’argento, alcuni censi, e la casa (2600) del Patrimonio Ecclesiastico; alla presenza dei fratelli, con l’esclusione di Priama che viveva in Quartucciu, rappresentata però dal secondo marito, il tempiese chirurgo e negoziante Pancrazio Sechy, furono divisi i beni del sacerdote, con esclusione della casa, dei censi e dei libri; questi ultimi sarebbero stati venduti e il ricavato sarebbe stato destinato alla celebrazione di diverse messe; la casa fu venduta al notaio Carlo Franchino Amugà, marito di Maria Antonia Mandis per il prezzo stabiito con l’estimo, cioè lire 3513, soldi 12, denari 9; l’atto riporta i precedenti passaggi di proprietà: il 16.08.1755 era stata venduta dai coniugi Antonio Francesco Rapallo e Giulia Moretto al mastro bottaro Giuseppe Giuita il quale, con atto del 29.08.1760, la vendette a Salvatore Mandis per scudi 749 e reali 2; nel prezzo era anche compreso il cortile retrostante dove poi sorse la casa 2608 che divenne proprietà di Luigi Mandis; Salvatore pagò subito scudi 349 e 2 reali, gli altri 400 scudi costituirono una proprietà censale della Comunità di S.Eulalia; il censo fu estinto il 26.01.1762; nel 1774 fu riedificata e divenne patrimonio ecclesiastico del figlio sacerdote.

Dopo il 1850 la casa 2600 apparteneva all’avvocato Francesco Floris (1812-1893) figlio del fu dottore in diritto Michele e di Vittoria Franchino; non è stato rintracciata la registrazione di matrimonio di questi ultimi, che ebbero figli a partire dal 1800; è però più che probabile che Vittoria fosse figlia di Carlo Franchino e Maria Antonia Mandis.

Per la casa 2608 non sono state trovate altre notizie; non è disponibile la denuncia per il donativo di Luigi Mandis, al quale spettò la casa come quota ereditaria; Luigi era nato nel 1756, morì nel 1809; era mastro bottaio, e si sposò con Rita Lay (-1826) di Stampace, figlia del mastro bottaio Giorgio Lay e di Giuseppa Palmas, ed ebbero diversi figli fra il 1780 e il 1796.

Dopo il 1850 la casa 2608 apparteneva ad Anastasia Cabras (-1868) vedova di Vincenzo Degioannis detto “su zoppu”.

 

 

2601     

Era una proprietà demaniale, che si estendeva dalla strada delle Saline fino alla strada di San Francesco del Molo; era utilizzato come magazzino del sale; il primo riferimento rintracciato è del 06.03.1779, in atto notarile relativo alla casa 2626: un sotano di questa casa aveva l’entrata nell’angolo destro sulla strada delle Saline, e guardava verso il “porton del almasen della real salina”.

Nell’inventario dei beni del defunto Carlo Marramaldo, del 24.06.1784, è compresa una casa sita nella strada di Barcellona, identificata con la casa 2607, che aveva alle spalle “el almasen real donde se vende sal”; in altro atto notarile del 01.10.1784, anch’esso relativo alla casa 2607, è scritto che detta casa aveva alle spalle il “Regio Alfolì [1]; ulteriore conferma proviene da atti notarili del 01.02.1790 e del 27.01.1792, relativi alla casa Cortese 2602, che confinava di lato con la Regia Dogana del sale (nel primo documento) e con il Magazzino del Sale (nel secondo).

Nel fascicolo di una causa civile iniziata nel 1793, relativa alla casa 2605, questa confinava alle spalle col magazzino Reale dove si conserva il sale, cioè l’unità catastale 2601; la stessa informazione arriva da un atto notarile di aprile 1797, anch’esso relativo alla casa 2605.

Nell’inventario dei beni di Salvatore Mandis del 10.02.1798, la sua casa 2600 confinava di lato con una “casa del Rey donde hoy abita la Guardia Real”; questa è l’unica informazione un po’ discordante, ma non si esclude una presenza militare in una parte di questa grande unità catastale. Nello stesso anno, in aprile, nel testamento di donna Giovanna Massa Masones, la sua casa 2603 aveva alle spalle il magazzino delle reali saline.

Nella concessione edilizia rilasciata nel 1805 ad Antonio Cambazzu per un pezzo di terreno nella strada delle Saline, confinante con la casa 2626, è scritto che davanti c’era il Regio Alfolì.

Sono stati trovati anche due riferimenti nelle denunce per il donativo del 1807; in quella di donna Anna Maria Guirisi la sua casa 2604 confinava con la Regia Salina; la stessa informazione è presente nel donativo di Giovanni Villa, la cui casa 2605 aveva alle spalle il Regio magazzino del sale.

In atto del 30.01.1809, relativo alla casa Cugia 2625, questa aveva davanti il Regio magazzino del Sale.

In atto notarile del 03.04.1812, relativo alla casa Imerone 2215, sull’altro lato della strada vi erano le logge della casa Cortese (2602) e della casa “del signor Guardia Reale” (2601): entrambe queste case erano infatti munite di un porticato posto davanti alle case, precursori dei portici della attuale via Roma.

Fra i dati catastali successivi al 1850, l’unità 2601 non è menzionata; il fatto non sorprende: come tutte le proprietà demaniali non era oggetto di censimento catastale. 



[1] cioè Almacén de la sal, dal Diccionario dela Real academia española

2602     

Con atto notarile del 01.02.1790 la comunità del convento di San Domenico cedette in enfiteusi al negoziane Onorato Cortese una casa di 3 piani situata nella Marina, nella piazza del Molo; venne specificato che il piano terreno della casa, il più grande, era utilizzato in passato come dogana del civico magistrato prima della costruzione della nuova dogana (2632); era affittata per 164 scudi all’anno, e la si vendette per lire 8200; la casa aveva davanti la porta del Molo, piazza mediante, confinava alle spalle con una casa della confraternita della Vergine d’Itria (2603), da un lato con la dogana del sale (2601), e dall’altro lato, mediante la strada Barcellona, con la nuova dogana del civico magistrato, da poco costruita (2632); un tempo la possedevano i coniugi Juan Biagio Tarentino e Geronima Jugo; dopo la loro morte passò al figlio canonico domenicano Domenico Tarantino, e da lui passò al convento; vi era un carico a favore della quondam Laudominna Torres, risalente al 26.11.1631, e dopo la sua morte il censo passò a don Leandro Cervellon e sua sorella donna Isabel Martin y Cervellon.

