Usare il tasto sinistro del mouse per aprire la mappa al posto della pagina attuale;

usare il tasto destro del mouse per aprire la mappa in un'altra scheda o in un'altra finestra, senza chiudere la pagina attualmente aperta.

Isolato H1: Tagliolas/Fontana Nuova/S.Agostino/Tola/Moras

(vico Barcellona, via Savoia, via Baylle, via Sicilia, via Napoli)

numeri catastali da 2674 a 2699

la struttura dell’isolato non è cambiata; si può segnalare soltanto la presenza di alcuni nuovi edifici che hanno sostituito le vecchie case: la casa 2699 con le sue confinanti, e le case 2692 e 2693.

 

2674

Un atto del 15.11.1764 (ASC, Archivio Ballero), relativo alla casa 2675, permette di identificare l’unità 2674 con la casa dei figli del defunto Zacaria Steria (-1745), ligure di San Bartolomeo del Cervo (oggi San Bartolomeo al Mare, Imperia); la proprietà dei fratelli Steria (chiamati anche Estèry) è confermata in atti del 1779 e del 1800, entrambi relativi alla casa 2675; con atto del 15.10.1802 il negoziante Francesco Maria Steria (1734-1803), figlio di Zacaria, concesse in affitto per 3 anni il piano terreno e due stanze del primo piano della casa “di Moras”, cioè situata nella strada Moras, ad Angelo Dellepiane e Agostino Ferre; nella casa era impiantato un pastificio (edificio de hacer fideos) con vendita al pubblico; è possibile che fosse l’attività stessa di Francesco Steria, ormai anziano e probabilmente malfermo in salute; egli infatti morì nel 1803 e il suo testamento, scritto il 28 giugno, fu aperto e letto dal notaio Bernardo Aru il 27 luglio, su richiesta della vedova Angiolina Porcile; lo Steria, dopo aver dato disposizioni per essere seppellito nella chiesa del Santo Sepolcro, dichiarò che la metà di tutti i beni acquistati “costante matrimonio” erano di pertinenza della moglie, a cui lasciava anche metà della casa di abitazione, proveniente dall’eredità di suo padre Zacaria Steria. Tutti i beni restanti, compresa l’altra metà della casa, spettavano ai figli Steria Porcile, cioè Annica moglie del negoziante Pietro Crobu, Peppuccia, Efisio, Maria Anna, Giovannico e Rita, e alle nipotine pupille Antonica ed Efisia Visca Steria figlie della defunta figlia Barbara Steria moglie del vivente Francesco Visca.

Nell’inventario dell’eredità di Francesco Steria, datato 01.08.1803, è specificato che la casa di abitazione del defunto era stata acquistata da Zacaria Steria con atto del 01.07.1728 del notaio Salis; il valore stimato fu di lire 2108 e soldi 15.

Con atto del notaio Francesco Sirigu del 04.03.1805, La vedova Angela Steria nata Porcile, curatrice testamentaria del suo defunto marito Francesco Maria Steria, diede in locazione per 2 anni e 8 mesi la bottega con due camere nel primo piano della sua casa, ad Angelo Dellepiane ed al conte Vittorio Amedeo Cavalieri di Rivarossa, luogotenente dei dragoni di Sardegna; il Dellepiane era il medesimo che aveva già avuto l’affitto nel 1802, con un altro socio; sembra più che probabile che il Ferre e il conte Cavalieri partecipassero solo come investitori, mentre il Dellepiane si occupava del lavoro. L’affitto fu stabilito per 72 scudi annui da pagare semestralmente anticipati. 

Con atto notarile del 26.03.1806 la vedova Angela Porcile concesse in locazione al negoziante Efisio Dentoni, per 2 anni, per complessivi scudi 72 da pagare a semestri anticipati, la bottega della sua casa di abitazione, con due camere al primo piano; nell’affitto era compreso il macchinario “per far fidei” cioè per l’attività del pastificio. La vedova agiva come curatrice testamentaria del defunto marito; alla firma dell’atto presenziò il nobile Don Giovanni Antonio Borro Aymerich che proprio nel 1806 sposò la vedova Steria Porcile

Nel 1807, dal donativo del Capitolo Cagliaritano proprietario della frontale casa 2928, la casa 2674 risulta appartenere a Efisio Steria Porcile[1] (1776-), figlio di Francesco; con atto del notaio Francesco Sirigu del 06.04.1810 Efisio Steria Porcile concesse in locazione al genovese Antonio Sesello il primo piano di 3 stanze e la bottega “per vendere fidei” della casa di due piani della strada Moras; nella bottega c’era il torchio del pastificio; l’affitto fu pattuito per 6 anni e per scudi 100 annui pagabili anticipatamente ogni semestre. Senza averne certezza è probabile che l’affittuario sia da identificare con Antonio Sessego (o Sesselego, ex-Sessarego), marito di Rosa Ronqueta; non è l’unico di questa famiglia, proveneniente da Genova, che arrivò a Cagliari per esercitare la professione di panettiere o pastaio.

In atto del novembre 1811, relativo alla confinate casa 2699, è indicata come proprietà di Angela Porcile che l’anno prima era rimasta vedova del suo secondo marito don Giovanni Antonio Borro; in effetti la proprietà era ancora indivisa fra gli eredi Steria: alla morte di Angela Porcile, il 19.06.1812, la sua quota, regolarmente inserita nell’inventario dei suo beni, viene valutata per lire 1185.19.1; in un atto notarile del 11.08.1813 apparteneva alle figlie del fu Francesco Steria e di Angela Porcile, sorelle di Efisio, cioè Giuseppa (1773-1819), Marianna (1778-1850) e Rita (1786-) Steria Porcile.

Dopo il 1850, dai registri catastali, risulta appartenere al barone Salvatore Rossi (1775-1856).



[1] Con atto del notaio Nicolò Martini del 17.03.1808, Efisio Steria Porcile acquistò diverse proprietà nel villaggio di Quarto: una casa, vigna, giardino, chiuso, e terre; la casa si trovava nel luogo detto Santa Maria de Cipoddas, con un piazzale davanti, il magazzino per il vino, l’aja dietro, e di lato un orto con vari alberi da frutta; si tratta della casa che il suo discendente Anacleto Steria (1848-1920) donò col suo testamento alle Figlie della carità di S. Vincenzo de' Paoli, ed è nota attualmente come “Asilo Steria”

 

2675     

Era la casa del notaio Francesco Ignazio Vargiu, morto nel 1764; in quell’occasione venne compilato l’inventario dei beni del defunto, fra i quali c’era la casa della strada Moras, su cui gravava un carico di 240 scudi e pensione annua di 14 scudi e 4 reali da pagare al nobile don Antiogo Carnizer, mentre 200 scudi erano parte della dote matrimoniale portata nel 1743 da Geronima Cordilla (-1746), moglie del notaio Vargiu; la casa venne quindi ereditata dall’unica loro figlia Maddalena Vargiu Cordilla, coniugata nel 1769 col negoziante Eligio Allemand.

