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Isolato K1: Costa/discesa Sepolcro/Sepolcro/Santa Teresa

(via Manno, vico Manno, scalette e piazza del Sepolcro, via Dettori, piazza Dettori, scalette di Santa Teresa)

numeri catastali da 2707 a 2722

L’isolato è rimasto integro: non si segnalano modifiche sostanziali rispetto alla situazione di 200 anni fa, con l’unica importante eccezione che il cimitero della chiesa del Sepolcro è stato sostituito dalla piazza; mi è stata messa a disposizione dal ricercatore Vincenzo Spiga la trascrizione di un documento proveniente dall’Archivio comunale, verbale di una seduta del Consiglio Civico del 15.03.1864, durante la quale fu stabilita la sistemazione della piazza intorno alla chiesa e la costruzione della scalinata che porta alla strada della Costa, attuale via Manno. Ho inserito la trascrizione integrale nel capitolo “Varie – approfondimenti”.

Fra le case ricostruite nel corso del XX secolo c’è quella con numero catastale 2717, all’angolo fra la via Dettori e la piazza del Sepolcro.

 

 

2707

Con atto notarile del 27.01.1792 si arrivò a una transazione fra il negoziante di Marsiglia Angelo Brouquier e la Comunità Carmelitana: quest’ultima, con atto del 11.04.1787, aveva ceduto in enfiteusi al Brouquier una casa in calle della Costa con il canone annuo di 80 scudi ma, in data 23.02.1788, la stessa Comunità vendette la stessa casa al mastro muratore Antonio Joseph Cedda; ebbe così iniziò una lite giudiziaria che si chiuse appunto con l’atto notarile del gennaio 1792, col quale si trovò un accordo e il Brouquier riuscì a tenersi la casa.

Con atto del 30.12.1795 Angel Brouquier ottenne un prestito di 300 scudi dai Padri Carmelitani: gli erano indispensabili per effettuare importanti lavori nella casa che aveva in enfiteusi dagli stessi padri, e vi accese un’ipoteca per garantire il pagamento delle pensioni e la restituzione del capitale; in realtà le case erano due, una sulla strada della Costa fra la casa Rapallo (2708) e una casa dell’Arciconfraternita del Sepolcro (2710/a), l’altra si apriva nel vicolo che scende alla chiesa del Sepolcro e la sua entrata era contigua alla parete della Cappella della Pietà della stessa chiesa; le due case si univano sul retro, a formare un angolo.

Nel novembre 1796 ebbe inizio un’altra causa civile fra il Brouquier, il sacerdote Salvatore Rapallo che abitava nella casa confinante 2708, e la comunità di Sant’Eulalia che possedeva la casa 2709,; la causa riguardava i lavori di riedificazione e sopraelevazione fatti dal Brouquier, che avevano arrecato alcuni danni alle case confinanti; la casa di Angel Brouquier aveva piano terra e due piani alti. Fu coinvolto anche il Regio misuratore Girolamo Massei che effettuò una “visita” il giorno 22.12.1796; la sua opinione fu che il danno proveniva dal peso del “fabbrico nuovo” del Brouquier sopra il muro vecchio: la nuova costruzione era stata fatta senza verificare se le fondamenta erano sufficienti a resistere a un nuovo peso; ci fu una prima sentenza del 10.04.1797, con la quale Brouquier fu condannato a riparare i danni causati; fra una perizia e l’altra e vari ricorsi la causa si protrasse almeno fino al febbraio 1799.

Nella sua denuncia per il donativo (senza data ma presumibilmente del 1799) Angel Brouquier dichiarò la casa composta da due piani e due magazzini; egli abitava il primo piano con una sala, un’alcova e 7 stanze fra grandi e piccole, l’avrebbe potuto affittare per lire 327 annue; il secondo piano, grande come il primo, era affittato per lire 225; era affittata anche la parte che dava verso la chiesa del Sepolcro, per lire 45, e i due magazzini erano affittati per lire 125; pagava un censo ai Padri Carmelitani, uno a don Gregorio de Cesaroni (capitale di lire 2000, pensione annua di lire 100) e uno a don Onorato Cortese (capitale lire 6.369 soldi 4, pensione lire 322 soldi 3 e denari 9), per cui “non gli restava niente di netto”. Il censo pagato da Angelo Brouquier ai Carmelitani è confermato nel donativo di questi ultimi, dell’anno 1807; i censi pagati a don Onorato Cortese e don Gregorio de Cesaroni furono da entrambi dichiarati nei rispettivi donativi del 1799.

Con atto del notaio Alessandro Alciator, del 10.05.1808, Gerolama Campi, vedova di Angelo Brouquier, vendette l’enfiteusi della casa al negoziante Salvatore Melis; oltre alla vedova parteciparono alla vendita i suoi figli minori: Anna Brouquier col consenso del marito negoziante Luigi Mameli, Francesca, Antonio, Raimonda, Maddalena, Rita e Francesco, fratelli e sorelle Brouquier, assistiti dal loro curatore, causidico Giovanni Boi; il prezzo pattuito fu di lire 17017 e 10 soldi, a seguito di una valutazione eseguita il 24 marzo per lire 16519 e spiccioli. Il Melis pagò solo lire 1377, soldi 5 e denari 10; per il resto egli si assunse l’onere di pagare lire 6800 ai padri Carmelitani; avrebbe pagato lire 2000 al console Cesaroni, e 4500 lire a don Onorato Cortese, che rinunciò a chiedere gli interessi; l’offerta fatta dal Melis fu ritenuta molto vantaggiosa: infatti il rischio per gli eredi Brouquier era che la casa fosse venduta all’asta per debiti, con una notevole perdita; la vedova e i figli riferirono che il defunto non aveva i mezzi per soddisfare i debiti “per le gravissime perdite che sofferse dopo avere impiegato considerevoli fondi per fabbricare la casa”; il convento dei Carmelitani, che aveva concesso l’enfiteusi nel 1787, rinunciò al laudemio, cioè il diritto di chiedere una parte del valore della casa in caso di cessione dell’enfiteusi a terze persone.

Con atto notarile dello stesso giorno, don Gregorio De Cesaroni incaricò un procuratore per riscuotere da Salvatore Melis il credito di 2000 lire.

Con atto notarile del giorno successivo il Padre Giuseppe Maria Solinas del Convento Carmelitano firmò una ricevuta alla vedova Brouquier, per la consegna di lire 1644 e 19 soldi a saldo delle pensioni scadute di pertinenza del convento, e il giorno 12 dello stesso mese fu don Gregorio De Cesaroni a firmare una ricevuta per 600 lire, a saldo delle pensioni scadute relative al capitale di lire 2000 che aveva prestato al Brouquier nel maggio 1798, con la rinuncia di poco più di lire 97.

Con altro atto del notaio Alciator, datato 26.01.1809, Salvatore Melis vendette la casa al negoziante Giuseppe Rossi per lo stesso prezzo fissato nel mese di maggio 1808; a garanzia dei debiti di cui si dovette caricare, il Rossi ipotecò i suoi beni: in particolare dovette garantire il capitale di lire 6800 del Convento Carmelitano, lire 2000 del Console Imperiale don Gregorio de Cesaroni, e lire 4500 di don Onorato Cortese; si impegnò a pagare il debito verso quest’ultimo entro il 10.05.1809, a avrebbe pagato il residuo di lire 3717 e 10 soldi a Salvatore Melis entro il 1809, senza interessi.

Con atto del notaio Demetrio Satta del 28.09.1810 il Rossi affittò il primo piano della casa di sua abitazione, unitamente alla bottega e al magazzino, al mastro maltese Publio Caroana (o Caruana); il magazzino si apriva nella strada della Costa, attiguo all’ingresso principale della casa, mentre la bottega, sottostante al magazzino, si apriva nella discesa che dalla Costa portava alla chiesa del Sepolcro; l’affitto fu stabilito per 3 anni e per 157 scudi annui, da pagare a semestri anticipati; la bottega fino a quel momento era utilizzata dallo stesso Rossi per le sue merci. 

Dopo il 1850 l’unità 2707 risulta appartenere in enfiteusi al negoziante Francesco Rossi (1809-1887); dovrebbe trattarsi di un figlio del proprietario al 1809, negoziante Giuseppe, fratello del barone Salvatore, figli entrambi del negoziante calabrese Francesco Antonio. 

 

 

2708

Era la casa del sacerdote Salvatore Rapallo, cappellano maggiore dell’Arciconfraternita del Santo Sepolcro; lo si desume da un atto del gennaio 1792, se ne ha conferma dalla causa civile col Brouquier e con la Comunità di Santa Eulalia del 1796/1799 (si veda la casa 2707), e se ne ha ulteriore conferma dal donativo, non datato, dello stesso Rapallo, il quale dichiarò che la casa era così composta: sulla discesa del Sepolcro c’era un “sòttano” formato da una piccola bottega e due stanze, il tutto affittato a 24 scudi annui; sulla strada della Costa c’era un piano terreno con una bottega, una stanza e una piccola cucina, il primo piano aveva una sala e due stanze, e i due piani erano affittati a scudi 75; il secondo piano era composto da 3 stanze, una piccola cucina, e una stanza di sopra, e lo utilizzava il proprietario come sua abitazione. Veniva pagata una pensione censuale di 68 scudi al Capitolo Cagliaritano.