Con atto notarile del 27.01.1792 il negoziante (poi cavaliere) Onorato Cortese ebbe la concessione demaniale di un pezzo di terreno davanti a una sua proprietà: affermò di aver acquistato una casa nella strada di Barcellona e piazza del molo, dal convento dei padri Domenicani; nella casa vi era un tempo la “dogana delle merci che si introducono da fuori Regno”; Cortese la demolì per la sua cattiva costruzione; per riedificarla in miglior forma e ricostruirla uniformandosi alla vicina casa della Dogana, nuovamente edificata nell’altro angolo della stessa strada Barcellona, aveva pensato di formarvi un portico, simile a quello della stessa Dogana Civica; il portico verrà costruito davanti alla casa, nel terreno chiesto al demanio già dal 26.11.1791 e concesso il 27 gennaio successivo; il portico sarebbe partito dal pilastro della dogana del sale (2601) per arrivare fino alla strada Barcellona, formando un terrazzo simile a quello del portico della Dogana nuova; il “Magnifico” notaio Nicolò Murroni, Obrero della città, concesse il permesso al Cortese, unitamente al permesso di piantare i balconi nelle due facciate della casa, sia nella strada di Barcellona, sia nella strada del Molo, balconi che non avrebbero dovuto avere più di 2 palmi d’ampiezza.

Nella sua denuncia per il donativo del giugno 1799, don Onorato Cortese dichiarò di possedere una casa, dove abitava, nella strada di Barcellona, composta da 3 botteghe affittate per lire 375, in tutto 20 stanze nei piani alti tra grandi e piccole; avrebbe potuto ricavarne lire 200 l’anno se l’avesse affittata; vi era un carico a favore dei padri Domenicani ai quali pagava lire 410 l’anno.

Si ha notizia di una delle botteghe della casa da un atto notarile del 12.05.1803: il negoziante corso Raimondo Bardi cedette al genovese Giuseppe Malatesta tutti i suoi diritti sulle merci di una bottega nella strada di Barcellona, “di pertinenza del cavaliere Onorato Cortese”; non è riportato nessun dato che permetta di identificare la casa dove si trovava la bottega, ma non risulta che il cavalier Cortese avesse altre proprietà nella contrada Barcellona, oltre alla sua casa di abitazione.

Nella denuncia per il donativo del 16.08.1807, i padri Domenicani dichiararono di ricevere 410 lire l’anno, per una proprietà di lire 8200, per la casa di 3 piani che abitava don Onorato Cortese, situata nella piazza del Molo, confinante da un lato con la Dogana del sale (2601), dall’altro, strada mediante, con la Dogana Civica (2632).

In data 20.01.1810 morì all’ultimo piano della casa il negoziante Efis Laguerra, ospite del cavalier Cortese; il notaio Francesco Angelo Randaccio vi si recò per aprire il testamento, su richiesta di Domenico Laguerra, fratello ed erede universale del defunto; oltre ai legati destinati ai parenti, il Laguerra lasciò a don Onorato Cortese e a suo figlio don Fedele Cortese, con i quali “ho fatto moltissimi affari”, 1000 scudi “per le moltissime attenzioni e singolare affetto”.

Con atto dello stesso notaio Randaccio (o Randachu) del 13.03.1810, si procedette all’inventario della bottega che il defunto aveva gestito nella strada di Barcellona (non si esclude nella stessa casa Cortese); si trattava di una bottega di merci varie, secondo l’usanza del tempo: fazzoletti, spille, nastri, risme di carta, cappelli, pepe nero, zucchero candito e zucchero bianco, bottiglie di rum, eccetera; risultò che il fondo di negozio fosse di lire 19672, soldi 18 e denari 10; Domenico Laguerra si accordò col negoziante Girolamo Piga, il quale prese in carico le merci e la bottega.

Con atto notarile del 22.07.1811 il cavalier don Onorato Cortese firmò il contratto di locazione di una bottega per caffè di sua proprietà, nella strada di Barcellona, in favore di Giovanni Lingurdo, Efisio Dentoni e Carlo Cheirasco di Cagliari; la locazione fu accordata per 6 anni, per lire 375 annue; in precedenza la bottega, composta da 4 stanze terrene, era stata affittata a Vittoria Ciuffo; inoltre il Cortese s’impegno ad affittare ai tre soci anche un’altra bottega confinante, se l’attuale affittuario, tale Badano [1], l’avesse liberata. Non vi sono ulteriori particolari che permettano di identificare le due botteghe, ma l’unica proprietà di Onorato Cortese nella strada Barcellona era la casa di abitazione, numero catastale 2602.

Un atto notarile del 05.01.1813 ci fornisce l’informazione che in un magazzino della strada Barcellona, nella casa del cavalier Onorato Cortese, vi era la bottega di caffè governata dal signor Giuseppe Rabbati; in quella data venne eseguito un inventario delle merci della bottega, su richiesta dei soci Giovanni Lingurdo, Carlo Cherasco, Efisio Dentone, e Giuseppe Rabbati; quest’ultimo si era evidentemente aggiunto ai primi 3 soci, che a lui avevano affidato la gestione dell’attività.

Onorato Cortese (ca 1750-1821), nativo di Savona, aveva sposato intorno al 1784 Giuseppa Belgrano, figlia di Ramon Belgrano e Giuseppa Novaro; più che benestante egli stesso, la moglie apparteneva, per parte paterna e materna, alle famiglie piu ricche della città; fu nominato nobile e cavaliere dopo il 1793, per i contributi economici elargiti per la difesa del Regno, in occasione dell’attacco francese.

Dopo il 1850 la casa apparteneva al maggiore in ritiro Francesco Novaro (1796-1870); egli nel 1833 aveva sposato Maria Francesca Cortese (1787-1854), vedova di Antonio Altea e figlia di Onorato Cortese.

 



[1] Si tratta probabilmente del negoziante Andrea Badano, che abitava nel 1812 nella strada di Sant’Eulalia, in una casa non identificata.

 

2603     

Da un atto notarile del 15.07.1788, relativo alla casa 2604, è scritto che la casa confinante 2603 era quella del francese Antonio Manuele; si tratta di Antonio Manel, proveniente da Gap (città francese dell’attuale dipartimento Alte Alpi), che si era coniugato in Sant’Eulalia nel 1742 con Barbara Moiné (o Monier) di Nizza (allora possedimento dei Savoia); l’informazione è confermata da un atto notarile del 16.12.1803, che però chiarisce che il riferimento al proprietario francese riportato nel documento del 1788 fosse ormai relativo a diversi anni prima; la casa apparteneva nel 1803 alla eredità della defunta dama Giovanna Massa Masones, la quale nel suo testamento del 21.04.1798 aveva nominato esecutore testamentario il commendator Bonaventura Cossu Madao; fra le tante disposizioni aveva chiesto che fosse fondato un beneficio per una messa quotidiana a favore del convento dei Padri minimi di San Francesco di Paola, con un censo caricato su uno stabile dell’eredità, per 2 reali al giorno.

Il commendatore caricò il fondo in una casa della Marina e strada di Barcellona (identificata con l’unità 2603), confinante dirimpetto alla casa della Congregazione del SS.mo, già Fulger (2629), di spalle col magazzino delle reali saline (2601), da un lato con casa che di don Onorato Cortese (2602), e dall’altro lato con casa degli eredi Guirisi (2604); la defunta l’aveva acquistata per 1400 scudi il 12.04.1771 in pubblica asta dai coniugi Antonio Manel e Barbara Monier, che l’avevano esposta all’asta di loro volontà; avendo necessità di urgenti e costose riparazioni, con l’atto del 16 dicembre 1803 il Cossu Madau la vendette per il prezzo di 1300 scudi (nello stesso 1803 era stata valutata dai mastri Francesco Murru e Ignazio Serra per scudi 1236 e danari 6); venne acquistata dal negoziante Pietro Crobu senza versamento di soldi contanti, col patto di saldare entro 10 anni e intanto pagare il frutto compensativo al 5%, cioè scudi 65 annuali.