Con atto notarile del 25.03.1768, Maddalena Vargiu, ancora in minore età, tramite la sua curatrice Maddalena Cordilla (probabilmente la nonna, cioè Maddalena Beleudi vedova Cordilla), vendette la casa a Teresa Leoni, nota ostetrica della Marina. Alla morte di Teresa Leoni[1] la casa fu ereditata dalla figlia Anna Scalas, sposata con Joseph Zara. In data 18.01.1779 i coniugi Zara-Scalas ottennero dall’Arciconfraternita del Sepolcro un prestito di £ 675; per garantirne la restituzione e il pagamento degli interessi annui al 5% (scudi 13,5) ipotecarono la casa 2675.

Appartenne poi al notaio Giorgio Podda (-1807), che la dichiarò nella denuncia per il donativo del 1799: era la sua casa di abitazione, composta da due piani e un mezzo piano, in tutto 11 stanze, e avrebbe potuto rendere 100 scudi, se affittata; il notaio pagava una pensione alla Confraternita del Sepolcro, per un censo di lire 465.

Con atto notarile del 09.12.1800, Giorgio Podda donò la casa alla seconda moglie Rita Lampis; era composta da due piani e “sòttano”. Il matrimonio fra il notaio Podda e Rita Lampis risaliva al 1784, e il notaio aveva promesso alla giovane sposa una “competente dote” poiché era una “mossa” ventenne che sposava un uomo di età avanzata.

Il notaio Giorgio Podda scrisse il suo testamento il 16.04.1807, “detenido en la cama de enfermedad corporal” nella sua casa di abitazione della strada Moras; morì poco dopo e l’inventario dei suoi beni fu iniziato il 23 maggio dal notaio Francesco Angelo Randaccio; fra i documenti in possesso del defunto vennero rintracciati i seguenti:

1) l’atto di vendita del 06.07.1781 di una casa in calle di Moras firmato da Anna Escalas a favore del notaio Podda;

2) varie ricevute firmate da Anna Escalas a favore di Podda, del 1781, del 1787, e del 1798, per il pagameno della casa;

3) la costituzione di due censi per un totale di lire 575 firmati dai coniugi Joseph Zara e Anna Escalas a favore del mercante Juan Antonio Giorgelli del 18.01.1779 e 22.04.1779;

4) due ricevute firmate dal Giorgelli a favore del notaio Podda del 1793 e del 1794, per la cancellazione del censo che gravava sulla casa. 

Ricapitolando, la casa 2675 apparteneva al notaio Vargiu e fu ereditata nel 1764 da sua figlia Maddalena, la quale la vendette nel 1768 a Teresa Leoni che la lasciò in eredità nel 1778 a sua figlia Anna Scalas (o Escalas), la quale la vendette al notaio Podda nel 1781; quest’ultimo la donò nel dicembre 1800 alla seconda moglie Rita Lampis e, con il suo testamento del marzo 1807, confermò il lascito della casa alla moglie.

Un atto notarile del novembre 1811, relativo a una casa vicina, fa ancora riferimento alla casa 2675 come quella del defunto notaio Giorgio Podda.

Nell’agosto 1813, dall’atto citato nel paragrafo precedente, risulta appartenere al negoziante Carlo Thorel (-1838), che l’aveva acquisita da poco tempo; con l’atto notarile di quell’anno il Thorel si accordò con il conte Raffaele Porcile (che agiva per conto della moglie Giuseppa Steria Porcile e delle sue sorelle), in merito ai lavori di riedificazione della casa, nella quale il Thorel voleva aprire nuove finestre che si sarebbero affacciate sul cortile della casa Steria 2674.

Dopo il 1850 apparteneva a (Augusto) Carlo Andrea Thorel (1824-1874), frate carmelitano, figlio di Carlo e di Francesca Melly.



[1] Teresa Leoni vedova di Antonio Scalas morì alla Marina il 23.11.1778; aveva lavorato come ostetrica almeno dal 1755 e fino al 1778.

 

 2676     

Dall’inventario dei beni del notaio Vargiu, proprietario della casa confinante, risulta che l’unità catastale 2676 appartenesse alla comunità di Sant’Eulalia già dal 1764; risulta ancora di Sant’Eulalia in atti notarili relativi alle case confinanti, datati 1779, 1789, 1795, 1800 e 1807, ed era ancora di Sant’Eulalia dai dati catastali di metà ‘800.

Nella denuncia per il donativo del 1799, la Comunità di Sant’Eulalia dichiarò 3 case nella strada Moras; due case Mantelli e una casa Sanna; l’unità 2676 potrebbe identificarsi con una di queste.

 

2677     

Da due atti notarili di febbraio e marzo 1797 risulta essere la casa degli eredi del defunto rettore Gaviano; potrebbe trattarsi del reverendo Antonio Gaviano, parente del mastro calzolaio Giovanni Gaviano proprietario della casa 2547, entrambi già defunti nel 1796.

Nella denuncia (senza data, probabilmente del 1799) per il donativo, la nubile Maddalena Gaviano dichiarò di possedere una casa in contrada Moras, composta da un piano alto e uno terreno, in tutto 4 stanze, affittata per scudi 36 annui; potrebbe essere quella del defunto rettore, senza averne però certezza.

Da atti notarili del 1807 e del 1810, relativi alla frontale casa 2930, la casa 2977 è indicata come una proprietà della Comunità di Sant’Eulalia. 

Nel catasto di metà ‘800 risulta appartenere ancora alla Comunità di Sant’Eulalia.

 

2678     

Era la casa detta “di Naiza” (a ricordo di un precedente proprietario), composta da due piani alti e un piano terreno, che il convento di Sant’Agostino fece avvalorare nel febbraio 1797 per 468 scudi e 16 soldi, e che cedette in enfiteusi il 02.03.1797 al reverendo Giuseppe Cannas, beneficiato della primaziale. Nel loro donativo i padri di Sant’Agostino dichiararono di ricevere un canone annuo di 50 lire per una casa nella Marina dal reverendo Giuseppe Cannas, e quest’ultimo è indicato come proprietario della casa 2678 anche in atti notarili del dicembre 1803 e del gennaio 1808, relativi a una casa confinante.

Da un documento del 1836 rintracciato nell’archivio di S.Eulalia, relativo alla casa 2931, sembra possibile che la casa 2678 in quell’anno appartenesse a un non identificato reverendo Sanna. 