Il 18.03.1799 il sacerdote ricevette altri 100 scudi dal Capitolo, caricate a censo sulla sua casa; gli occorrevano per effetture delle urgenti riparazioni su una parete della casa, in particolare la parete sul lato della disesa del Sepolcro, forse lesionata a seguito dei lavori eseguiti nella casa Brouquier.

In atto notarile del 16.04.1799, relativo alla casa Scalas 2418, sull’altro lato della strada della Costa, è scritto che la casa era del fu mercante Antonio Rapallo, poi dei suoi eredi: Antonio Francesco, padre del sacerdote Salvatore, risulta già defunto nel 1770.

Con atto del notaio Giovanni Battista Cicalò Galisai, del 29.04.1806, il sacerdote Rapallo concesse in affito la bottega (colle sue due stanze) e il primo piano della sua casa nella strada della Costa al negoziante genovese Andrea Piccaluga, figlio del fu Tommaso; il piano superiore era abitato dallo stesso Rapallo; Piccaluga avrebbe pagato 80 scudi annui, l’affitto fu concordato per 10 anni; era concesso anche l’uso della cisterna, a condizione che il Piccaluga “non dia acqua ad alcuno senza il consenso del locatore”.

Il Reverendo Salvatore Rapallo (1731-1807), sacerdote beneficiato della Primaziale cagliaritana, abitante in una casa di sua proprietà nella strada della Costa ossia di Sant’Antonio abate, in data 13.08.1798 scrisse il suo testamento; lo consegnò il 05.07.1801 al notaio Pasquale Saunei. Morì all’una di notte del 7 gennaio 1807; il notaio fu chiamato dalla nipote del sacerdote, Pepica Ravagli, si recò nella casa del defunto, lesse il testamento e lo pubblicò il giorno successivo; il Rapallo aveva nominato la nipote sua erede universale, a lei grato per essersi presa cura di lui sia quando era in buona salute, sia durante la sua infermità (così egli dichiarò nel 1798, 9 anni prima di morire); Pepica Ravagli, figlia del fu Domenico Ravagli “de Florencia”, aveva assistito anche la madre del sacerdote, Julia Amoreti (-1774), la sorella Francesca Rapallo (1727-1788?) e il fratello Giuseppe Rapallo (1741-1792); si ignora l’esatta parentela fra i Rapallo e i Ravagli.

In atti del 10.05.1808 e del 06.01.1809, relativi entrambi alla casa 2707, la casa confinante risulta ancora degli eredi del sacerdote Rapallo. 

Dopo il 1850 la casa apparteneva all’orefice Vincenzo Peluffo (1800-1876) figlio del fu Pasquale.

 

 

2709     

Dalle carte relative alla causa civile fra il negoziante Brouquier proprietario della casa 2707 (si veda il paragrafo relativo a questo numero catastale), il reverendo Rapallo proprietario della casa 2708, e la Comunità di Sant’Eulalia, risulta che quest’ultima fosse proprietaria della casa 2709 almeno dal 1796; era una casa con piano terreno e primo piano, e la si identifica con la casa detta Comellas II, dichiarata nel donativo presentato dalla Comunità nel 1799, era composta da due stanze al primo piano e il sottano.

Con atto notarile del 11.02.1805 la casa venne concessa in enfiteusi al negoziante Raimondo Vacca nativo di Escolca, che la ebbe per la sua vita e per la vita di sua moglie Giovanna Salis; il Vacca abitava nella casa da più di 20 anni e pagava 20 scudi annui di affitto, vale a dire 50 lire; con l’enfiteusi avrebbe pagato la stessa cifra, in rate semestrali; si impegnò per aggiungere un secondo piano entro un anno; alla morte di entrambi i coniugi la casa sarebbe tornata in piena proprietà della Comunità di Santa Eulalia con tutti i miglioramenti fatti, e la Comunità avrebbe celebrato le messe nell’anniversario della morte di entrambi i coniugi. La casa era stata acquistata dalla Comunità il 20.06.1718 con atto del notaio Francesco Angelo Sillai Villa. 

Dopo il 1850 apparteneva alla Comunità di Sant’Eulalia.

 

 

2710

Occorre dividere l’unità catastale in due parti:

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2710/a

La parte sinistra o di ponente era una casa piuttosto stretta con facciata sulla strada della Costa, che arrivava sul retro fino alla chiesa del Sepolcro, forse slargandosi alquanto e forse occupando una parte del cortile della casa 2707; in atto notarile del 12.10.1792 risulta di proprietà dell’Arciconfraternita del Sepolcro; il dato è confermato in atto del dicembre 1795, relativo alla confinante casa 2707, e in atti del 1798, del 1799 e del 1802, tutti relativi alla confinante casa Sciaccaluga 2710/b.

Con atto del notaio Gioachino Mariano Moreno del 16.07.1804 i guardiani dell’Arciconfraternita del Sepolcro concessero la casa in enfiteusi perpetua al mastro calzolaio e negoziante Bernardo Ferrara (o Ferraru); la casa era composta da un solo piano alto e il sotano, abitata in quel momento dal musico napoletano Gio Batta Papi che pagava 60 scudi di affitto; erano tre le persone che avevano fatto una proposta per avere l’enfiteusi: il confratello e notaio Francesco Soro domiciliato nel Castello, con un progetto poco vantaggioso che venne scartato; il notaio della Reale Udienza Miguel Delorenzo domiciliato in Villanova, con un progetto simile a quello del Ferrara; venne preferito Bernardo Ferrara in quanto da anni era confratello e si era sempre reso utile alla comunità; avrebbe pagato scudi 60 annui, come l’affittuario, e si impegnò a migliorarla, tenerla in buono stato abitabile e costruire il secondo piano entro 4 anni.

Egli ne denunciò la proprietà enfiteutica nel suo donativo, databile 1806 o 1807; dichiarò che la sua casa comprendeva una grotta sotterranea, al piano basso una bottega, due stanze e cucina, al primo piano 3 stanze e cucina; il valore della casa era 2500 lire, la abitava lui stesso e pagava 60 scudi annui per l’enfiteusi.

Con atto notarile del 19.12.1811 l’Arciconfraternita del Sepolcro, rappresentata dai guardiani professore e avvocato Giuseppe Zedda, mastro Giuseppe Ardau e mastro Antonio Vincenzo Manca, rinnovarono l’enfiteusi della casa al loro confratello mastro scarparo Bernardo Ferrara; questi già da alcuni anni avrebbe dovuto costruire un altro piano ma, a causa della strettezza della casa, in particolare la parte dell’ingresso sulla strada della Costa, non era stato possibile perché “non vi è il modo di formare il giuoco delle scale”; nel 1811 si trasformò la concessione enfiteutica concedendola per la vita di Ferrara e di sua moglie Rosa Todde [1], col patto che venissero spesi almeno 300 scudi per rifare il tetto; si confermò il canone di scudi 60 annui.

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2710/b

Da un atto notarile del 1778, relativo alla casa 2713, sembra di poter identificare la casa 2710/b con quella dove abitava il “velero” (fabbricante di vele) Pedro Peres[2]. In atto notarile del 21.10.1791 risulta invece che appartenesse ai fratelli Sciaccaluga, figli del defunto negoziante genovese Giovanni e di Maddalena Napoli; qui, in un appartamento di proprietà di Giuseppa Sciaccaluga vedova Busu, abitavano nel gennaio 1797 gli zii del defunto marito della proprietaria, i coniugi genovesi Giovanni Battista e Maria Antonia Busu, e Giovanni Battista Busu vi morì agli inizi del mese; nel febbraio 1798, dall’inventario dei beni di Giuseppe Sciaccaluga, altro figlio di Giovanni, fatto pochi mesi dopo la sua morte, si legge che il defunto era proprietario del piano terra, formato da una bottega e un magazzino, e del primo piano. L’inventario ci fornisce anche altre notizie più antiche: la casa sulla strada della Costa era stata venduta il 30.04.1750, per 2080 scudi, dal reverendo Pedro Scarpinati rettore di Gavoi a Giovanni Sciaccaluga, e dopo la morte di Giovanni Sciaccaluga, il suo figlio omonimo Giovanni, con atto del 17.07.1783, aveva venduto la sua quota ereditaria al fratello maggiore Giuseppe.