Dopo circa un mese, il 22.01.1804, il commendator Cossu Madau consegnò alla Comunità dei Padri Minimi di San Francesco la somma di 1500 scudi (200 scudi oltre il prezzo di vendita) per rispettare le volontà testamentarie della dama Massa, secondo cui il convento avrebbe incassato la pensione annua di 75 scudi corrispondente al 5% del capitale caricato sulla casa 2603; con l’atto del 22.01.1804, stilato dal notaio Gioachino Efisio Aru, è specificato che era stato il notaio Gavino Guiso Nuxis a partecipare all’asta del 1771 e ad aggiudicarsi la casa; dopo pochi giorni egli la cedette alla dama Massa, da cui con evidenza era stato incaricato.

E’ stato rintracciato un atto notarile che riporta informazioni che non si incastrano con quanto riportato sopra: si tratta della vendita della casa 2602, del 01.02.1790; la casa alle spalle di quella, numero 2603, risultava essere della confraternita d’Itria; per questa attribuzione vi è una sola conferma: un atto notarile del 1804, relativo alla frontale casa 2630, riferise che la casa 2603 era una proprietà della confraternita d’Itria, in enfiteusi nel 1804 a Pietro Crobu; si può ipotizzare che la Confraternita d’Itria possedesse la casa ben prima dei coniugi Manel-Monier; non è impossibile: non sempre era attuale quanto veniva riportato dai notai; sarebbe un’imprecisione anche l’enfiteusi del Crobu, che ne risulta invece pieno proprietario.

E’ stato rintracciato il fascicolo di una causa civile[1] per una vicenda legata a questa casa e alla vicina casa 2604: il commendatore Bonaventura Cossu Madao, in qualità di curatore testamentario dell’eredità della fu dama Giovanna Massa, in data 23.04.1800 citò in giudizio la signora Anna Blò di nazione inglese; la donna abitava nella strada di Barcellona, di fianco alla casa di 3 piani della defunta Giovanna Massa; Anna Blò aveva costruito nell’ultimo piano un forno per cuocere pane e gallette, e lo teneva sempre acceso notte e giorno, secondo il Cossu Madao “.. con grande pericolo e danni alla parete divisoria, con rischio di un incendio, e danni alla casa di detta eredità Massa”; fu incaricato il Misuratore Generale Girolamo Massei per fare una visita e ricognizione del forno, e della casa Massa. La relazione del Massei fu consegnata il 15.05.1800, ma fu totalmente favorevolo alla Blò; scrisse infatti il Massei: “Nell’ultimo piano della casa abitata dalla sudetta Blò trovasi un picciolo forno ad uso di biscottini, e piccole gallette, questo non resta incorporato nella mettà della muraglia come potrebbe dalla med.ma servirsi; detto forno è costrutto con sua cappa e fumaiolo in debita forma, da non esservi pericolo d’incendio. Ed essendo passato alla casa della fu D.na Giovanna Massa, ho riconosciuto che dalla parte della muraglia del forno esiste il giuoco delle scale per portarsi a tutti i piani, non essendo il sito ingombrato da detto forno e senza pericolo di prender fuoco il coperto della presente casa, anzi ho riconosciuto esservi nella medesima casa (Massa) un fuocolaio con sua cappa e fumaiolo molto basso ed attaccato ai travi che con facilità può appiccicare fuoco a detti travi e recare del danno a tutte le case vicine.”

Anna Blò, attraverso il suo procuratore Priamo Corrias, chiese pertanto “che si levasse l’inibizione di accendere il suo forno, e si inibisse di far fuoco nel focolaio della casa Massa comunicando l’inibizione all’affittavolo Gio Maria Loi”. Chiese anche l’indennizzo dei danni contro il Commendatore Bonaventura Cossu Madao per l’inibizione ad accendere il suo forno sin dal 30 aprile.

Da quanto scritto nella relazione del Massei, e dalla mappa da lui allegata, la casa abitata da Anna Blo si può identificare con l’unità 2604, la casa Massa con l’unità 2603.

L’attribuzione della casa 2603 all’eredità Massa e poi a Pietro Crobu è confermata dall’atto notarile del 04.08.1806, inventario dei beni dei coniugi Pietro Crobu e Anna Cixidda: il 27 luglio era infatti morta Anna Cixidda; fra gli immobili di proprietà vi erano la casa 2624, acquistata nel 1804, e la casa 2603, comprata il 16.12.1803 dall’eredità di donna Giovanna Massa Masones; si trattava di una casa composta da 3 piani alti e piano terreno e non fu necessario eseguirne la stima in quanto non era stata fatta nessuna modifica, e non era stata ancora pagata dal Crobu, che si limitava a versare 75 scudi di interesse annuo sul capitale.

Con atto notarile del 14 maggio 1811, i padri Minimi del convento di San Francesco di Paola spostarono su altri beni il censo caricato sulla casa nel 1798, liberando così da vincoli la casa Crobu.

Il negoziante Pietro Crobu (1760-1851), detto Topixeddu, era coniugato in prime nozze con Anna Cixidda, in seconde nozze con Giovanna Tuveri figlia di Antonio, con la quale ebbe figli a partire dal 1808.

Dopo il 1850, dal Sommarione dei Fabbricati, la casa 2603 risulta appartenere ancora a Giovanna Tuveri vedova Crobu e ai suoi figli Michele e Raimondo Crobu; una correzione appena successiva al primo impianto catastale attribuisce la casa agli eredi Crobu: Michele, Raimondo, Francesca, Maria, Carolina, Annina e Luigia, mentre viene eliminata l’attribuzione a Giovanna Tuveri. 

Nella casa di via Barcellona, al numero civico 3, mori Il 12.03.1867 la nubile Carolina Crobu di anni 42, figlia del fu Pietro e di Giovanna Tuveri; vi morì a 39 anni la nubile Anna Crobu, sorella di Carolina; il numero civico 3, nel primo catasto urbano degli anni ’50 del secolo XIX, corrisponde alla casa 2603. In data 03.04.1875 morì la ottantottenne Giovanna Tuveri, vedova di Pietro Crobu, in una casa al numero 14 della via Barcellona: non si sa si tratti della stessa casa 2603 (i numeri civici furono cambiati più volte nella seconda metà del secolo), oppure l’altra casa di proprietà, 2624, anch’essa in via Barcellona; il 05.11.1875 morì in una casa di via Barcellona, senza poter precisare il numero civico, il celibe impiegato Michele Crobu, altro figlio di Giovanna Tuveri; altre due sue figlie, Maria e Francesca, morirono nubili nel 1885 e 1895, all’età di 70 anni e 85 anni, in una casa al numero 3 di via Darsena, forse altra proprietà di famiglia (numeri catastali 2477 e 2478).