Dopo il 1850 apparteneva al Collegio del Noviziato delle Scuole Pie dell’Annunziata.

 

2679     

Era la prima delle 3 case contigue che il negoziante Juan Sciaccaluga comprò dal Gremio dai Santelmari con atto notarile del 16.04.1749; alla morte di Juan (circa 1779) venne ereditata dai figli e il 22.02.1794 fu ceduta in enfiteusi a Efisio Uda controllore (e poi direttore) del Regio Stanco del tabacco, col canone annuo di 60 scudi; con atto notarile del 28.11.1796 Giuseppa Sciaccaluga, vedova del dottore in diritto Gesuardo Buso e figlia di Juan Sciaccaluga, rilasciò una ricevuta di 35 scudi a Efisio Uda per il canone annuo enfiteutico; nel suo donativo del 1807(?) la stessa Giuseppa Sciaccaluga dichiarò invece di aver ricevuto da Efisio Uda 60 scudi per la pensione della casa: i 35 scudi pagati nel 1796 erano forse la quota spettante in quell’anno alla sola Giuseppa, aumentata negli anni successivi per la morte di alcuni familiari (per notizie più dettagliate sulla famiglia Sciaccaluga si vedano le case 2710/b e 2714, oltre alle confinanti 2680 e 2681).

Efisio Uda abitò nella casa almeno fino al 1808: è citato come proprietario in atto notarile del 10.01.1808 relativo a una casa confinante, e compare nell’elenco (del 23.08.1808) di quegli abitanti della Marina che ospitavano nella loro casa un maiolo: Uda risulta abitante nella strada Moras ed erano due i maioli che vivevano con la sua famiglia: Giacomo Piano di Capoterra e Antonio Devilla di Aritzo.

Dopo la morte di Giuseppa Sciaccaluga, e divisione della sua eredità del 19.10.1812, la nuda proprietà della casa che aveva in enfiteusi Efisio Uda fu assegnata ai fratelli sacerdote Giacomo e Pasquale Denegri, figli della fu Anna Sciaccaluga, sorella di Giuseppa.

Efiso Uda era il nonno degli scrittori e giornalisti Michele e Felice Uda.

Dopo il 1850 la casa 2679 risulta appartenere al Convento dei Padri di Sant’Agostino.

 

2680 e 2681       

Pur con qualche dubbio, si ritiene che queste due unità catastali formassero la seconda casa fra quelle acquistate da Juan Sciaccaluga nel 1749 dal Gremio dei Santelmari; dopo la morte di Juan (circa 1779) le quote ereditarie di questo immobile furono acquisite nel 1790 dal figlio Joseph e dalla vedova di Juan, Maddalena Napoli; alla fine del 1797 Joseph morì senza testamento e senza figli, e la casa fu quindi ereditata dalle sue sorelle Anna (coniugata col negoziante Francesco Antonio Denegri) e Giuseppa (vedova del dottore in diritto Gesuardo Busu), e dalle nipoti Paola e Raimonda, figlie del defunto fratello Juan Sciacaluga (omonimo del padre) morto anch’esso nel 1797; la casa venne stimata in tutto lire 2334, era soggetta a un censo di 300 scudi la cui pensione doveva essere pagata al Capitolo; le 4 eredi la vendettero il 03.03.1798 per 700 scudi (cioè 1750 lire, non comprendenti la proprietà censuale) al negoziante Pasquale Ponsiglione; si componeva di 2 piani alti, magazzino terreno e cortile, ed era in stato di rovina; vi abitava al momento della vendita il causidico Francesco Antonio Pes, mentre un magazzino era affittato al mastro conciatore Antonio Diego Manca.

Ancora nel 1802, alla morte di Pasquale Ponsiglione, risulta fra le sue proprietà, come è specificato nell’inventario dei beni del defunto, iniziato il 26.11.1802: si componeva “di un sottano ossia magazzino, e altra porta per cui si sale al primo piano, con una sala, e l’alcova, che dànno alla strada, e un corridoio (passadisso) per entrare in altra stanza (aposento) che ha una finestra che dà al cortile; si sale all’ultimo piano dove c’è la cucina, e la si stima lire 2059 e 15 soldi".

Dopo il 1850 l’unità 2680 apparteneva a Tommaso (-1883), Giovanni (-1878), Francesco (1869), Efisia (-1890) e Cecilia (-1885) Cossu, figli di Francesco e di Agostina Chessa, mentre l’unità 2681 apparteneva al negoziante e console Gregorio Vodret (1786-1863), figlio del ricco negoziante Francesco Andrea Vodret e della sua terza moglie Grazia Isola.

 

2682     

Era la terza casa fra quelle acquistate da Juan Sciaccaluga nel 1749 dal Gremio dei Santelmari; nel 1779 toccò per divisione ereditaria alla figlia suor Caterina Sciaccaluga, che la cedette però al fratello Giuseppe; nel 1797, alla morte di quest’ultimo, stimata lire 2297 soldi 17 denari 6, divenne proprietà delle sorelle e delle nipoti già citate nel paragrafo precedente; vi abitava nel 1798 il negoziante Agostino Bergante (o Briganti).

E’ probabilmente la stessa casa che, in data 23.06.1799, Francesco Antonio Denegri, marito di Anna Sciaccaluga, inserì nella sua denuncia per il donativo (per conto della moglie): casa di 3 piani (piano terreno e due piani alti) nella strada Moras con 6 stanze in tutto, affittata annualmente per lire 97 e 10 soldi.

Il 15.03.1802 Anna Sciaccaluga, figlia di Juan e Maddalena Napoli, la vendette al negoziante di Lavagna Gio Batta Sanguinetto per 660 scudi; era composta da un camerone terreno e cortile, il primo piano con una sala, camera, cucina; il diverso numero di piani e di stanze può essere dovuto a una vendita parziale da parte di Anna Sciaccaluga, oppure al fatto che la casa era in comproprietà con altri eredi. 

Il passaggio di proprietà è confermato da un atto notarile del 08.04.1803, col quale Giobatta Sanguinetto ipotecò la casa per garantire il pagamento degli interessi di un prestito di scudi 600, avuti dal canonico Raimondo Pes Mameli; è confermato anche da un atto notarile del 20.06.1803, relativo alla confinante casa 2683, nel quale è scritto che il negoziante Sanguinetti aveva acquistato recentemente la casa 2682, e che in quell’anno abitava ancora in affitto nella casa 2683 che minacciava rovina; da altro atto notarile del 03.08.1811, relativo alla casa 2684, risulta che la casa alle spalle, numero 2682, appartenesse a Paolo Sanguinetti figlio di Giovanni Battista e di Rosa Mazino.