Il negoziante Giuseppe Campus (il cui vero cognome era però Campi, cognome ligure), marito di Paola Sciaccaluga (1774-1844) figlia di Giovanni (junior), nel suo donativo (senza data) dichiarò di possedere una bottega ed il piano terreno affittati a lire 130, una grotta sotto la bottega affittata per lire 7.10, e un magazzino non affittato[3]. Giuseppa Sciaccaluga, zia di Paola, dichiarò invece di possedere 6 stanze con terrazzo, abitate dalla vedova Maria Antonia Busu [4]. Raimonda Sciaccaluga (1777-1799), sorella di Paola, era invece proprietaria del piano alto superiore, ereditato dal padre Giovanni che a sua volta l’aveva ereditato dalla madre Maddalena Napoli. Raimonda morì nubile nel luglio del 1799, tutti i suoi beni furono ereditati dall’unica sorella Paola.

La proprietà è confermata nel 1804 da una causa civile, e dal donativo dei Legati Pii del 14.08.1807, dove si dichiara un censo pagato da Giuseppe Campus (Campi) sulla casa della strada di Sant’Antonio, cioè della Costa.

Con atto del notaio Francesco Soro del 15.05.1809, Giuseppa Sciaccaluga, vedova del dottor Gesuardo Busu, concesse in enfiteusi perpetua la sua quota della “casa grande Sciaccaluga” al negoziante Giacomo Ignazio Federici; la proprietà le proveniva dall’eredità di suo fratello Giuseppe Sciaccaluga, il quale a sua volta aveva ereditato dal padre Giovanni, come da divisione del 26.04.1779 (notaio Francesco Andrea Frau Calvo), e divisione del 05.12.1798 (notaio Gioachino Efisio Aru); fu concesso in enfiteusi tutto il piano sopra la bottega della casa nella strada della Costa (2710/b), composto da “una sala verso la Costa, una camera dopo la scala, altra sala verso il mare con arcova, una camera con il terrazzo che dà verso le scalette di Santa Teresa, altra camera ed una cucina attigua dirimpetto allo stanco”; le ultime stanze citate formavano il quarto piano (più probabilmente il terzo piano sopra il piano terreno) della casa piccola (2714) confinante con la casa Rapallo (2715); la proprietaria ne ricavava 60 scudi annui e, non volendo alienare subito i beni in maniera definitiva, ma avendo necessità di contanti per il suo mantenimento, si accordò col Federici che era disposto a pagare scudi 100 sul capitale; la proprietà di Giuseppa Sciaccaluga era stata valutata (nella divisione del 1798) in lire 3261, soldi 5 e denari 3; sottratti quindi i 100 scudi (250 lire) acquistati dal Federici, egli avrebbe pagato la pensione enfiteutica sul rimanente capitale di lire 3011.5.3, stabilita in scudi 55 annui pagabili a semestri, con la promessa di mantenere il bene in condizioni abitabili, e di effettuare i miglioramenti necessari.

Con atto di stessa data del medesimo notaio Soro, anche Paola Sciaccaluga, nipote di Giuseppa, col consenso e assistenza del marito Giuseppe Campi, concesse in enfiteusi perpetua la sua parte di casa allo stesso Federici; si trattava del secondo piano della “casa grande Sciaccaluga” (2710/b), composto da “una piccola sala verso la Costa, una piccola camera attigua, altra camera dopo la scale, una sala verso il mare con arcova, una camera a mano sinistra che guarda al terrazzo verso le scalette (di Santa Teresa) e nel sopra verso il tetto la cucina, dispensa, ripostiglio e terrazzo”. Federici avrebbe pagato il canone annuo di scudi 60, pagabili a semestri; il valore del piano, da estimo del 25.07.1799 (notaio Giambattista Atzori), era di lire 3571. Era stato assegnato nel 1779 in porzione d’eredità di suo nonno Giovanni Sciaccaluga a sua nonna Maddalena Napoli, passò poi nel 1798 a Paola e a sua sorella Raimonda per eredità della nonna, e infine nel 1799 in totale proprietà di Paola come erede della sorella Raimonda.

Con altro atto notarile del medesimo notaio, datato 05.06.1809, i “giugali” (coniugi) Giuseppe Campi e Paola Sciaccaluga firmarono la ricevuta per scudi 540 a loro pagati da Giacomo Ignazio Federici: si trattava dell’anticipo di 9 anni del canone annuo di 60 scudi; la somma sarebbe servita ai coniugi per estinguere un debito di scudi 500 verso il signor Giuseppe Revello, per mercanzie varie da lui consegnate (data l’entità del debito si tratta di acquisti legati all’attività di commercianti dei coniugi).

Con atto notarile del 24.07.1811 il muratore Antonio Vincenzo Manca e il falegname Salvatore Zucca consegnarono la ricevuta di lire 3783, soldi 3 e denari 3 al negoziante Giacomo Ignazio Federici per alcune riparazioni e miglioramenti fatti nei due piani alti della casa che il Federici aveva avuto in enfiteusi perpetua dalle proprietarie, Giuseppa Sciaccaluga vedova Busu e Paola Sciaccaluga moglie di Giuseppe Campi. Giacomo Ignazio Federici, proveniente da Sestri Levante, morì nel 1829.

Dopo la morte di Giuseppa Sciaccaluga, e divisione della sua eredità del 19.10.1812, la nuda proprietà della casa che aveva in enfiteusi il Federici fu assegnata alle sorelle Efisia e Marianna Denegri, figlie della fu Anna Sciaccaluga, sorella di Giuseppa.

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2710

Nel primo catasto del 1854 tutta l’unità catastale 2710 risulta ancora dei Federici, che forse ne avevano riscattato in pieno la proprietà; una parte era dei fratelli Antonio (1805-), Nicolò (1806-1868) ed Emanuele (1814-1878), figli di Giacomo Ignazio e di Maria Anna Vodret; un’altra parte era invece dei fratelli Vincenzo (1828-1901) e Giacomo (1836-) Federici, figli della defunta Maria Federici sorella dei precedenti, e del genovese Giuseppe Federici (Sestri Levante 1792?- Cagliari 1879); i coniugi di stesso cognome erano parenti, tanto che per il loro matrimonio del 1827 ottennero la dispensa per il III e IV grado di consanguineità; essendo Vincenzo e Giacomo minori, la proprietà era amministrata dal padre Giuseppe.

Una registrazione di poco successiva, forse del 1854 o 1855, riporta che l’intera proprietà Federici era stata ceduta al negoziante Agostino Vignolo (Santa Margherita Ligure 1805?-Cagliari 1886).

 



[1] Non si conoscono le date di morte dei coniugi Ferrara-Todde; però si sa che Bernardo si risposò qualche anno dopo con Caterina Bruno, da cui ebbe diversi figli fra il 1816 e il 1826; nel 1810 Bernardo Ferrara e sua moglie avevano avuto in enfiteusi una grande bottega nella strada di Barcellona, numero catastale 2640

[2] Non si hanno conferme a questa informazione, e non si hanno altre notizie su Pedro Peres, a parte che è forse la stessa persona che possedeva o utilizzava un giardino nella strada del Fortino (num. catastale 2850)

[3] In realtà nella dichiarazione per il donativo non venne specificata nemmeno la strada della casa dove erano compresi questi beni, ma è più che probabile che si tratti della casa di famiglia, numero 2710

[4] Maria Antonia, vedova di Giovanni Battista Busu, era probabilmente una parente, forse una cugina prima, del marito, ed anche il suo cognome da nubile era Busu; più esattamente era Buso, data l’origine genovese di entrambi i coniugi.  

 2711     

Da un atto notarile del 1778, relativo alla casa 2713, risulta che l’unità 2711 fosse divisa in quell’anno in due case diverse: la parte laterale alla casa 2713, con facciata sulle scale di S.Teresa, era di tale Caterina Pili, mentre la parte sulla strada della Costa, che confinava posteriormente con la casa 2713, era una proprietà di Santa Teresa (cioè della abolita Compagnia di Gesù), ma prima apparteneva al defunto dottore Antonio Alivesy, e dopo la morte di questi a sua moglie Marietta Orrù.

Da notizie gentilmente fornitemi in data 10.04.2016 da Luigi Orrù di San Raimondo, risulta che la casa era appartenuta fino al 1758 alla dama Maria Orrù, vedova del dottore in diritto Francesco Antonio Alivesy; nel suo testamento del 02.08.1758, la dama Orrù specificò che possedeva la casa come bene surrogato alla sua porzione d’eredità materna; lasciò alla Compagnia di Gesù la bottega della casa, unitamente ad una stanza e l’alcova, e il mezzanino (entresuelo) dove vivevano i servitori; lasciò alla Confraternita del Sepolcro la casa di abitazione, situata nella strada della Costa, con il magazzino del grano, il sottano per legna e carbone, e alla stessa Confraternita lasciò una casetta posta sotto la cucina e un'altra posta sotto la stanza e l’alcova della bottega, entrambe con l’ingresso verso la scalinata che scende a Santa Teresa; queste due ultime casette, parti dell’unità 2711 sulle scalette, le lasciò però in usufrutto alla serva (criada) Caterina Pili, unitamente ad alcuni mobili e oggetti di casa.