[1] ASC, Reale Udienza, Cause Civili, pandetta 59, busta 135, fascicolo 16

 

2604     

In data 15.07.1788 venne compilato l’inventario dei beni lasciati da donna Caterina Buschetti Borro di Cagliari, deceduta nel giugno 1788, fatto su richiesta del marito don Gio Batta Ghirisi (o Guirisi), tutore e curatore testamentario dei figli minori ed impuberi, cioè don Ignazio, donna Maria Annica, donna Maria Angela, e donna Pepica Ghirisi Buschetti; fra gli immobili dichiarati c’era una casa in contrada Barcellona, identificata con l’unità catastale 2604, di 3 piani, confinante con casa dei padri Agostiniani (2605), con casa del fu Gio Maria Fulger (2629) strada frammezzo, e con casa del francese Antonio Manuele (2603).

La casa 2604 è poi citata nel fascicolo di una causa civile iniziata nel 1796, e relativa alla casa 2605: la casa di fianco a quest’ultima è la casa Buschetti. La stessa informazione è fornita da un atto notarile del 01.04.1797, anch’esso relativo alla casa 2605.

Don Giovanni Battista Guirisi presentò la denuncia per il donativo (senza data, presumibilmente nel 1799), e dichiarò i suoi beni e quelli delle figlie: è inclusa fra i beni delle figlie una casa nella strada Barcellona che rendeva scudi 40 annui. 

Nell’anno 1800 la casa era abitata (tutta o in parte) dall’inglese Anna Blò (Bloch?); l’informazione viene dal fascicolo di una causa civile di cui si è già riferito per la casa 2603.

Un atto del dicembre 1803, relativo alla confinante casa 2603, indica la casa 2604 come quella che era appartenuta al convento dei Padri Agostiniani (che erano anche proprietari della confinante 2605), poi agli eredi del defunto don Juan Bauptista Guirisy.

Sua figlia donna Anna Maria Guirisi Buschetti (-1837), coniugata con don Bachisio Mearza, presentò la sua denuncia per il donativo (anch’essa senza data, ma presumibilmente del 1807), e dichiarò una casa nella contrada Barcellona di 3 stanze, valutata scudi 500, con una rendita annua di scudi 50; confinante alle spalle con la Regia Salina (2601), di lato con la casa di Pietro Crobu (2603) e dall’altra parte con la casa (2605) del padre scolopio Stanislao (Stanislao Andrè).

Con atto del notaio Efisio Usai Todde del 07.10.1809, Donna Marianna, Donna Mariangela e Donna Giuseppa sorelle Guirisi concessero in enfiteusi la loro casa a 3 piani con la bottega, sita nella strada Barcellona, al negoziante Andrea Oddone (anche Odone, cognome Ligure o piemontese); le prime due sorelle agivano col consenso dei rispettivi mariti (Cavalier Don Bachisio Mearza, Giudice della Reale Udienza, e Cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro don Emanuele Manca di Thiesi, Capitano nel Reggimento dei Cavalleggeri e Scudiere di S.A.R. il Duca del Genevese); Donna Giuseppa agiva per sé, essendo nubile e maggiore di 25 anni. Era una eredità della madre Donna Cattarina Buschetti Borro; in quel momento era abitata da madama Anna Blò, ossia “Annica Sa Inglesa”; Oddone era interessato ad avere la proprieta in enfiteusi perpetua, per trasmetterla ai suoi discendenti, e offrì 60 scudi annui da pagare in anticipo, e si obbligo a riedificare e migliorare la casa entro un anno e conservarla sempre in stato abitabile; le tre sorelle Guirisi non avrebbero avuto difficoltà economiche per occuparsi della casa, ma preferirono “non doversi intrigare in faccende di fabbriche e pagara un Capo Mastro”, per cui accettarono la proposta di Oddone; questi avrebbe pagato la sua rata annuale entro il 25 dicembre, cioè la data in cui sarebbe terminata l’annata dell’affitto di Madama Blò; le proprietarie conservarono il diritto di verificare lo stato della casa, a loro piacere: risultando un inadempimento, la concessione enfiteutica sarebbe decaduta; inoltre Oddone non avrebbe avuto la possibilità di venderla o affidarla ad altri senza ordine e permesso delle sorelle Guirisi.

Nel 1811, da un atto notarile del 14 maggio relativo alla casa 2603, la casa 2604 è ancora detta degli “eredi Guirisi”: o per aver trascurato i cambiamenti del 1809, o per una cessazione del contratto enfiteutico.

Dopo il 1850 apparteneva al giudice Efisio Gastaldi (1817-1881), figlio di Francesco e Maria Antonia Doneddu.

 

2605     

Nell’inventario dei beni della defunta donna Caterina Buschetti, del 15.07.1788, citato nel precedente paragrafo, la sua casa 2604 confinava con una proprietà dei padri Agostiniani, casa 2605.

Da un fascicolo di una causa civile iniziata nel novembre 1796 si leggono queste altre notizie: in data 29.11.1793 il convento dei padri di Sant’Agostino aveva concesso in enfiteusi al viceconsole di Genova Giuseppe Villa (e alla moglie Rita Fadda) una casa in contrada Barcellona, per il canone annuo di scudi 40 corrispondenti all’estimo della casa, di scudi 803 (con una rendita al 5%); il Villa da qualche tempo non pagava il canone con vari pretesti; la casa era detta “di Giordano”, composta da un sottano e 3 piani alti, la cisterna, il forno per il pane, e la latrina; aveva davanti la casa che era un tempo della vedova Fulger, posseduta dalla congregazione del Santissimo Sacramento (2629), di spalle aveva il magazzino Reale per il sale (2601), da un lato la casa del Boticario Miguel Tuvery (2606), e dall’altro la casa Buschetty (2604); intervenne nella vicenda anche l’inquilina della casa, Francesca Martinen, coniugata col maltese Miguel Alfonzo (o anche Delfonzo): la donna pagava 40 scudi annui di affitto per un piano della casa, e aveva pagato fino al 10 maggio 1797; chiedeva quindi di non essere mandata via dalla sua abitazione.

Non si sa esattamente come sia finita la vertenze civile contro i coniugi Villa, ma con atto notarile del 01.04.1797 il Convento di Sant’Agostino diminuì il canone annuo di enfiteusi, da 40 a 36 scudi, riconoscendo evidentemente una sopravalutazione della casa, o qualche disagio intervenuto successivamente.

E’ stato rintracciato un atto notarile del 07.10.1797 con cui Giuseppe Villa, vice console di Genova, si accordò col muratore Vincenzo Castellano e col falegname Vincenzo Adamo, per far eseguire dei lavori di restauro sulla casa, per lire 330 e 2 denari.

Dal fascicolo di un’altra causa civile del 11.04.1799 si sa che Giuseppe Villa, a partire dal marzo 1798, aveva affittato la bottega della casa 2605 a Pasquale Albano; Albano però si era assentato dal Regno, e non aveva pagato l’ultimo semestre; dalla testimonianza di Gian Battista Oddone, vice console napoletano e lontano parente di Pasquale Albano, si sa che l’Albano aveva ceduto la bottega a sua suocera Maddalena Ricardon e a sua cognata Marietta Ricardon.