Dopo il 1850 la casa apparteneva a Teresa Sanguinetti (-1892) figlia di Paolo e Francesca Azuni, coniugata nel 1829 con Antonio Vivenet (poi Vivanet); a Teresa Sanguinetti subentrò nel 1854 Gio Battista Mazzino, capitano marittimo di Lavagna, che morì a 90 anni in una casa di via Mores 25 il 03.05.1877.

 

2683     

Da un atto notarile rintracciato nell’Archivio Martini, datato 15.10.1796 e relativo alla casa 2935, risulta che la casa 2683 appartenesse alla Comunità di Sant’Eulalia; il dato è confermato da altri atti relativi alle case Sciaccaluga, del febbraio 1798 e marzo 1802, e dall’atto del 1803 relativo all’ipoteca della casa 2682, nel quale è scritto che la casa confinante (2683) era di un Legato Pio di Sant’Eulalia.

Con atto notarile del 20.06.1803 il reverendo dottor Angelo Francesco Aitelli, presidente della comunità di Sant’Eulalia, unitamente agli altri beneficiati della comunità, concesse in enfiteusi al beneficiato reverendo dottor Giacomo Fadda e a sua sorella Antonia Manca Fadda, la casa che la Causa pia possedeva nella strada Moras; in quel momento era abitata dal negoziante Giambattista Sanguinetti, e minacciava rovina; la comunità ritenne quindi conveniente cederla, col patto che il reverendo Fadda si sarebbe occupato di restaurarla per renderla “comoda ed abitabile”;  era composta dal piano terreno e due piani alti, fu ceduta per il tempo della vita del reverendo Fadda e di sua sorella per il canone annuo di 30 scudi. 

Nella denuncia per il donativo del 1807 presentata dall’Arciconfraternita del Sepolcro, che possedeva la casa 2645 (sull’altro lato della strada Tola), risulta che la casa 2683 fosse quella del parroco dottor Francesco(?) Fadda; un atto notarile del 19.12.1811, relativo alla casa 2684, la indica come casa del reverendo beneficiato e dottore Giacomo Fadda; è chiaro quindi che sia errato il nome riportato nel documento del 1807; alla morte dei due enfiteuti la casa tornò una piena proprietà della Comunità di Sant’Eulalia, che la possedeva ancora dopo il 1850.

 

2684/a/b

Questa casa sulla contrada Tola anticamente era suddivisa in due unità ancora più piccole: come da atto notarile del 20.06.1803, relativo alla casa confinante 2683, la prima parte (a est, a destra nella pianta) apparteneva all’Arciconfraternita del Sepolcro, che la dichiarò nel donativo del 1807 e ne ricavava in un anno lire 60; la seconda parte nel 1798 apparteneva al Gremio di Sant’Elmo, come c’informano atti notarili di quell’anno, del 1799 e del 1802, tutti relativi alle case limitrofe; il Gremio possedeva la casa ancora nel 1807, come testimonia la denuncia per il donativo dell’Arciconfraernita del Sepolcro, proprietaria della casa confinante (2684/a).

Con atto notarile del 03.08.1811 il Gremio di Sant’Elmo concesse la casa 2684/b in enfiteusi al negoziante Gio Maria Trucci; era stata vaultata lire 889 e denari 5, e fu stabilito il canone annuo di lire 50; i confini sono molto chiari: da una parte la casa Crobu (2685), dall’altra una casa del Sepolcro (2684/a), alle spalle la casa Sanguinetti (2682), davanti la casa Piccaluga (2673); con atto notarile del 19.12.1811, i guardiani del Sepolcro cedettero in enfiteusi al negoziante Giamaria Truci di Cagliari la loro porzione di casa (2684/a); l’immobile aveva da una parte la casa del reverendo Fadda (2683) e dall’altra una piccola casa del medesimo Truci, che prima era del Gremio di Sant’Elmo (2684/b); il Truci aveva intenzione di costruire altri 2 piani, e avrebbe dovuto pagare all’Arciconfraternita il canone annuo di scudi 26.

Giomaria Truci (o Trucci) è probabilmente da identificare col parrucchiere Giovanni Maria Trucciu, morto nel 1814, coniugato con Rita Loddo; la loro figlia Marianna si sposò nel 1814 con Francesco Fedele Arthemalle, figlio di Lorenzo Leger Arthemalle e di Rosa Rapallo; Marianna morì all’età di 74 anni il 15.12.1868 in una casa di vico Sant’Agostino, probabilmente la stessa casa 2684.

Fra i dati dell’antico catasto successivo al 1850 non si è ritrovato il proprietario di questa unità catastale.

 

2685 e 2686       

La casa 2685 nel 1792 apparteneva al negoziante Joseph Sciaccaluga che l’aveva ereditata dal padre Juan, il quale l’aveva acquistata il 07.09.1771; si componeva di un piano e un “sòttano”, così venne descritta nell’inventario dei beni del defunto Giuseppe Sciaccaluga, datato 01.02.1798; nel suo donativo del 1799 ne dichiarò la proprietà Giuseppa Sciaccaluga vedova Buso, sorella di Giuseppe, la quale affittava insieme la stanza bassa e quella alta per 27 scudi annuali. Il 14.10.1802 venne acquistata per 300 scudi da Pietro Crobu Arthemalle, comproprietario della casa confinante 2686; in data 10.11.1802 Pietro cedette la metà di questa piccola casa al fratello Raffaele, per scudi 150, ma con atto notarile del 29.04.1803 Raffaele gliela restituì, in quanto la proprietà non era divisibile, e voleva evitare eventuali dissapori legati alla manutenzione o alla gestione degli inquilini.

La casa 2686 nel 1792 era di proprietà dei giovani negozianti fratelli Raffaele e Pietro Crobu Arthemalle; con atto notarile del 19 agosto di quell’anno furono loro affidati, dalla minore Caterina Pisano Deaquena, 950 scudi da investire; i fratelli Crobu Arthemalle garantirono i soldi ricevuti con i beni dello zio, negoziante Lorenzo Laxer Arthemalle, e ipotecarono la casa di loro proprietà, comprendente anche la bottega e un “sòttano”. Nello stesso anno affittarono la casa, composta da 3 piani, al medico Miguel Ignacio Cordilla (1720-1796), che il 6 settembre pagò i primi 6 mesi di affitto anticipato; i fratelli si riservarono l’uso della bottega.