Nel marzo del 1792 la parte della strada della Costa apparteneva alla chiesa e Arciconfraternita del Sepolcro, i cui guardiani[1] la concessero in locazione al negoziante francese Francesco Vivenet (poi Vivanet); Vivenet ottenne di occupare come inquilino “la entrada” e il secondo piano alto della casa che era appartenuta alla defunta dama Maria Orrù, in calle della Costa; “la entrada en forma de tienda” cioè utilizzata come bottega, il piano alto per sua abitazione, e offrì 600 scudi senza interessi, 60 scudi all’anno per dieci anni, somma che sarebbe stata amministrata dal canonico Benito Isola, clavario e procuratore generale della chiesa; queste informazioni non permettono di identificare la casa in questione, ma da atti successivi, dove vengono spiegati i confini, è chiaro che l’Arciconfraternita possedeva l’intera casa 2711, con una facciata sulla Costa e altra facciata sulle scale di Santa Teresa.

Nell’inventario dei beni del defunto negoziante Antonio Scarpinati, del settembre 1797, si legge che la casa 2711, posta di fronte a casa Scarpinati (2420 e 2421), apparteneva all’Arciconfraternita del Sepolcro. Altre conferme si hanno da atti notarili del dicembre 1798 e del febbraio 1799, relativi alla confinante casa Sciaccaluga.

Si può identificare la casa con quella citata nella denuncia per il donativo dell’Arciconfraternita del Sepolcro, del 1799, che dichiarò di ricevere un canone annuo di lire 150 (cioè scudi 60) per una casa nella strada della Costa, formata da 2 piani con 6 stanze in tutto e bottega; dalle 150 lire se ne pagavano 125 al mastro Pasquale Caredda per la proprietà censuale di £ 2500 al 5%.

In data 17 febbraio 1799 il negoziante Francesco Vivenet di Pariginaturalizzato in questo regno”, consegnò il suo testamento in plico sigillato al notaio Sisinnio Antonio Vacca, nella sua casa di abitazione sita fra la contrada della Costa e quella di S.Teresa, dove si trovava “alquanto incomodato”; morì verso le ore 7 della mattina del giorno 2 agosto 1802, ed il giorno stesso il notaio Vacca si recò a casa del defunto per l’apertura del testamento; il Vivenet era vedovo di Brigida Malet, ed eredi universali erano i figli sacerdote Antonio, Giuseppe, Battista, e la nubile Elisabetta, mentre erano eredi per la sola quota legittima le figlie Maddalena e Caterina, coniugate rispettivamente con i fratelli Matteo e Lazzaro Piccaluga; all’altra figlia suor Maria Chiara Vivenet del monastero delle cappuccine, il defunto legò la somma di 300 scudi, che avrebbero reso il 5% annuo.

Due atti notarile del 1803, relativi alla casa confinante 2712, riferiscono che la parte della casa 2711 sulla strada della Costa era una proprietà dell’Arciconfraternita del Sepolcro, ma che anticamente apparteneva a tale Giovanni Domenico Vigeri; gli atti del 1803 sembrano fare riferimento ad un situazione del 1697, quindi il Vigeri dovrebbe essere un proprietario precedente ai coniugi Alivesy-Orru, prima citati; anche la parte sulla scale di Santa Teresa nel 1803 apparteneva all’Arciconfraternita, ma anticamente era di Francesco Corda; anche in questo caso ci si riferisce ad un proprietario del 1697, anno in cui la Comunità di S.Eulalia acquistò la casa 2712.

Da un atto notarile del 15.04.1806, relativo alla casa confinante 2713, la casa 2711 è definita una proprietà della confraternita del Santo Sepolcro, abitata in parte dal negoziante Ignazio Romanino (o Romagnino), in parte dal negoziante Battista Vivanet.

Nel donativo del 13 agosto 1807 presentato dall’Arciconfraternita del Santo Sepolcro e della Morte, venne dichiarata la proprietà di una casa sita nella contrada della Costa, che “tira sino alla scaletta del Regio Stanco del tabacco” (scalette di Santa Teresa), di cui un piano (probabilmente dalla parte delle scalette) era abitato dal negoziante Ignazio (Pietro Ignazio) Romagnino che pagava £ 150 annue, mentre un altro piano di 6 stanze sulla Costa e 2 stanze sulle scalette e la bottega, erano occupati dagli eredi Vivanet che pagavano lire 150 e 10 soldi annui; la casa è ben identificata con l’unità 2711 grazie alle indicazioni sulle case limitrofe.

In due atti notarili di febbraio e di agosto 1811, relativi entrambi alla casa 2713, è specificato che la casa di proprietà del Santo Sepolcro era in enfiteusi al negoziante Ignazio Romagnino; con tutta probabilità anche la parte di casa occupata dai Vivanet come inquilini era stata nel frattempo concessa in enfiteusi agli stessi Vivanet.

Dai dati del catasto, successivi al 1850, la casa risulta appartenere in parte al negoziante Ferdinando Foltz, e in parte in enfiteusi a Elisabetta Vivanetti (sic) figlia del fu Francesco; Elisabetta Vivenet, che alla morte del padre era l’unica figlia rimasta nubile, risulta defunta molto anziana nel 1852; i dati dell’antico catasto non riportano il successivo proprietario. Il portone, che corrisponde attualmente al numero 36 della via Manno, è sormontato da una inferriata nella quale sono inserite le lettere “A” e “V”: quest’ultima potrebbe corrispondere al cognome Vivanet.



[1] Cioè  “los hermanos dela hermandad del SSmo Crocifisso y dela Oracion, alias dela muerte, erigida en la iglesia del Sepulcro” 

 

2712     

Un atto notarile dell’ottobre 1790 ci dice che questa casa era della Comunità di S.Eulalia; una conferma arriva da altro atto del settembre 1797, e dall’inventario dei beni della defunta Anna Scarpinati, proprietaria di una casa sull’altro lato della strada, dell’ottobre 1800.

Con atto del notaio Nicolò Martini del 09.05.1803, la Comunità di Sant’Eulalia concesse la casa in enfiteusi al negoziante genovese Matteo Pittaluga (o Piccaluga), che già la abitava in locazione; il canone annuo concordato fu di lire 312 e soldi 10, e comprendeva sia l’abitazione, sia la bottega che in quell’anno era utilizzata dal mastro Vincenzo Deplano; la Comunità possedeva l’immobile dal 1697, acquistata da Filippo Pinna con atto del notaio Didaco Ferreli.

In data 26.06.1803 Matteo Piccaluga si accordò col mastro muratore Antonio Pilloni per costruire un nuovo piano della casa; era un suo interesse innalzare la costruzione, ed anche un obbligo inserito nel contratto di enfiteusi; fu siglato un accordo per la spesa di lire 1176.

Il donativo del 1807 dell’Arciconfraternita del Sepolcro, proprietaria della casa 2711, conferma che la casa 2712 era di Matteo Pittaluga (-1815), e il dato è confermato anche da un atto notarile del gennaio 1808; Matteo Piccaluga (o Pittaluga), genovese, era coniugato con Maddalena Vivenet, la cui famiglia viveva nella casa confinante 2711. 

Il donativo del 1807 dell’Arciconfraternita del Sepolcro, proprietaria della casa 2711, conferma che la casa 2712 era di Matteo Pittaluga (-1815), la stessa informazione arriva da un atto notarile del gennaio 1808 e da altro atto del febbraio 1810; Matteo Piccaluga (o Pittaluga), genovese, era coniugato con Maddalena Vivenet, la cui famiglia viveva nella casa confinante 2711.

Nel catasto di metà ‘800 la casa e la bottega risultano appartenere a Luigi Alberti: era un negoziante nato a Orta Novarese, sposato con Michela Santangelo; morì nella sua casa della strada della Costa all’età di 77 anni il 04.03.1875; la vedova, originaria di Ischia, morì all’età di 85 anni il 18.04.1891, nella casa il cui indirizzo era diventato via Manno 25. Il loro figlio Agostino, negoziante, morì nella stessa casa all’età di 50 anni il 30.10.1894. 

 

2713     

Con atto notarile del 26.03.1778 i “fratelli uterinireverendo canonico Giuseppe Laines e il reverendo Antonio Efisio Viola, comprarono una casa dai carpentieri mastro Gimiliano, mastro Francesco e mastro Giovanni Battista fratelli Degioannis, tutti di Cagliari e tutti domiciliati nella Marina; era una casa “de dos altos, dos sotanos o sean Bodegas, sisterna y 5 balcones de hierro”, che i fratelli Degioannis, chiamati anche fratelli “Cartari” (o Cartaros) [1], possedevano “en el lugar dicho la escaleras por donde se baja al Estanco y a la iglesia de S.Teresa de la abolida compañía de Jesus”; l’avevano acquistata il 18.06.1773 dal notaio Juan Bua Tanda che agiva in qualità di procuratore dei Legati Pii del convento di S.Maria di Jesus (nel frattempo trasferito nel convento dei Padri Osservanti di Santa Rosalia); nel 1773 fu venduta per 425 scudi, dei quali i fratelli Dejuannis ne pagarono solo 25, mentre gli altri 400 furono caricati a censo sulla casa stessa, con pensione al 6% di 24 scudi annui.