Con sentenza del 18.11.1799 Pasquale Albano venne condannato a pagare 60 scudi di fitto arretrato, ma non si poté interrompere l’affitto e liberare la bottega in quanto non erano state convocate la suocera e la cognata che la utilizzavano.

In data 23.09.1805 Rita Fadda consegnò il suo testamento al notaio Raimondo Piras; il 12.01.1806, dopo la morte della donna, il notaio Piras, recatosi nella casa della strada Barcellona, aprì e lesse il testamento su richiesta del marito vedovo Giuseppe Villa, curatore ed erede usufruttuario di tutti i beni; alla sua morte l’eredità era destinata alle anime d’entrambi i coniugi e dei loro parenti già defunti, quindi sarebbe stata amministrata dalla Chiesa, con l’obbligo di far celebrare ogni anno una messa cantata solenne dai padri Agostiniani, nella loro chiesa, nella cappella di Santa Rita da Cascia.

Il giorno 5 febbraio 1806 il Villapassò alli eterni riposi quasi di morte improvvisa, senza aver fatto testamento e senza figli ed altri discendenti”; con atto notarile del 10.02.1806 la nipote Catarina Piluffu delegò suo genero Effis Corona perché assistesse alla compilazione dell’inventario dei beni lasciati dal defunto; la Piluffu agiva senza il consenso del marito mastro Francesco Doneddu in quanto erano divorziati da molti anni.

Il 15.02.1806 il notaio Raimondo Piras compilò l’inventario dell’eredità di entrambi i coniugi; ricevette l’incarico dai nipoti: il Reverendo Padre Stanislao dele Scuole Pie e la signora Veronica, fratello e sorella Andrè, figli della fu Maddalena Nattino, sorella uterina del Villa; i signori Pasquale, Ritta e Catterina Peluffo, figli dell’altra sorella uterina, la fu Mariantonia Nattino; essi volevano cautelarsi perché il defunto aveva un fratello che viveva a Livorno, Giovanni Villa, inoltre furono sollecitati con insistenza dal Reverendo Bonaventura Puxeddu, Ricevitore Generale delle Cause Pie della Diocesi, per l’interesse che la Causa Pia aveva nell’eredità della fu Ritta Fadda.

Presenziarono all’inventario, oltre ai parenti, il Reverendo Bonaventura Puxeddu e il Segretario del Commissario dell’impero francese, in quanto il Villa era genovese (con la Liguria allora occupata dalla Francia napoleonica), sia nell’eventualità che potesse esistere in Liguria qualche parente, sia perché il defunto era stato per molti anni viceconsole della Repubblica di Genova: potevano trovarsi fra i suoi effetti personali delle scritture appartenenti alla Cancelleria del Consolato della Repubblica e per questo, subito dopo la sua morte, furono sigillati un “Burò e un Guardarobba”.

Fra i documenti inventariati dal notaio si possono ricordare lo “stromento di divisione dell’eredità paterna e materna” tra le sorelle Rosa e Ritta Fadda (sempre con doppia T, secondo l’uso del tempo), del 29.07.1765, la “nota delle robbe apportate da Ritta Fadda al matrimonio”, lo “stromento di enfiteusi perpetua” della casa nella strada di Barcellona, dove vissero e morirono i coniugi, concessa dalla Comunità del convento di S.Agostino in data 29.11.1793;

Venne descritta la casa, per la quale Giuseppe Villa pagava al convento scudi 36 annui: era composta dal piano terra e 3 soffitti (cioè piani alti), ed un altro mezzo soffitto con una piccola terrazza, con una sola stanza in ogni piano.

Il contratto enfiteutico fra Giuseppe Villa e il convento dei padri di Sant’Agostino è citato anche nella denuncia per il donativo del convento, che dichiarò di ricevere lire 90 annue, esattamente 36 scudi. La denuncia è priva di data, ma dovrebbe risalire al 1799; è invece probabilmente del 1807 quella che presentò il padre Stanislao Andrè delle Scuole Pie, per conto di suo zio Giovanni Villa dimorante in Livorno: venne dichiarata una casa nella strada Barcellona con una bottega e 3 piani di una stanza ognuno, confinante con casa Buschetti (2604) e con casa Tuveri (2606), con la casa Fulger (2629) sul davanti e il Regio Magazzino del sale (2601) alle spalle; la casa valeva lire 2532 e 11 soldi, era affittata per lire 187 e 10 soldi, e si pagava un canone enfiteutico annuo di lire 90 ai padri Agostiniani.

Le carte di una causa civile iniziata nel 1809 confermano il passaggio di proprietà e la parentela fra Giuseppe e Giovanni Villa: il padre Scolopio Stanislao Andrè riferì che, insieme a suo cugino Pasquale Pelufo, in data 27.03.1806 era stato nominato procuratore da suo zio Giovanni Villa, dimorante in Livorno, per prendere possesso dell’eredità del defunto suo fratello Giuseppe Villa; faceva parte dell’eredità la casa che il defunto aveva avuto in enfiteusi dai padri Agostiniani, e Giovanni Villa aveva incaricato i nipoti, suoi procuratori, di venderla; padre Stanislao Andrè era riuscito finalmente a trovare un compratore a “patti vantaggiosissimi”, ma occorreva anche l’accordo con l’altro procuratore Pasquale Peluffo che, “per puro spirito di contraddizione e senza plausibile motivo ricusa di concorrere e dare l’assenso a quella vendita……”; il padre Andrè chiese perciò l’autorizzazione a vendere la casa senza l’avvallo del Peluffo; nel fascicolo della causa è inserita anche una lettera scritta da Giovanni Villa al nipote, datata 04.05.1806, con riferimenti alla morte di Giuseppe Villa e al testamento di sua moglie, e della buona salute dello stesso Giovanni, di sua moglie, di sua figlia e della nipotina; il Villa in particolare si dimostra molto lieto di aver avuto una certa somma di denaro e sperava di vederne altro molto presto, con l’auspicio che potesse essere liquidata in fretta tutta l’eredità.

In altra lettera scritta il 15.11.1807 Giovanni Villa sollecitò un nuovo invio di denaro “in particolare prima di Natale”.

Nonostante i contrasti sorti fra Andrè e Peluffo, con atto del notaio Efisio Piras Meloni del 20.01.1810, l’enfiteusi della casa e i mobili furono comprati dai coniugi argentiere Bernardo Puddu e Antonietta D’Ercoli; non si tenne però conto del diritto dell’Opera Pia sull’eredità di Rita Fadda del 1805 (il Villa era infatti solo usufruttuario dei beni della moglie, che aveva nominato erede l’Opera Pia). Per questo, nell’ottobre del 1810, furono citati in giudizio Andrè e Peluffo con le loro sorelle, e i coniugi Puddu; visti tutti i conti, l’Opera Pia accettò la somma totale di lire 1632 e denari 4 da parte degli eredi Villa, e rinunciò ad ogni altra pretesa.