Con atto notarile del 19.07.1796 i fratelli Crobu Arthemalle ebbero in prestito 3750 lire dal loro zio[1] negoziante Francesco Vodret; per garantire la restituzione dei soldi e il pagamento delle pensioni al 5% annuo, ipotecarono la loro casa “casa grande di 3 piani alti, sita nella Marina e strada di San Leonardo o di S.Agostino intra muros”; nell’atto venne specificato che si trattava della stessa casa che aveva acquistato con atto del 19.01.1752 il negoziante Nicola Razza, il quale la lasciò a sua moglie Anna Maria Manunta con testamento del 24.05.1755; la Manunta la lasciò ai suoi figli (del primo matrimonio) dottor Francesco Crobu e negoziante Stefano Crobu, col suo testamento del 13.03.1782, e Francesco Crobu vendette la sua metà al fratello Stefano con atto del 02.05.1782; quest’ultimo nominò eredi i suoi figli e sua moglie Rosa Arthemalle nel testamento del 31.08.1783.

Nella loro denuncia per il donativo (senza data, con tutta probabilità del 1799), Raffaele e Pietro Crobu dichiararono la casa di 3 piani alti e piano terreno che per metà era abitata da Raffaele, da cui avrebbero potuto ricavare 100 scudi se l’avessero affittata interamente; era onerata di un carico o ipoteca, per cui pagavano 75 scudi annui al negoziante Francesco Vodret (corrispondenti agli interessi al 5% su 3750 lire, equivalenti a 1500 scudi).

La casa rimase proprietà indivisa “per non aver comoda divisione”; i due fratelli avrebbero voluto venderla ma non riuscirono a trovare un buon compratore; Pietro, commerciante, coniugato nel 1799 con Marianna Steria Porcile, con atto del 09.04.1806 rilevò la quota della casa 2686 dal fratello maggiore Raffaele; quest’ultimo, notaio e commerciante, era con tutta probabilità malato gravemente; la sua famiglia era “ridotta in miseria” e Pietro, per venire incontro alle necessità del fratello, rinunciò a riscuotere gli affitti a cui avrebbe avuto diritto e rinunciò ai mobili che conteneva la casa; s’impegnò inoltre a pagare alla cognata Francesca Carcassi 10 scudi annui; sulla casa era caricata la dote di 700 scudi e 7 denari che Francesca Carcassi, moglie di Raffaele, aveva “apportato al matrimonio” (notaio Sirigu, capitoli matrimoniali del 31.12.1794); occorreva svincolarla e restituire la somma, per assicurarne il frutto alla moglie dopo la morte del marito; Raffaele morì probabilmente poco tempo dopo; con estimo del 7 aprile lo stabile fu avvalorato per scudi 2334, soldi 4, denari 2, da cui dovevano essere sottratti i “pesi” a cui era soggetto.

Pietro, con atto del 11.03.1813, ottenne un altro prestito di 400 scudi con pensione di 20 scudi annui, dal sacerdote (e cugino) Ignazio Vodret; il nuovo debito s’aggiunse a quello di 1500 scudi contratto col fu Francesco Vodret, padre di Ignazio, per il quale Pietro Crobu pagava la pensione di 75 scudi annui, con ipoteca sulle case di sua proprietà 2685 e 2686.

Dopo il 1850 entrambe le case appartenevano ad Angela Vodret vedova Lezzani (-1855), figlia di Francesco e di Maria Grazia Isola.



[1] La madre dei fratelli Crobu, Rosa Arthemalle, era figlia di Francesco Arthemalle e di Francesca Mounier; quest’ultima, rimasta vedova nel 1743 dopo soli 3 anni di matrimonio, nel 1744 si risposò con Bernardo Isola; la loro figlia Maria Grazia Isola, si sposò nel 1765 con Francesco Vodret.  

 

 2687     

Dagli atti del 1792 relativi alla casa Crobu 2686, la casa 2687 risulta di proprietà del mastro conciatore Ramon Melis.

Non è stato trovato nessun documento che riguardi direttamente la proprietà del mastro conciatore Raimondo Melis che, nei vari atti (molto poco precisi) relativi alle case Sciaccaluga sulla strada Moras, risulta proprietario della casa 2687, ma a volte sembra esserlo anche della casa 2688.

L’atto notarile del 1796, relativo alla casa 2686, conferma la proprietà Melis e aggiunge l’informazione che la proprietaria precedente era la vedova Giulia Boy; non si conoscono eventuali legami di parentela fra la Boy e il Melis.

Il mastro conciatore Raimondo Melis è probabilmente lo stesso che, proveniente da Villanova, era coniugato con Caterina Panery; nel 1792 dichiarò di avere 60 anni, e morì probabilmente nel 1815; il figlio Gio Agostino possedeva una casa sull’altro lato della stessa strada; Raimondo consegnò il suo testamento al notaio Gioachino Mariano Moreno in data 14.04.1812; purtroppo, se effettivamente morì nel 1815, il testamento allora pubblicato e il successivo inventario dei suoi beni saranno difficilmente rintracciabili, data la nota distruzione (per i bombardamenti del 1943) degli atti notarili ottocenteschi successivi al 1813.

Si ha una conferma della sua proprietà dall’inventario dei beni del defunto negoziante Pasquale Ponsillon, datato 26.11.1802; il Ponsillon era proprietario della casa 2689 (probabilmente anche della casa 2688); la sua proprietà era confinante con quella di Raimondo Melis.

Fino al 1813 Ramondo Melis risulta proprietario della casa 2687: lo confermano due atti notarili di aprile e di agosto di quell’anno, relativi alla case sull’altro lato della strada Sant’Agostino, ed un atto dell’11 marzo relativo alla casa Crobu 2686.

Dai dati del Sommarione dei Fabbricati, successivi al 1850, risulta che la casa 2687 appartenesse a Rita Thorel (1811-1908) coniugata con l’avvocato Efisio Marturano.

 

2688 e 2689                       

La maggior parte dei documenti che fanno riferimento a queste 2 case sono relativi alle case Sciaccaluga sulla strada Mores, confinanti per la parte posteriore; la poca precisione, anzi la confusione, con cui vengono descritti i confini delle case degli Sciaccaluga porta di conseguenza una certa indecisione nell’attribuire le proprietà delle case sulla strada Sant’Agostino.

La casa 2689 apparteneva sicuramente al negoziante Pasquale Ponsiglioni; egli vi aveva la sua abitazione nel 1797, come riferisce un atto notarile dell’ottobre di quell’anno; l’atto in questione, datato 28.10.1797, è il disigillamento e pubblicazione del testamento del reverendo Estevan Maria Allemand, che morì quel giorno nella casa di suo cognato Pasquale Ponsillon, nella strada di Sant’Agostino; il defunto reverendo nominò curatore ed erede universale il Ponsillon, attesochè il medesimo, dacchè morì il mio Sig. Padre, mi guardò e tenne come proprio figlio”.