La casa era stata sicuramente riedificata dai 3 fratelli falegnami, probabilmente elevata di un piano; nel 1778 fu stimata dai periti incaricati scudi 1760 e 8 reali, e fu venduta ai due fratellastri sacerdoti per 1600 scudi, dei quali essi pagarono solo 400 scudi in moneta, si riservarono altri 400 scudi per il censo rimasto sulla casa, e per i rimanenti 800 scudi si obbligarono a versarli in 4 anni, 200 scudi all’anno, pagando anche i frutti compensativi al 5%.

La casa, grazie ai confini specificati nell’atto, e grazie agli atti dei successivi anni, è identificata con l’unità 2713.

Nel fascicolo di una causa civile iniziata nel marzo 1782[2] si legge che in quel periodo era abitata dal sacerdote Viola; la causa riguardava l’estinzione totale del prezzo della casa, cioè 300 scudi che i compratori dovevano ancora pagare, insieme a 15 scudi di frutto compensativo di un anno; non si giunse in fretta a una conclusione anche per il disaccordo fra i fratelli Degioannis, di cui nel frattempo era deceduto Giovanni Battista; nel febbraio 1784 morì anche Antonio Efisio Viola; il canonico Laines era il curatore delle sue sorelle (uterine) Anna e Rosa Viola, subentrate nella proprietà del fratello Antonio Efisio.

In atto notarile del dicembre 1792, l’ormai unica proprietaria Anna Viola, (erede di sua sorella Rosa, di suo fratello reverendo Antonio Efisio, e donataria dell’altro suo fratello uterino canonico Giuseppe Laynes) estinse un debito di 423 scudi, 3 reali ed un soldo che aveva con il convento dei Padri Osservanti di Santa Rosalia, ed estinse così l’ipoteca sulla casa, esistente dal 1773.

Un atto del luglio 1796 ed un altro del gennaio 1798 confermano che la casa era degli eredi del canonico Laynes; Anna Viola risulta proprietaria da altro atto del dicembre 1798 e da altri del 1799; infine nel donativo del 22 giugno 1799 presentato da Annica Viola, convittora del Monastero di Santa Lucia, è dichiarata la proprietà della casa sita nella strada di Barcellona[3], composta da 2 piani alti ognuno con 3 stanze, e 2 negozi, tutta affittata per lire 205 annue che costituivano il “palafreno” [4] che Annica Viola utilizzava per vivere nel Monastero.

Con atto del notaio Giovanni Maria Senes del 15.04.1806, il Reverendo Juan Bauptista Senes, Procuratore Generale di Annica Viola, convittora nel Monastero di S.Lucia, concesse in locazione la casa per 10 anni e 42 scudi annui a Don Joseph Basan; era una casa di due piani alti sita nel quartiere della Marina e strada “dicha de su Stangu de su tabbaccu”.

In atto notarile del 19.06.1807, relativo alla casa 2764, la casa 2713 risulta appartenere alle Monache Cappuccine; non si hanno però conferme di questo: l’informazione sembra davvero poco attendibile, frutto di confusione con le monache di Santa Lucia; un atto del 25.02.1811 del notaio Antonio Tiddia spiega meglio la situazione: Anna Viola, con atto del 20.08.1794, aveva donato al Monastero di Santa Lucia la proprietà di metà della casa, tenendosi l’usufrutto; dopo la sua morte, con la rendita si sarebbe dovuta celebrare nel monastero una messa quotidiana per l’anima della defunta; l’altra metà della casa, quella che in precedenza era del fratello uterino canonico Laynes, era stata sequestrata e venduta all’asta pubblica, a causa di debiti che il canonico aveva verso il Seminario Tridentino, e fu proprio il Seminario che ebbe modo di acquistarla; nel 1811 la casa era in condizioni precarie, Annica Viola avrebbe dovuto sobbarcarsi delle ingenti spese per accomodarla; pertanto chiese la revoca della donazione fatta al Monastero, e donò la mezza casa che le restava al nipote canonico Raffaele Humana, che la ospitava presso di sé e la accudiva “come una propria madre”; la parte di casa donata era quella che la donna aveva ereditato da suo fratello germano Antonio Viola, posta in vicinanza della chiesa di Santa Teresa e del Regio Stanco del Tabacco (2763), tra la casa del Santo Sepolcro venduta in enfiteusi a Ignazio Romagnino (2711) e la casa degli eredi Sciaccaluga (2714). 

In realtà già dal 10.01.1810 Annica Viola aveva donato la metà della casa al canonico Humana; ma non aveva tenuto conto della donazione fatta a suo tempo al monastero, per cui dovette chiedere “l’assoluzione dal vincolo”, e questo le fu accordato solo il 6 febbraio del 1811; questo dopo che con atto del notaio Antonio Tiddia, del 26.08.1810, fu firmato un accordo fra il canonico Don Raffaele Humana e la Madre Abadessa del Monastero di Santa Lucia, per chiudere la lite finita in tribunale; Humana avrebbe pagato la penale di scudi 100 e tutte i danni e le spese per l’avvio della lite giudiziaria.

Con atto notarile del 17.08.1811 il canonico Antonio Visca, in qualità di preside del Seminario Tridentino, cedette a don Michele Humana, per lire 2000, l’altra metà della casa Viola, per risanare dei debiti che il Seminario aveva verso lo stesso Humana.

Il canonico Raffaele Humana (1764-1825) era figlio di don Michele Humana (1745-1816), il quale era figlio di don Giuseppe Humana e di Maria Francesca Viola; non si conosce l’esatta parentela fra quest’ultima e Annica Viola, ma erano presumibilmente zia e nipote.

Con atto notarile del 24.08.1811, il canonico Raffaele Humana vendette la sua metà casa, per 800 scudi, a suo padre don Michele Humana, tesoriere del Monte Nummario; quest’ultimo divenne quindi proprietario dell’intera casa Viola.

Con atto notarile del 24.08.1811, il canonico Raffaele Humana vendette la sua metà casa, per 800 scudi, a suo padre don Michele Humana, tesoriere del Monte Nummario; quest’ultimo divenne quindi proprietario dell’intera casa Viola.

Dopo il 1850 il proprietario della casa 2713 era Simone Sechi, segretario dell’Uditorato di Guerra; era coniugato con Teresa Federici, figlia del negoziante Giacomo Ignazio; lei morì il 21.01.1872 a 68 anni, nella casa al numero 3 delle scalette Santa Teresa, che potrebbe corrispondere alla casa 2713 o alla casa 2714, di stessa proprietà; nella medesima casa morì il notaio Simone Sechi all’età di 85 anni il 26.11.1883. 



[1] Il fatto che i fratelli Degioannis venissero chiamati “Cartaros” è confermato in altri documenti, relativi ad altre case di loro proprietà (num. catastali 2354 e 2538)

[2] ASC, Reale Udienza, cause civili, pandetta 59, busta 15, fascicolo 25

[3] Così veniva a volte chiamata la salita di Santa Teresa, prosecuzione della strada di Barcellona

[4] Parafreno o Palafreno: derivato dal termine di diritto Paraferna (ciò che la moglie possiede, oltre alla dote); indicava i beni necessari alle monache per potersi mantenere dopo aver preso i voti; in questo caso non si riferisce ad una monaca ma ad una “convittora” 

 

2714

Una causa civile del 1751 ci informa che il mastro muratore Francesco Randachu di Stampace stava lavorando in quell’anno nel cortile della casa che Giovanni (Battista) Xaccaluga aveva comprato nella Costa, o meglio nella discesa che porta alla chiesa di Santa Teresa; Giovanni Sciaccaluga aveva acquistato la casa 2714 poche settimane prima dell’altra casa di famiglia, l’unità 2710/b. In data 17.09.1782, nell’inventario dei beni del fu don Francesco Rapallo, proprietario della casa 2715, la casa 2714 è detta dei figli ed eredi del fu Giovanni Battista Xaccaluga.

Nell’inventario del febbraio 1798 dei beni del defunto Giuseppe Sciaccaluga (figlio di Giovanni), è allegato l’atto di acquisto per 100 scudi, del 04.03.1750, di una “casa ruina” nella scalinata che va a Santa Teresa, firmato dal Monastero di Santa Lucia e dalla vedova Maria Antonia Carta e suo figlio Nicolas Amedeo, a favore di Giovanni Sciaccaluga.

Così come la casa 2710/b, questa proprietà seguì le vicende ereditarie della famiglia Sciaccaluga: conferme arrivano da atti del luglio 1796, gennaio 1798, e dall’inventario del febbraio 1798 si legge che Giuseppe possedeva il terzo piano della casa situata sulla strada che scende allo stanco del tabacco e alla chiesa di Santa Teresa, abitato come inquilino dalla signora Francesca (Ciccia) Frongia, composto da tre camere e cucina, ed era valutato lire 1640 e soldi 13, e possedeva metà del secondo piano e di un mezzo piano che erano abitati dalle signore Cordiglia, composti da una sala, una camera, retrocamera e cucina, valutati lire 1621 soldi 5, denari 6, di cui l’altra metà spettava a Paola e Raimonda Sciaccaluga; sempre di Giuseppe era una bottega della stessa casa, valutata lire 922 e soldi 10.