Dopo il 1850 la casa 2605 apparteneva ancora al Convento dei padri di Sant’Agostino, che non aveva mai perso la proprietà dell’immobile.

  

2606

Da atti notarili del giugno e ottobre 1784, relativi entrambi alla casa Marramaldo 2607, la casa confinante sulla strada Barcellona apparteneva a Michele Tuveri; si tratta dello speziale o Boticario proprietario di diversi altri immobili nel quartiere, figlio di Antioco Tuveri (della villa di Forru, cioè Collinas) e di Francesca Perpignano (nata a Cagliari nel 1707 da genitori palermitani), coniugato nel 1757 con Anna Fundoni; dopo la sua morte, nel 1798, tutti i suoi beni furono ereditati dall’unica figlia Speranza, coniugata nel 1783 con don Carlo Paglietti.

La proprietà Tuveri 2606 è citata anche negli atti relativi alla casa 2605, di novembre 1793 e di aprile 1797.

Viene citata nella denuncia per il donativo del 21.06.1799 di don Saturnino Cadello, marchese di San Sperate, che dichiarò la rendita di lire 125 per un censo di 1000 scudi (2500 lire) caricato su due case del fu Michele Tuveri, una nella strada della Porta maggiore di Sant’Eulalia (2915), l’altra nella strada Barcellona.

Venne dichiarata nella denuncia del 21.06.1799 per il donativo di Speranza Paglietti nata Tuveri, dove è specificato che la casa della strada Barcellona si trovava davanti alla casa dell’eredità Fulger (2629), ed era composta da due piani e piano terreno, in tutto 3 camere e bottega, affittata per scudi 75.

E’ anche citata nel donativo di Giovanni Villa (circa 1807), che dichiarò la sua casa (2605) confinante con la casa (2606) del fu Michele Tuveri.

Con atto del notaio Effisio (con due effe, come si usava!) Ferdiani del 13.08.1806 Donna Speranza Paglietti concesse in locazione la casa della strada Barcellona all’avvocato Emanuele Massa Schirru (Eschirru o Esquirru), per 3 anni e per il canone annuo di scudi 75; la casa era composta da due piani alti e da due botteghe al piano terreno.

Il contratto di affitto con l’avvocato Massa scadeva il primo agosto del 1809; con altro atto del notaio Ferdiani del 01.02.1809 fu stabilito l’affitto a Fortunato Imerone per 95 scudi annui, a partire dal successivo 15 agosto e per 3 anni; fu lo stesso avvocato Massa Schirru a dare la fideiussione per l’Imerone, e non è un caso: infatti i due avevano appena costituito una società per la gestione di un caffè (nella cortina del Molo, casa 2215) nel quale Fortunato Imerone metteva la sua mano d’opera; egli abitava già nella casa 2606 al momento di firmare il contratto di affitto.

In data 09.04.1818 donna Speranza Paglietti nata Tuveri, assistita da suo marito don Carlino Paglietti, citò in giudizio il negoziante fiorentino Luigi Mandò che non pagava l’affitto di 75 scudi della casa della strada Barcellona; il debito del Mandò era solo di 7 scudi, nonostante tutto l’attenta(!) padrona di casa riuscì a fargli sequestrare alcune merci del negozio e alcune monete; il Mandò protestò, queste le sue parole:”……e tutto questo per miseri sette scudi, che pretendeva per affitto di casa anticipato, senza farsi carico che nella massima parte era già pagato con aver speso 29 reali (lo scudo equivaleva a 10 reali) per accomodare la porta di detta casa, 27 reali per far nettare la cisterna, ed accomodar la tromba; e quindi che detto affitto appiù d’esser indovuto si riduceva a soli 14 reali (meno di uno scudo e mezzo), e che detti effetti (quelli riparati) non valgono meno di 65 scudi”. Il Mandò aggiunse inoltre di aver dovuto abbandonare la casa proprio per la resistenza della padrona a ripararla, e chiedeva pertanto la restituzione di quanto era stato sequestrato e di pagargli le spese.

Un’altra causa civile del 1840 vede protagonisti la stessa Speranza Tuveri e sua nuora Isabella Nossardi, vedova di don Raffaele Paglietti; la Tuveri non voleva contribuire al mantenimento dei nipoti orfani; fra i molti beni che le appartenevano c’era anche una casa nella strada di Barcellona, non lontano dalla chiesa di Santa Lucia, con una bottega e due piani: con tutta probabilità si tratta ancora della casa 2606.

Speranza Tuveri, nata nel 1767, morì nel 1847.

Dopo il 1850 la casa 2606 apparteneva al farmacista Antonio Giganti; non si conosce la sua data di morte che è comunque anteriore al 05.09.1876; era sposato con Efisia Pintor, morta vedova e ottantenne nel 1891, cagliaritana figlia del negoziante Francesco e di Efisia Melis; ebbero alcuni figli di cui 3, Fanny, Enrico e Francesco, morirono giovani (23 anni, 31, e 37) nel 1876, 1877 e 1885, senza discendenza.

 

2607

Le prime notizie rintracciate su questa casa vengono dall’atto notarile del 6 marzo 1779, relativo alla casa 2626: quest’ultima aveva di lato, attraverso la strada delle Saline, una proprietà di Carlo Marramaldo.

Il Marramaldo morì il 21 giugno 1784; nell'inventario dei suoi beni, compilato pochi giorni dopo dal notaio Pasquale Maria Cicalò, compare anche una casa nella strada di Barcellona, con una bottega e due piani alti, confinante di lato al callejon (la stradetta, cioè la strada delle Saline), dall’altro con Miguel Tuveri (2606), davanti con Mauricio Arthemalle (2628), di spalle col “almasen Real donde se vende el sal” (2601).

Con atto del 01.10.1784, la casa, stimata lire 2017 e 10 soldi, venne assegnata per metà ad Antioca Marramaldo, per metà a sua sorella Marianna; le due sorelle erano nipoti del defunto Carlo, figlie di suo fratello Agostino Marramaldo e di Barbara Toufani; Marianna, nata nel 1755, sposò lo svedese Christian Weslo (-1804), “consigliere di commercio di Sua Maestà il Re di Svezia e suo Console Generale”; Antioca, cioè donna Cocca Marramaldo Toufani, era moglie di Antonio Cavassa, con cui ebbe figli fra il 1788 e il 1801.

Da una causa civile del 1786 si sa che Carlo Marramaldo l’aveva concessa in affitto per 3 anni, con contratto del 02.02.1783 e per 50 scudi l’anno, al caffettiere Pietro Carboni; quest’ultimo nel febbraio 1786 chiese una proroga di 6 mesi, non avendo ancora a disposizione la nuova abitazione dove doveva trasferirsi; nell’agosto del 1786 voleva restituire le chiavi e disdire il contratto d’affitto, ma nacque una lite con le proprietarie sorelle Marramaldo Toufani, in quanto il contratto firmato nel 1783 lo obbligava a lasciare la casa imbiancata e accomodata, e il Carboni avrebbe dovuto adempiere ai suoi obblighi nei 6 mesi appena trascorsi.