Pasquale Ponsillon si era sposato 3 volte: la prima con Anna Maria Manunta, la seconda con Eulalia Alemand, sorella del reverendo Stefano morto nel 1797, la terza con Anna Medaill.

Pasquale Ponsillon abitava in questa casa anche al momento del suo decesso, il 13.11.1802; è infatti citata nell’inventario dei suoi beni (iniziato il 26.11.1802 e terminato il 25.04.1803) come casa di abitazione; non è del tutto chiaro se la proprietà comprendesse la sola casa 2689 o anche la confinante e stretta 2688: i suoi vicini erano da una parte il console Baille (2690), dall’altra il conciatore Melis (2687). Nell’inventario Ponsillon, curato dal notaio Francesco Antonio Vacca, vengono menzionati anche gli atti relativi ai precedenti passaggi di proprietà: dalle stringate notizie inserite, si può ricostruire la stora della casa per i precedenti 82 anni: apparteneva fino al 1720 alla Comunità di Sant’Eulalia: fu venduta con atto del 11.03.1720 a Juan Batta Viale e ai suoi fratelli; costoro la vendettero il 16.01.1722 al mastro conciatore Antiogo Piu; quest’ultimo lasciò un testamento datato 24.01.1744, e la casa passò a Juanna Piu (figlia del mastro Antiogo?) e ai suoi fratelli; una quarta parte della casa (forse l’unità 2688?) fu venduta da Juanna Piu al padre mercedario Valonga y Cisternes in data 14.04.1761; la parte maggiore fu venduta da Juanna Piu e dai suoi fratelli il 22.11.1762 a Pasquale Ponsillon; infine, con atto notarile del 10.03.1763 lo stesso Ponsillon acquistò dal Padre Mercedario Valonga y Cisternes la quarta parte che questi aveva acquistato nel 1761.

Nell’inventario è scritto che era composta da un sottano grande che prima era una “tienda”, cioè veniva usato come bottega, con due stanze per i servitori, e da un altro piccolo sottano utilizzato per deposito del grano; una porta dava accesso, attraverso una scala, ad un piccolo appartamento, con una stanza e la sua “alcova”, e una piccola cucina; di lato alla bottega c’era un’altra porta, e le scale per i piani alti: al primo piano vi erano 4 stanze, al secondo 6 stanze, e all’ultimo piano una cucina e tre piccole stanze; vi erano 6 balconi di ferro e 8 porte finestre che davano alla strada; tutta la casa fu stimata dai periti lire 7323 e 5 soldi.

Nell’atto del mese di agosto 1813, citato per la casa 2687, la casa 2689 risulta appartenere ai suoi eredi, così come si legge nel fascicolo di una causa relativa alla sua eredità, iniziata nel 1816; dal fascicolo di questa causa civile risulta che nel giugno del 1817 parte della casa 2689/2688 fosse affittata al notaio Francesco Giuseppe Catte, che pagava 26 scudi per la mezza annata; i coniugi Rocco e Maria Puma avevano in affitto e abitavano una bottega della stessa casa, col fitto di scudi 12 e mezzo per la mezza annata.

Dai dati del Sommarione dei Fabbricati, successivi al 1850, risulta che le case 2688 e 2689 appartenessero entrambe al negoziante Michele Ponsiglioni (1799-), figlio di Pasquale e della sua terza moglie Anna Medail; nelle carte di inizio ‘900 formano un’unica unità immobiliare.

 

2690 e 2691       

La casa 2690 apparteneva nel 1797 al console di Spagna Gio Cesare Bayle (o Baille), che denunciò nel suo donativo (senza data, potrebbe essere del 1799) la proprietà della casa nella quale abitava, nella strada di sant’Agostino, composta da 3 piani più il piano terreno e una soffitta, con 2 magazzini e cortile, 9 stanze, 4 gabinetti, e 4 stanzine nella soffitta, che avrebbe potuto fruttare 160 scudi annui se affittata; alla morte di Gio Cesare, nel 1811, la casa restò ai figli, fra cui Ludovico (dottore in entrambi i diritti, Console di Spagna, Censore nella Regia Università, morto nel 1839) e Faustino Cesare (dottore in entrambi i diritti, sacerdote di S.Eulalia, canonico, morto nel 1852); da una causa civile del 1853 si legge che l’esecutore testamentario del canonoco Faustino Cesare Baille era l’avvocato Fortunato Cossu Baille, che citò in giudizio il francese Pietro Dol per un incendio scoppiato nella casa Baille nella strada S.Agostino, data in affitto al Dol, per sua responsabilità. Nella stessa casa abitava nello stesso anno il professor Francesco Orunesu.

Non è stato rintracciato nessun riferimento alla casa 2691, ma è più che probabile che fosse un’unica proprietà, tanto che nelle carte catastali di inizio ‘900 le due case formano una sola unità.

Fra le registrazioni del primissimo catasto, appena successive al 1850, entrambe le case 2690 e 2691 appartenevano a Fortunanto Cossu Baille (-1879); una registrazione di poco successiva attribuisce entrambe le case, già degli eredi Cossu Baille, al negoziante Giacomo Saggiante.

E’ noto che in quegli anni la casa (o parte di essa) ospitava l’Hotel del Progresso, dove alloggiò nel 1854 il fotografo Edouard Delessert; egli scattò alcune delle sue notissime foto proprio dall’albergo: l’attuale via Savoia fu fotografata da uno dei balconi dell’albergo, una foto del Castello e delle case della Marina fu scattata probabilmente dal tetto, e non manca l’immagine della facciata intera dell’albergo stesso. In quell’anno l’Albergo Il Progresso era gestito da Ignazio Mereu, come si rileva dal fascicolo di una causa penale per un piccolo furto, a carico di un giovane ignoto introdottosi nell’ingresso; nel 1868 era gestito da Carlotta Mereu[1], come si legge dal fascicolo di un’altra causa penale, per un furto di biancheria, a carico della giovane Lucia Loi Pirisi. 



[1] Mereu o Merea; dovrebbe identificarsi con Carolina Belgrano, figlia di Lorenzo, coniugata nel 1843 con Ignazio Mereu

 

2692     

Da un atto notarile del 1764, rintracciato nell’Archivio Ballero, relativo all’eredità Vargiu e alla casa 2675, già in quell’anno la casa 2692 risulta appartenere al segretario Juan Jaime Daga di Sarule (-1776); nel 1799 fu dichiarata nel donativo dell’avvocato Carlo Maria Carta Sotgiu (1752?-1828), nativo anch’egli di Sarule, coniugato con Maria Agostina Daga (1743-1813) figlia di Juan Jaime; era composta da un magazzino terreno più 3 piani alti, con 12 stanze; una parte era affittata per scudi 54, il resto era abitato dai proprietari e se ne potevano ricavare altri 50 scudi di affitto; si pagava un peso di 60 scudi annui per il “palafreno”[1] delle suore Maria Anna (1731-) e Maddalena (1737-) Daga, sorelle di Maria Agostina.