Ulteriori conferme si hanno dai donativi del 1799 e del 1807 di Giuseppe Campus (Campi) marito di Paola Sciaccaluga, di Francesco Antonio Denegri marito di Anna Sciaccaluga, di Pasquale Denegri loro figlio (a cui, nel luglio 1799, i genitori regalarono una bottega della casa sulle scalette, nella quale aveva proprietà anche Giuseppa Sciaccaluga vedova Busu) e dal donativo dell’azienda ex-gesuitica alla quale gli eredi Sciaccaluga pagavano una pensione di lire 90 per un censo gravante sulla casa.

Un atto del dicembre 1798 ci informa che una parte della casa apparteneva alla quota dell’eredità di Raffaele Sciaccaluga, figlio di Giovanni e Maddalena Napoli; alla morte di Raffaele (1783?) la sua parte venne ereditata da suo fratello Giovanni (omonimo del padre), e nel 1797, alla morte di Giovanni, venne ereditata dalle sue figlie Paola e Raimonda le quali, nel dicembre 1798, vendettero la quota dello zio Raffaele alla zia Giuseppa Sciaccaluga vedova Busu; una parte era invece di Anna, altra sorella di Giovanni, di Giuseppe, di Raffaele, e di Giuseppa.

In un atto notarile del 19.06.1807, relativo alla casa 2764, la casa 2714 risulta appartenere agli eredi Sciaccaluga; la stessa informazione proviene da due atti di febbraio e di agosto 1811, relativi alla casa 2713.

Come riferito per la casa 2710/b, alcune stanze probabilmente al terzo piano, appartenenti a Giuseppa Sciaccaluga furono concesse in enfiteusi il 15.05.1809 al negoziante Giacomo Ignazio Federici, unitamente alle quote della casa 2710/b della stessa Giuseppa e di Paola Sciaccaluga.

Il 10 luglio 1812 in questa casa morì senza aver fatto testamento Giuseppa Sciaccaluga vedova Busu (nata nel 1753); non avendo lasciato dei figli, i suoi eredi furono i nipoti: Paola Sciaccaluga, unica figlia sopravvissuta di Giovanni Battista, ed Efisia, Marianna, Pasquale, e il sacerdote Giacomo, sorelle e fratelli Denegri, figli di Anna Sciaccaluga.

Il notaio Bernardo Aru si recò nella abitazione della defunta alle 4 del pomeriggio, per iniziare l’inventario dell’eredità, alla presenza degli eredi, di alcuni testimoni e della serva Maria Grazia Denurchi; terminò il suo lavoro il 29 luglio, la stima degli effetti personali fu di lire 1578, soldi 18 e denari 5; nell’inventario sono elencati una serie di documenti trovati fra le carte lasciate dalla defunta, fra questi:

testamento del negoziante Giovanni Sciaccaluga, padre di Giuseppa, del 1770;

inventario dell’eredità di Giovanni del 1772;

la divisione dell’eredità dello stesso Giovanni Sciaccaluga, del 16.04.1779;

divisione dei beni dello studente Michele Sciaccaluga (1762-), fratello di Giuseppa, del 10.05.1782;

divisione dell’eredità del negoziante Raffaele Sciaccaluga (1757-), altro fratello, del 13.06.1783;

inventario dell’eredità del negoziante Giuseppe Sciaccaluga (1742-1797), altro fratello;

divisione dell’eredità di Maddalena Napoli, madre di Giuseppa, e del citato Giuseppe Sciaccaluga, del 05.12.1798;

divisione dell’eredità del negoziante Giovanni Sciaccaluga (1748-), altro fratello di Giuseppa, padre di Paola e di Raimonda, del 22.12.1798.

L’inventario continua con gli immobili della defunta, di cui il Regio Misuratore Pasquale Piu aveva effettuato la stima: Giuseppa Sciaccaluga aveva conservato piena proprietà solo nella casa 2714, dove era morta: il primo piano fu valutato lire 1974.17.1, ma la metà già apparteneva a donna Efisia Cao nata Denegri, proveniente dall’eredità di sua madre Anna Sciaccaluga; il mezzanello e la bottega furono valutati lire 1434.6.9, la grotta lire 242.6.8. 

Sorsero dei contrasti fra gli eredi: Paola Sciaccaluga chiedeva (giustamente) che la divisione venisse fatta “per stirpe”, cioè rivendicava il diritto su metà dell’eredità, essendo l’unica figlia di un fratello della defunta; i 4 nipoti Denegri, figli di Anna Sciaccaluga, pretendevano invece che la divisione si facesse “pro capite”; venne iniziata una lite legale, ma poi intervenne un accordo che i Denegri accettarono in data 19.10.1812 “per salvare l’amicizia, e tenendo conto dei servizi e attenzioni che Paola e il marito avevano sempre avuto per la zia”; a Paola fu assegnata la metà del primo piano della casa ove abitava la zia con l’intero mezzanello (dove abitava tale signor Vighieras), e l’intera bottega della casa 2714; agli altri eredi fu assegnata la grotta della stessa casa, la mobilia e gli arredi, e il dominio diretto sulle case che Giuseppa aveva ceduto in enfiteusi al negoziante Giacomo Federici (casa 2710/b) e al negoziante Efisio Uda (casa 2679); dal momento che la metà casa, parte di Paola, risultava incomoda, la cugina Efisia Cao Denegri, che possedeva l’altra metà del primo piano, lo cedette in enfiteusi perpetua alla stessa Paola, con un canone di 20 scudi annui.

Dopo il 1850 la casa risultava di tre proprietari: una bottega era di don Raffaele Cao, marito di Efisia Denegri, figlia di Anna Sciaccaluga; altra parte era di Barbara Campi, figlia di Giuseppe Campi e Paola Sciaccaluga; altra parte era di Simone Sechi, segretario dell’Uditorato di Guerra (proprietario anche della casa 2713), marito di Teresa Federici, figlia di Giacomo Ignazio (che ne aveva avuto l’enfiteusi nel 1809); Teresa morì il 21.01.1872 a 68 anni al numero 3 delle scalette Santa Teresa, che potrebbe corrispondere alla casa 2714 o alla casa 2713; (purtroppo non ci si può basare sul numero civico: non c’è nessuna corrispondenza fra quelli del primo catasto e quelli di pochi anni dopo); nella medesima casa morì il notaio Simone Sechi all’età di 85 anni il 26.11.1883.

 

2715     

Questa grande casa apparteneva a Francesco Rapallo (-1781), ricco commerciante nativo di Genova Pegli; la prima menzione finora rintracciata è del 17.09.1782, nell’inventario dei beni del defunto Rapallo[1]; fu stimata dal perito svizzero (di Lugano) Carlo Mayno che la valutò per 14687 lire, 14 soldi e 11 denari.

Con l’atto di divisione dell’eredità di Francesco Rapallo fra i suoi 11 figli (in realtà 10 più uno, Antonio, defunto nel 1782), predisposto il 15.03.1785 dal notaio Giovanni Battista Melis, fu assegnato a Tomaso Rapallo (1780-) il piano nobile (cioè il primo) della casa valutato lire 6107; era abitato da un Matarana (probabilmente il negoziante Pasquale); l’ultimo piano, valutato in lire 5311 e 12 soldi, fu assegnato a Vincenzo Rapallo (1778-); vi abitava un Polini (probabilmente il negoziante ticinese Gaetano, conte nel 1801); le due botteghe, valutate in lire 3432, soldi 18 e denari 11, furono assegnate a Luigi Rapallo (1776-1852).

In data 31.10.1798 don Vincenzo Rapallo (1778-), figlio del defunto don Francesco, e il fratello don Francesco (1777-), omonimo del padre, ottennero dal tribunale di poter amministrare da soli i loro beni, nonostante non avessero ancora compiuto i 25 anni di età; con atto notarile del 27.09.1799 firmarono la ricevuta di lire 26374, soldi 1 e denari 6, porzione di ogni figlio dell’eredità paterna, e di lire 1551, soldi 17 e denari 5, porzione dell’eredità materna, somme consegnate loro dallo zio don Giuseppe Rapallo, loro curatore sin dall’anno 1781, cioè da quando morì il loro genitore, mentre la madre, donna Caterina Denegri, morì nell’agosto 1790; all’atto di ricevuta del settembre 1799 è allegato l’inventario dei beni ereditati dai due giovani Rapallo; faceva parte della porzione ereditaria di don Vincenzo anche l’ultimo piano della casa situata nella discesa di Santa Teresa, di cui don Vincenzo ricevette anche gli affitti arretrati, riscossi dagli amministratori dell’immobile fino al 1798. Al fratello don Francesco spettarono invece altri immobili in altre strade della Marina.