Con atto notarile del 05.10.1803 del notaio Nicolò Martini, le sorelle Marramaldo vendettero la casa; l’atto fu firmato da Maria Antioca Marramaldo col “consentimento” del marito Antonio Cavazza, e da Carlo Federico Funch “Agente di Svezia”, procuratore di donna Marianna Weslo nata Marramaldo [1]; il compratore era il signor Pietro Bausà, scritturale dell’ufficio generale del Soldo; fu pattuito il prezzo di lire 3000, di cui 1500 da pagare immediatamente a Maria Antioca, le altre 1500 di pertinenza di Marianna da pagarsi in 4 anni con gli interessi annui al 5%. La casa al momento della stipula dell’atto era abitata dal panettiere Giovanni Spissu[2] e da altri.

Il giorno successivo all’acquisto Pietro Bausà ricevete in prestito lire 1250 da Giuseppe Corona Guardia Reale del Porto; la pensione annua, al 5%, fu stabilita in lire 62 e 10 soldi, e fu caricato il corrispondente censo sulla casa appena comprata.

La proprietà Bausà è confermata dalla denuncia per il donativo del 16.08.1807 di Maria Anna Pinna, proprietaria della casa 2628, e da atto notarile del 25.08.1808, anch’esso relativo alla stessa proprietà Pinna/Arthemalle, la quale aveva davanti, "strada di Barcellona mediante", la casa di Pietro Emanuele Bausà; quest’ultimo era figlio del notaio Bartolomeo Bausà, era nato nel 1770 e si era sposato nel 1796 con Gerolama Medici; da un atto notarile del 25.10.1808 risulta che abitasse in quell’anno ancora nella strada Barcellona: egli affittò una bottega della sua casa al calzolaio genovese Girolamo Parodi, davanti alla spezieria Papi della casa 2628.

Con atto del notaio Gio Batta Azuni del 04.10.1809 il Bausà vendette la casa al chirurgo Francesco Medori, nativo della Corsica; fu stabilito il prezzo di scudi 1850, per tutta la casa composta da piano terreno con una bottega e 3 piani alti; prima dell’atto Bausà ricevette un anticipo di 150 scudi in “merci da lui scelte”, alla stesura dell’atto ricevette da Medori altri 600 scudi “in valuta d’oro e d’argento”; gli altri 1100 scudi rimasero caricati sulla casa con due censi già esistenti: uno di scudi 500 (1250 lire) e pensione al 5%, di proprietà di Giuseppe Corona, Guardia Reale nella piazza di Cagliari, l’altro di scudi 600 (1500 lire) e pensione al 5%, di proprietà di donna Maria Anna Weslo nata Marramaldo, dalla quale Bausà aveva comprato la casa nel 1803; quest’ultimo censo era da estinguere entro il 1810.

Medori accordò a Bausà 3 mesi per la consegna delle chiavi della casa, mentre la chiave della bottega fu subito consegnata, con la possibilità per il Medori di sloggiare immediatamente l’inquilino.

Quel poco che si sa del chirurgo Francesco Medori è che era di origine corsa (con cognome diffuso in centro Italia), sposato con Maria Rosalia Coppello della Marina (cognome presente in Liguria); era presente a Cagliari almeno dal 1792; i due coniugi ebbero almeno 3 figli: Pasquale si sposò a Cagliari nel 1817 con Efisia Ciampelli; Caterina nata circa nel 1794, morì a Cagliari nel 1869 vedova di Nicolò Coppello; Antonio nato circa nel 1804, sacerdote beneficiato, morì a Cagliari nel 1890.

Dopo il 1850 la casa 2607 apparteneva a Giovanni Dalmassu figlio del fu Giorgio, domiciliato a Suelli.


[1] Donna Marianna viveva col marito svedese nella città di Karlskrona, nella Svezia meridionale

[2] Il panettiere Giovanni Spissu in data 13.07.1803 risulta abitare la casa Arthemalle 2626, sull’altro lato della strada delle Saline

 

2608      vedi 2600

 

2609      vedi 2599

 

2610     

Era una proprietà di don Francesco Maria Viale; è citata in atto del 06.07.1790, relativo alla casa 2611, laterale alla casa Viale. E’ citata anche in una causa penale del 1793, nella quale i fratelli Gastaldi erano stati accusati di avere intese coi francesi (vedi casa 2615): in una testimonianza resa dai mastri Agostino Mereu e Antonio Demontis, essi dichiararono che le case 2617 e 2618 nella strada delle Saline avevano di fronte la casa di don Francesco Viali, sull’altro lato della strada.

Nell’atto di divisione ereditaria dei beni di don Francesco Maria Viale, datato 23.12.1797, già citato per la casa 2598, è scritto che la casa 2610 nella strada delle Saline fu assegnata alla vedova del defunto, donna Pasquala Denegri; fu valutata in lire 3830, soldi 10 e denari 10, era composta da piano terreno con entrata e 4 camerini, il piano superiore con 2 camere e la cucina, l’ultimo piano identico al precedente; confinava davanti con una casa del Sepolcro (2618), di spalle con altra casa dell’eredità Viale (2598) spettante al figlio reverendo Pasquale, da un lato col cortile della casa Novaro (2609) e dall’altro lato con la casa degli eredi Soriga (2611).

E’ citata anche nell’atto di inventario dei beni dei coniugi Mandis, del 10.02.1798, in quanto la casa 2608 del Mandis fu detta confinante con la casa Viale 2610; questa indicazione non tiene conto che fra la casa Mandis e la casa Viale vi era il cortile della casa Novaro 2609.

E’ citata anche nella denuncia per il donativo dell’Arciconfraternita del Sepolcro, del 13.08.1807, in quanto una casa dell’Arciconfraternia nella strada delle Saline, identificata con l’unità 2618, aveva davanti la casa Viale 2610.

Dopo il 1850 apparteneva al conte Giovanni Viale (1767-1856), così come la retrostante casa 2598.

 

2611     

Un atto notarile del 06.07.1790, rintracciato nell’Archivio Martini (ASC), riporta la costituzione di un censo di scudi 600 da parte di Anna Maria Mura, vedova del negoziane Giuseppe Antonio Soriga, a favore del Capitolo Cagliaritano; grazie ai 600 scudi la vedova Soriga poteva liberarsi di un censo di proprietà degli eredi di Filippo Pinna e di un altro di proprietà dei Padri Cappuccini; poteva inoltre pagare diverse pensioni arretrate, ed eseguire delle riparazioni nella casa che possedeva nella Marina, strada delle Saline, identificata con l’unità 2611, confinante da un lato con casa di don Francesco Maria Viale (2610), d’altro lato con casa del segretario Raimondo Doneddu (2612), dietro con casa degli eredi del negoziante Filippo Pinna (2597).

Il dato è confermato dall’atto più volte citato del 23.12.1797, divisione dei beni dell’eredità Viale, nel quale è scritto che la casa Viale 2610 confinava da un lato con la casa del quondam Giuseppe Antonio Soriga.