Il 02.10.1810, verso la mezzanotte, morì in questa casa il negoziante Benedetto Revello; seriamente malato con febbri da qualche giorno, poche ore prima aveva potuto consegnare al notaio Nicolò Martini il suo testamento, scritto il giorno precedente; il giorno successivo il notaio si recò alla casa di proprietà dell’avvocato Carlo Maria Carta Sotgiu, nella strada di Sant’Agostino, per l’apertura e la lettura del documento, con i testimoni che avevano presenziato alla consegna; il Revello dispose nel testamento di essere sepolto nella chiesa dei Santi Giorgio e Caterina; nominò curatore testamentario l’avvocato Carta Sotgiu; lasciò 1000 scudi alla sorella Celestina; 500 scudi li destinò per celebrare delle messe in diverse chiese; diede indicazione di chiudere i conti con suo fratello Giuseppe con cui era in società, anche riguardo ad una certa eredità ricevuta di recente da uno zio; tutti i beni sarebbero stati divisi fra i fratelli Tomaso, Giuseppe e Giambattista. Non è chiaro se Revello abitasse nella stessa casa dei coniugi Carta Sotgiu e Daga, oppure se ne avesse in affitto una parte; certo è che correva un ottimo rapporto fra i proprietari e la famiglia Revello, come si potrà capire dalle prossime informazioni.

Maria Agostina Daga morì il 12.04.1813; il 15 marzo aveva fatto redigere al notaio Nicolò Martini il suo testamento, alla presenza di 8 testimoni, necessari anche per le difficoltà di vista della testatrice, che per questo non aveva potuto firmare. Nominò erede universale suo marito, e curatore ed esecutore testamentario; questi ebbe solo l’usufrutto per la sua vita della casa della strada Sant'Agostino; la casa era di proprietà unicamente di Agostina Daga, avendola ereditata dal padre; in quell’anno non risulta che fosse più soggetta al carico per il sostentamento delle due sorelle suore, che non vengono nominate nel testamento, probabilmente erano già defunte; la proprietà della casa venne lasciata per metà a Maria (Maria Bonaria) Garau, coniugata con Giuseppe Revello, l’altra metà ai loro figli, quelli già nati e quelli che sarebbero nati; secondo quanto è scritto nel testamento, la donna aveva vissuto con Agostina Daga fin da giovanissima ed era stata trattata come una figlia dai coniugi Carta Sotgiu e Daga; l’unico obbligo per i nuovi proprietari della casa sarebbe stato quello di far celebrare alcune messe in suffragio della loro benefattrice e dei suoi antenati; a una figlia di Maria Garau (forse Maddalena Revello), vennero lasciati tutti i vestiti e i “pegni d’oro” della defunta.

Dopo il 1850 apparteneva al negoziante Raffaele Franco.



[1] Parafreno o Palafreno: derivato dal termine di diritto Paraferna (ciò che la moglie possiede, oltre alla dote); indicava i beni necessari alle monache per potersi mantenere dopo aver preso i voti.

 

 

2693     

Da una causa civile del 1766 risulta che la casa appartenesse ai fratelli reverendo Joseph (1732-1807) e Agustin (1734-1792) Esquivo (Schivo) figli ed eredi del defunto Estevan Esquivu (-1761), ligure di Moglio (attuale frazione di Alassio, Savona); nel 1799 venne dichiarata nel donativo del reverendo Giuseppe Maria Schivo, presentato insieme a Francesca Schivo, probabilmente sua sorella, e a Romualda Therol (1752-1828), vedova di Agostino Schivo; quest’ultimo era stato Clavario della amministrazione delle torri, defunto nel 1792 in carcere nel quale era stato rinchiuso per gli ammanchi della amministrazione; sulla casa gravava un censo di 800 scudi e pensione annua al 5%, che veniva pagata a Maria Francesca Carboni, vedova del cavalier Salvatore Massa Coppola.

Nel 1808 vi abitava l’avvocato Stefano Schivo, figlio di Agostino, che ospitava in casa il “maiolo” Giuseppe Loi di Escalaplano, e da atto notarile del 1811, relativo alla casa 2699, risulta ancora degli eredi Schivo.

Dopo il 1850 apparteneva a Felice (1812-1890), Raffaele (1813-), Emanuele (1817-) Schivo, figli di Francesco figlio di Agostino e Romualda Therol, e ne era usufruttuaria (in parte?) tale Grazia Mereu di Nurri: dovrebbe identificarsi con una “domestica” nata a Nurri nel 1779 e morta a 98 anni a Cagliari in una casa di via Banche (altro nome della via Savoia) il 18.11.1877.

 

2694      

Non vi sono molte notizie su questa casa; in un atto notarile del 08.02.1779, relativo alla casa Urru 2695, si legge che quest’ultima aveva alle spalle una casa che era anni prima del mastro sarto Joseph Marongiu, e che nel 1779 possedeva il mercante Ambrogio Conti, ma in realtà era di sua moglie Anna Porru in quanto figlia ed erede dei coniugi Juan Pedro Porru e Antonia Manca; l'informazione è confermata e completata da un atto notarile del 1790 che cita una casa che era appartenuta ad Antonia Manca moglie di Pietro Porru, la quale l’aveva donata nel 1745 alla figlia Anna Porru quando questa si sposò col negoziante Ambrogio Conti; a seguito di una lite con gli eredi di Giuseppe Marongiu, la casa fu però aggiudicata a questi ultimi. Evidentemente la lite è da collocare negli anni fra il 1779 e il 1790.

Nei donativi del 1807 è dichiarata nella denuncia per il donativo dell’Arciconfraternita del Santo Sepolcro, ed è descritta come una casa di 2 piani e un “sòttano”, con un piccolo cortile, in tutto 7 stanze nei due piani; questa proprietà è confermata in atto notarile del 29.11.1811, relativo a una casa confinante; non sono noti i passaggi di proprietà dagli eredi Marongiu all'Arciconfraternita.

Dopo il 1850 apparteneva ancora all’Arciconfraternita del Sepolcro.