Con la denuncia per il donativo del 25.06.1799 don Luigi Rapallo (1776-1852) dichiarò di possedere due botteghe di fronte allo “stanco del tabacco” affittate per lire 160 annue; il 5 settembre 1799 le cedette al fratello minore don Tomaso Rapallo (1780-) per lire 3432, soldi 18 denari 11.

Il cavalier Giuseppe Rapallo, fratello del defunto don Francesco, dichiarò nel donativo del 22.06.1799, presentato per conto dei nipoti minorenni, che il nipote don Tommaso era proprietario di un piano con 9 stanze nella casa davanti a Santa Teresa, affittato per lire 225 annue.

Don Vincenzo Rapallo, nel suo donativo del 25.06.1799, dichiarò di possedere, nella casa nella scalinata di Santa Teresa, l’ultimo piano composto da 5 (?) stanze e la cucina, affittato alla sorella donna Marianna per scudi 40 annui; nel 1785 il piano era abitato da Gaetano Polini il quale nel 1787 acquistò casa nella strada Barcellona.

In data 31.01.1804, con atto del notaio Giovanni Agostino Ligas, i fratelli Don Tommaso e Don Vincenzo Rapallo, figli del fu negoziante Don Francesco, si accordarono per “consolidare le loro porzioni d’eredità paterna e materna”; pertanto Tommaso cedette a Vincenzo le porzioni di sua proprietà della casa sita fra le strade di Moras e Barcellona (parte bassa dell’unità 2923 con le unità 2925 e 2926), valutate in totale lire 3786 ed un soldo e cedute per sole lire 2496 (con “la ribassa” di lire 1290 e un soldo); Vincenzo cedette a Tommaso il piano superiore della casa situata nella strada detta di Santa Teresa (2715) valutato lire lire 5311 e soldi 12, e ceduto per lire 4625 (con la “ribassa” di lire 686 e soldi 12) in modo tale che Tommaso divenne proprietario di tutta la casa, restando in debito verso il fratello di lire 2128 e soldi 19 da pagare entro l’ultimo giorno di luglio 1805 (nel frattempo avrebbe pagato gli interessi alla “ragione mercantile del 6%”); il piano ceduto a don Tommaso consisteva “in undici stanze compresa la cucina e passaggi ossiano corredori”.

In data 06.08.1812 don Tomaso Rapallo, tenente nel Reggimento Sardegna, dichiarò di essere debitore della somma di lire 1000 verso il negoziante Salvatore Rossi: 875 lire e 10 soldi per merci e denari che Rossi gli aveva “somministrato” di recente, 134 lire e 10 soldi ritirate in contanti al momento della firma dell’atto notarile; Rapallo promise di saldare il debito entro 2 anni, avrebbe pagato nel frattempo gli interessi al 6%; per garanzia dovette ipotecare la casa delle scalette di Santa Teresa. Non era però il suo primo debito: fra il 1809 e il 1811 Salvatore Rossi gli aveva già prestato in tutto lire 2875.

Un atto notarile del 10.09.1812 relativo alla confinante casa Alesani 2716, riferisce che la casa 2715, appartenente in quell’anno agli eredi Rapallo, era in precedenza la casa del fu negoziante di Sturla (Genova) Pasquale Matarana (1721?-1811), presumibilmente lo stesso che abitava il primo piano nel 1785; è probabile che il riferimento a Mattarana non ne indichi una precedente sua proprietà ma la sola abitazione fino alla morte nel 1811.

Dal Sommarione dei fabbricati risulta che dopo il 1850 la casa appartenesse al barone Salvatore Rossi (1775-1856).

 



[1] Il testamento di Francesco Rapallo, l’inventario dei suoi beni, e l'atto di divisione ereditaria, mi sono stati messi a disposizione tra il mese di febbraio e il mese di giugno 2022 dall’ingegnere Alberto Sanna, frutto di una sua ricerca a cui ho collaborato; hanno permesso di aggiungere altre interessanti notizie su tutte le proprietà del defunto. 

 

2716     

Era la casa Alesani; da atto notarile del novembre 1769, relativo alle case 2717 e 2718 risulta appartenere a don Giovanni Battista Alesani; nel 1780 vi abitavano donna Giovanna (1715-1806)e donna Caterina (1713-) Alesani, sorelle di Giovanni Battista; le due sorelle in quell’anno citarono il negoziante Baldassarre Saetone per l’affitto non pagato di un magazzino sito sotto la loro abitazione; il magazzino era stato affittato al Saetone per 40 scudi annui dal loro fratello don Agostino Alesani (1722-1779), di cui erano eredi, e proprio di 40 scudi è il debito che chiedevano fosse saldato; le due Alesani nel 1781 citarono in giudizio il reverendo Antonio Simbula, proprietario della casa confinante 2719, in quanto il Simbula voleva costruire una camera su una terrazza della sua casa, e su questa terrazza si affacciavano alcune finestre della casa Alesani, aperte da più di 50 anni, così sostennero le proprietarie; le sorelle Alesani non volevano che il Simbula elevasse per più di un piano, e in particolare non volevano che vi costruisse una cucina, in quanto i fumi della cucina avrebbero danneggiato tutte le camere circostanti.

Nell’inventario dei beni del defunto don Francesco Rapallo, del 1782, la sua casa 2715 confinava con la casa degli eredi del fu canonico don Agostino Alesani.

Nel loro donativo del 1799 le due sorelle dichiararono la casa grande di fronte a Santa Teresa, così composta: al piano terreno due magazzini affittati per scudi 65, una bottega con 5 stanze all’interno affittata a scudi 70; al piano nobile un salone, 5 stanze, una piccola terrazza sul giardino; al piano superiore 3 stanze e salone e cucina, e sopra una soffitta, tutto abitato dalle proprietarie.

Nel donativo del 1807 presentato dall’Arciconfraternita del Sepolcro, proprietaria della casa 2717, la casa 2716 risulta ancora appartenere agli eredi Alesani. 

Un atto del 10.09.1812, del notaio Carlo Franchino Amugà, aggiunge diverse interessanti notizie sulla casa e sulla famiglia: si tratta della donazione perpetua di tutti i loro beni, fatta dalla dama Francesca Gagliardi Alesani vedova Durante (1740-1815) e suo fratello don Raimondo (1743-), in favore del cavaliere conte don Gaetano Pollini; i loro beni consistevano in una casa e 6 proprietà censuarie per scudi 4255 e reali 5, diversi mobili e pochi pegni d’argento e d’oro; il tutto onerato dal peso di 5 messe quotidiane da far celebrare nelle chiese della Marina, e il donativo di scudi 30 per la casa; i due Gagliardi Alesani erano ormai piuttosto anziani, erano in debito verso il conte Pollini di scudi 450 avuti nel 1811, avevano altri debiti per 70 scudi, e avevano perso un credito di scudi 1250 che avrebbero dovuto riscuotere dal fu negoziante Francesco Saverio Aitelli (-1798), per mancanza di beni nell’eredità Aitelli; per cui decisero di “appoggiarsi alla benignità del conte Polllini, il quale avrebbe provveduto alle loro necessità di vitto, vestiario e abitazione, spese di malattia e funerarie”; in cambio gli donarono la loro grande casa sita nella strada di Santa Teresa, di fronte alla chiesa, confinante con la casa degli eredi Rapallo (2715), la stessa casa che il fu Raimondo Alesani loro avolo, con atto notaio Michele Angelo Chessa del 23.10.1726 comprò per lire 6000 dai giugali Antonio More e Vincenza Pedroti, e dalle sorelle Chiara e Bernarda Pedroti; Alesani, che aveva sposato in prime nozze nel 1703 Giovanna Maria Pedroti (1685-1708)( (sicuramente parente, forse sorella delle venditrici), pagò solo 2500 lire; altre 2500 restarono caricate a censo sulla casa come proprietà della chiesa dei santi Giorgio e Caterina, e lire 1000 come censo di proprietà di tale Cesare Bottino; ambi i censi furono pagati ed estinti con atti notarili del 1735 e del 1736; la casa venne riedificata da Raimondo Alesani fra il 1730 e il 1735; egli, nel suo testamento del 20.08.1745 istituì erede universale suo figlio dottor Gio Batta Alesani il quale, con il testamento del 02.04.1770, istituì suoi eredi suo fratello e le sue sorelle, cioè il canonico don Agostino, donna Caterina, e donna Giovanna Alesani; don Agostino morì senza aver fatto testamento (ab intestato); fra i suoi eredi c’erano quindi le due sorelle donna Giovanna e donna Caterina vedova Gagliardi, e i nipoti dottor Giovanni Caciardi, barone di Mont Fleuri, e suo fratello Luigi Caciardi, figli della già defunta donna Angela Alesani, altra figlia di Raimondo. Per accordi familiari, con atto del 02.07.1787, la quota dei fratelli Caciardi venne ceduta a donna Caterina e donna Giovanna e quest’ultima, col testamento del 14.12.1796 istituì erede universale la sorella donna Caterina vedova Gagliardi o per lei i suoi nipoti donna Francesca e dottor Raimondo; Caterina morì prima di Giovanna senza aver fatto testamento, pertanto i nipoti Gagliardi ereditarono dalla madre Caterina e dalla zia Giovanna.