Anna Maria Mura morì nel 1792; i coniugi Soriga e Mura avevano avuto diversi figli, nati fra il 1744 e il 1765; la figlia più piccola, Rita, aveva sposato nel 1793 il vedovo Giuseppe Pinna Frongia[1], il quale presentò la denuncia (non datata) per il donativo, nella quale dichiarò una casa nella strada delle Saline, proprietà della moglie, composta da un magazzino e 2 piani; ogni piano aveva una sala, un’alcova, una stanza e una cucina; la casa era abitata dai proprietari e avrebbe potuto rendere, se affittata, scudi 60 all’anno; vi era caricato sopra un censo di scudi 600 del Capitolo, e vi si pagava la rendita per il capitale di scudi 300 come “palafreno”[2] a una monaca di Santa Chiara (forse una sorella di Rita).

Il donativo del 13.08.1807 dell’Arciconfraternita del Sepolcro cita la casa di Giuseppe Pinna 2611 (in realtà della moglie) in quanto confinante sul davanti con la casa del Sepolcro 2617. Il Pinna è citato in atto notarile del 21.11.1808, relativo anch’esso alla casa 2617 sull’altro lato della strada delle Saline.

Con atto notarile del 22.07.1812 la signora Rita Soriga, col consenso del suo consorte mercante Giuseppe Pinna Frongia (le donne avevano sempre necessità del consenso coniugale!), vendette la casa della strada de Is Salinas, con i confini già specificati; era composta dal piano terreno e due piani superiorii; sua madre l’aveva avuta per divisione ereditaria del 05.10.1776 per la morte del marito, e la lasciò alla figlia Rita nominata sua erede universale nel testamento del 15.06.1792; anche il notaio Francesco e Priama, fratello e sorella di Rita, avevano una parte di proprietà per la quota legittima di loro diritto; nel frattempo entrambi erano defunti e la loro parte spettava ai rispettivi eredi: l’unica erede di Francesco era la figlia Chiara, nata nel 1779 da sua moglie Angela Frau; Priama si era sposata col napoletano Giuseppe Duci e gli eredi erano i suoi 4 figli di cui si ignorava il nome perché vivevano fuori Sardegna. La casa fu valutata per lire 3458 e 10 soldi; tolti i pesi cui era soggetta furono incassate lire 1658 e 10 soldi; di queste ne spettavano lire 267, soldi 8 denari 4 a Chiara Soriga, altrettanto ai figli di Priama.

Il compratore, notaio Nicolò Martini, versò a Rita Soriga la sua parte, e consegnò al notaio quanto spettava agli altri venditori; Chiara ritirò subito la sua, mentre la parte dei figli di Priama fu trattenuta da Rita che, per garantirne il pagamento se si fossero presentati i nipoti, ipotecò una proprietà censuaria di scudi 339 e soldi 3 che aveva sopra i beni del notaio Francesco Antonio Vacca.

Con atto del notaio Lucifero Zuddas del 14.12.1812 il notaio Nicolò Martini si accordò coi muratori Francesco e Giovanni Antonio fratelli Manca per riedificare la sua casa della contrada delle Saline; secondo calcoli fatti dal Regio misuratore Pasquale Piu avrebbe speso lire 2627, soldi 8 e denari 4 per le opere murarie, e lire 1100 per i lavori di falegnameria.

Dopo il 1850 la casa 2611 apparteneva ai fratelli Martini, don Pietro (1800-1866), avvocato Antonio (1810?-1862), Michele (1810?-1874) e Raffaela: si tratta dello storico Pietro Martini e dei suoi fratelli, figli di Nicolò Martini e Giuseppa Cadeddu, dai quali evidentemente era stata ereditata la casa. La proprietà Martini spiega il ritrovamento dell’atto notarile del 1790 proprio nell’Archivio Martini.

 



[1] Giuseppe Pinna Frongia, nato nel 1756, figlio di Salvatore Pinna e Giuseppa Frongia, aveva sposato una prima volta Francesca Stolf, con la quale aveva avuto dal 1779 (o da poco prima) almeno 8 figli, molti dei quali morirono prestissimo; morta la prima moglie nel novembre 1792, si risposò l’anno successivo con Rita Soriga, nata nel 1765, con la quale ebbe almeno 6 figli.

[2] Parafreno o Palafreno: derivato dal termine di diritto Paraferna (ciò che la moglie possiede, oltre alla dote); indicava i beni necessari alle monache per potersi mantenere dopo aver preso i voti. 

 

2612     

Nell’atto notarile del 06.07.1790, relativo alla casa 2611, risulta cha la casa 2612 appartenesse al notaio e segretario della Reale Udienza Raimondo Doneddu.

Nella denuncia per il donativo presentata dal Doneddu, datata 22.06.1799, è compresa anche una casa nella strada delle Saline, per la quale non sono specificati i confini; era composta da un sòttano affittato per scudi 15, e due piani alti con una camera, due piccole stanze e cucina in ognuno, affittati per scudi 24 e 26 rispettivamente.

La casa è citata in atto di enfiteusi del 24.08.1801, relativo alla casa 2596, che aveva alle spalle la proprietà di Raimondo Doneddu. E’ ancora ricordata cone casa del segretario Doneddu in atto del luglio 1812 relativo alla confinante casa 2611. 

Dopo il 1850 apparteneva a donna Carolina Paglietti (1818-), figlia di don Raffaele Paglietti e della sua prima moglie Francesca Scarpinati; quest’ultima, nata nel 1795, era figlia del giudice don Antonio Scarpinati e di Rosa Doneddu, figlia del notaio Raimondo Doneddu.

 

2613     

I dati rintracciati per questa casa sono in disaccordo fra loro, necessitano di conferme: dall’atto del 15.10.1799, relativo alla casa 2614, quest’ultima confinava “a sera” cioè verso ovest, con una casa dell’azienda ex-gesuitica, identificata con l’unità 2613.

In altro atto notarile del 31.07.1800, relativo alla casa Buschetti 2595, la casa 2613 alle spalle di questa risultava appartenere al Capitolo Cagliaritano.

Nel donativo del 1807 del canonico Gaetano Buschetti, è scritto che la casa 2595 aveva alle spalle una casa della Causa Pia ex Gesuitica; quest’ultima informazione potrebbe conciliare le informazioni dei due precedenti atti: una casa appartenente ai padri Gesuiti, proveniente da un lascito testamentario, quindi a una Causa Pia, è plausibile che dopo la soppressione dell’ordine venisse amministrata dal Capitolo, come gli altri beni delle Cause Pie.

Un altro atto notarile fornisce un’informazione ancora diversa: si tratta di un atto del 24.12.1813, relativo alla casa Gastaldi 2615, davanti alla quale, dalla parte della strada delle Saline, c’erano il cortile ed una casetta del marchese di Villamarina (2614) e un’altra casa del commendator Gioacchino Vacca: quest’ultima, con qualche dubbio, dovrebbe corrispondere all’unità 2613.

Dai dati catastali successivi al 1850 la casa 2613 risulta appartenere alla Basilica di Santa Croce.

 

2614      vedi 2594