In data 09.12.1812 la Dama Francesca Gagliardi vedova Durante e suo fratello dottor Raimondo Gagliardi, dettarono i loro testamenti al notaio Carlo Franchino Amugà; lei chiese di essere sepolta nella chiesa di Sant’Eulalia, lui in quella di Santa Caterina e San Giorgio; a parte alcuni piccoli legati lasciati a terzi, l’argenteria e gli arnesi di casa lasciati al fratello o sorella superstite, entrambi confermarono la donazione “onerosa” (con riferimento agli obblighi di cui si era onerato il donatario nei loro confronti) di tutti i loro beni, fatta 3 mesi prima al conte Gaetano Polini; entrambi nominarono erede universale il nobile Francesco Polini, figlio del conte Gaetano.

Tutto questo spiega perfettamente perché dopo il 1850, come risulta dall’antico catasto, la casa 2716 appartenesse a donna Matilde De Cesaroni Pollini (1821-), figlia del conte Gaetano Pollini (o Polini).

 

2717 e 2718       

Sono identificabili con una casa che con atto del 17.11.1769 fu venduta dalla vedova Marchesa di Albis Maria Grazia Amat Masones alla Arciconfraternita del Santissimo Crocifisso, dell’Orazione e della Morte (vale a dire Arciconfraternita del Sepolcro). La marchesa viveva a Bonorva, si incaricò della vendita suo fratello don Francesco Maria Amat Masones; per l’Arciconfraternita firmarono l’atto i Guardiani in capo, secondo e terzo, che in quell’anno erano il dottore in entramibi i diritti don Joseph Thomas Sanna Corda vice Intendente Generele, il notaio Bartolomeo Bausà e il mastro calzolaio Ignacio Bacaredda. La proprietà della marchesa D’Albis proveniva dai beni della madre donna Caterina Masones.

Sembra probabile che la vendita comprendesse entrambe le case 2717 e 2718, unite a formarne una, visto che le case confinanti erano quella Alesani (2716) da una parte e dall’altra quella abitata dal notaio Juan Bauptista Jaina, identificata da altri documenti con l’unità 2719.

Successivamente, da atti notarili del 1778 e del 1798, relativi alla casa 2719, si ha l’informazione che l’unità 2718 appartenesse in quegli anni all’Oratorio del Sepolcro (vale a dire ancora dell’Arciconfraternita); si ha ancora una conferma da atto del 1806, relativo alla casa 2947, che aveva sul davanti le case dell’Arciconfraternita del Sepolcro (2717 e 2718).

Nella dichiarazione per il donativo del 1807 della Arciconfraternita del Sepolcro venne denunciata la proprietà di due case: una (2717) nella strada di Santa Teresa, davanti alla chiesa e lateralmente alla casa degli eredi Alesani (2716), con due piani ognuno di due stanze, due sottani, e sopra un mezzo piano molto stretto; un’altra casa (2718), sita fra la casa Allemand (2719) e l’altra casa dell’Arciconfraternita (2717), confinante per la parte posteriore con la casa Alesani (2716) e sul davanti con casa Dessì (2947), con 2 piani ognuno di 3 stanze, ed un grande “sòttano”; le dimensioni non convincono, visto che sulla mappa catastale di metà ‘800 risulta ben più grande la casa 2717 rispetto alla 2718; si può ipotizzare che, a seguito di ristrutturazione o ricostruzione, una parte della casa 2718 sia stata inglobata nella casa 2717.

Ho raccolto una testimonianza orale (che giudico attendibile) da un commerciante (famiglia Lippi) che in questa case ha il suo negozio: le palazzine che qui sorgevano furono pesantemente danneggiate nel 1943 e, all’atto della ricostruzione fu trovata nel piano terra una targa, purtroppo andata perduta, murata sulla parete divisoria fra la casa 2717 e la casa 2718: veniva citata l’Arciconfraterinta del Sepolcro e l’anno 1762: la data riferita sembra però improbabile, potrebbe essere corretta con 1769, anno del citato passaggio di proprietà.

Dopo il 1850 entrambe le case erano ancora di proprietà della stessa Arciconfraternita del Sepolcro.

 

2719     

Da l’atto notarile del novembre 1769, relativo alla vendita delle case 2717 e 2718, risulta che la casa 2719 fosse quella di abitazione del notaio Juan Baptista Jaina.

Con atto notarile del 23.02.1778 le sorelle donna Giuseppa Ignazia Pisà, moglie del nobile don Bachisio Nieddu, e Caterina Anna Pisà, vendettero per 1502 scudi, 7 reali, 2 soldi e 6 denari, la loro casa della calle del Sepolcro al reverendo Antonio Simbula, segretario della Curia e Mensa Arcivescovile di Cagliari; la casa proveniva dalla eredità del loro zio notaio Juan Baptista Giaina, di cui le sorelle Pisà, unitamente al loro fratello notaio Juan Baptista Pisà, erano le parenti più vicine; alla morte del Giaina la casa era in pessime condizioni; per poterla ricostruire, e per sanare altri debiti ereditati dai loro genitori, i Pisà fra il 1771 e il 1776 avevano ottenuto dal reverendo Simbula diverse somme, per un totale di oltre 1000 scudi, con ipoteche caricate sulla stessa casa della Marina e sulla loro casa di abitazione nella strada di San Giovanni Battista in Villanova. Il 25.09.1777 morì il notaio Pisà e la casa rimase alle due sorelle, le quali, per far fronte ai debiti col reverendo Simbula, nel 1778 gli cedettero la casa.

Dalla causa del 1781 citata per la casa 2716, risulta che il reverendo Antonio Simbula in quell’anno avesse fatto eseguire dei lavori nella casa, con la costruzione di una stanza nella terrazza, e pare fosse intenzionato a costruire ulteriormente; i lavori avevano disturbato e messo in allarme le sorelle Alesani, proprietarie della casa 2716, di cui alcune finestre si affacciavano da più di 50 anni nella terrazza della casa Simbula[1].

Nel 1798 risulta invece che appartenesse a Eligio Allemand, agiato commerciante nativo di Millaures, attualmente frazione di Bardonecchia, in Piemonte; quest’ultimo con atto notarile del 09.03.1798 promise di cederla dopo la sua morte, o di cedere quanto si sarebbe ottenuto dalla sua vendita, all’Arciconfraternita del Sepolcro, in cambio del “diritto di patronato e sepoltura” nella cappella della Vergine Santissima de los Desemparados, eretta nella chiesa del Sepolcro. Nel suo donativo del 1807 Eligio Allemand dichiarò la casa composta di piano terreno e due piani alti, ognuno di 3 stanze, del valore di 800 scudi, affittata a scudi 80.

Con atto del 7 novembre 1811 la contessa Marianna Fancello nata Alemand consegnò all’Arciconfraternita del Sepolcro la casa della strada del Sepolcro, come da promessa fatta dal defunto suo padre, Eligio Allemand.

Dopo il 1850 la casa era ancora di proprietà della stessa Arciconfraternita.


 

[1] Sul reverendo Simbula, morto prima del luglio 1783, e sui suoi eredi Simbula Gargiulo, si rimanda a quanto già detto per la casa 2382.

 

2720     

Da atto notarile del 1778, relativo alla casa 2719, e dalla causa del 1781 citata per la casa 2716, l’unità 2720 risulta appartenere all’Oratorio del Sepolcro; il dato è confermato dall’atto notarile del 1798 col quale Eligio Allemand promise di lasciare alla stessa Arciciconfraternita del Sepolcro la sua casa 2719; il dato è ancora confermato da altro atto notarile del 25.07.1805, relativo alla casa 2947, e dalla denuncia per il donativo dell’Arciconfraternita, datata 13.08.1807, nella quale è compresa una casa nella strada del Sepolcro, situata davanti alla casa Dessì (2947) confinante di dietro e di lato con la sagrestia della chiesa del Sepolcro, composta da 2 piani e un “sòttano”, ogni piano con una sala, l’alcova e una piccola cucina; vi è ancora conferma dall’atto notarile del 1811 con cui Marianna Alemand consegnò all’Arciconfraternita la casa 2719, confinante ai due lati con case della stessa Arciconfraternita, e la proprietà rimane immutata anche dopo il 1850, come testimonia il Sommarione dei Fabbricati.

 

2721 e 2722       

L’unità 2721 corrisponde alla chiesa del Santo Sepolcro, con il cimitero sul lato lungo, dove attualmente c’è la piazza.

Sull’unità 2722 non ci sono informazioni; le dimensioni ridotte e la vicinanza con la chiesa fanno pensare che fosse una dipendenza della chiesa stessa, e comunque una proprietà dell’Arciconfraternita del Sepolcro, come conferma il catasto di metà ‘800.