 

2695          

Con atto notarile del 08.02.1779 fu venduta una casa situata nella Marina con una facciata sulla strada “de las Tallolas” e un’altra sul callejon (vicolo) che scendeva alla strada di “San Leonardo ossia di San Agostino”; è la casa col numero catastale 2695, con una facciata in quel tratto della strada “las Tallolas” chiamato oggi vico Barcellona, che va dalla attuale piazza Savoia alla via Napoli, l’altra facciata nella attuale via Savoia; la casa fu venduta per 1250 scudi dai fratelli cagliaritani dottore in diritto Gimiliano e le nubili Anna Maria e Agostina Manca, al negoziante della Marina Bardilio Urru.

Gimiliano Manca, domiciliato in Villanova, vendette la sua quota della casa proveniente dall’eredità dei genitori, e la quota che il 02.11.1767 gli era stata donata dal fratello reverendo Pasquale Manca; i genitori dei fratelli e sorelle Manca erano i defunti coniugi notaio Joseph Manca, Segretario del Real Patrimonio, e Maria Geltrude Charella, domiciliati in vita nella Marina. La casa era stata stimata per 1178 scudi, era gravata da alcune proprietà censuali, una posseduta dal reverendo Joseph Belgrano di scudi 250, una seconda di 400 scudi di proprietà del convento dei Padri Mercedari.

La casa era composta da due piani alti e il “sotano” con la cisterna, un pozzo e un locale sotterraneo sotto la scala; sono specificati bene i confini, con precisi riferimenti alle case vicine; il defunto Joseph Manca l’aveva ereditata da suo padre mastro Pablo Manca, ed era divisa a quel tempo in due parti con “dos patios”, come risultava dall’inventario che sua madre Josepha Leca y Manca aveva fatto fare dopo la morte di suo marito il 10.07.1705; il mastro Pablo Manca l’aveva acquistata proprio dalla moglie Josepha Leca, la quale l’aveva ereditata da sua madre Maria Roca y Leca (la quale nel testamento del 21.08.1674 aveva nominato la figlia erede universale), e Maria Roca a sua volta l’aveva ereditata da suo marito, il sarto Francesco Leca, il quale l’aveva comprata per 600 lire il 07.02.1637 dai coniugi cagliaritani calzolaio Carlos Xaxa e Maria Serra, con atto del notaio Joseph Grimaldo.

Non si conosce la data di morte del negoziante Urru; in atti del 1790, 1797, 1799 e 1802, relativi alle case limitrofe, e dal donativo del 1807 dell’Arciconfraternita del Sepolcro (che possedeva la casa confinante 2694), la casa 2695 è indicata come quella del fu Bardirio Urru detto “su Santu”, e quindi della sua vedova Maria Angela Spada.

In data 03.10.1807 venne pubblicato il testamento della vedova Maria Angela Spada; il notaio Francesco Lai venne chiamato nella casa di abitazione della defunta dai nipoti Lucrezia Spada e mastro conciatore Juan Mattana; il testamento era stato consegnato al notaio già dal 05.11.1792; la vedova lasciò la casa della strada is Tallolas al convento dei Padri Agostiniani, con l’incarico di far celebrare ogni anno la messa per la festa della SS.ma Vergine delle nevi la seconda domenica di agosto, di far celebrare ogni 7 agosto la messa nell’anniversario della morte del marito Bardilio Vito Urru, e nell’anniversario della morte della stessa Maria Angela Spada, e altre messe quotidiane; con l’esclusione della casa, nel testamento del 1792 vennero nominati eredi universali il fratello della defunta, Vincenzo Spada (o in sua mancanza sua figlia Anna Maria) e le altre due nipoti Maria Lucrezia e Maria Annica Spada; è possibile che l’unica sopravvissuta alla zia sia stata Lucrezia che, come si è già detto, era presente all’apertura del testamento nell’ottobre 1807.

Dopo il 1850 la casa 2695 apparteneva ancora al Convento degli Agostiniani.

 

2696      

Questa casa si identifica con quella citata in atto notarile del 08.02.1779, relativo alla casa 2695, nel quale è scritto che apparteneva in passato a Michela Leca[1], poi a Juan Pedro Porru, infine agli eredi di quest’ultimo; da un atto notarile del 1790 si sa che questa casa era appartenuta ad Antonia Manca moglie di Pietro Porru, la quale la donò nel 1739 alla figlia Chiara Porru al tempo del suo matrimonio con Tommaso Musu; Chiara Porru rimase vedova e si risposò nel 1756 col negoziante Francesco Vodret e morì nel 1762 lasciando figli del primo e del secondo matrimonio; i figli erano tutti minori di 25 anni (e quindi minorenni), e fu nominato loro curatore il negoziante Ambrogio Conti, marito di Anna Porru sorella di Chiara; il Conti si impadronì della casa e usò per sé i fitti sin dal 1762, anche a causa della perdita di una casa analoga che era stata assegnata a sua moglie Anna Porru dalla madre Antonia Manca (si veda la casa 2694); Ambrogio Conti morì nel 1785, nel 1790 si giunse a un accordo fra la sua vedova Anna Porru e gli eredi di Chiara Porru, per cui in data 08.01.1790 Anna Porru e le sue figlie cedettero i diritti sulla casa che, con atto notarile del 09.04.1790, venne venduta dagli eredi Musu (figli di Chiara Porru) al notaio Giuseppe Cossu (-1827), vedovo di Maria Antonia Vodret, figlia di secondo matrimonio di Chiara Porru; a complicare le parentele, il notaio Giuseppe Cossu l’anno successivo si risposò con Anna Conti vedova del notaio Antonio Serra e figlia di Ambrogio Conti e di Anna Porru. Il notaio Cossu dichiarò la casa della strada is Tagliolas nel suo donativo del 23.06.1799, e ne denunciò fitti per 90 lire annue.

Dal donativo del 1807 dell’Arciconfraternita del Sepolcro sembra che la casa fosse in quell’anno dell’Arciconfraternita di S.Lucia, ma non ci sono ulteriori documenti che confermino questa informazione.

Dopo il 1850, dai dati del Sommarione dei Fabbricati, risulta appartenere al flebotomo Giuseppe Manca (-1875), nativo di Aritzo.



[1] Sembra probabile che Michela Leca fosse una parente, forse sorella, di Josepha Leca, a cui appartenne la casa confinante 2695 

 

 2697      

Da un fascicolo di una causa civile, del 1782, si sa che il Monastero di Santa Chiara, fra il gennaio e il giugno dell’anno precedente, aveva affittato a Teresa Codoneo [1], vedova del Francese Juan Magnano, una casa nella strada di las Tallolas; la vedova aveva cambiato casa senza pagare i 5 scudi di affitto per quel semestre e il Monastero, per averli, aveva intenzione di pignorarle i mobili; dalla causa non è possibile identificare la casa, ma l’unica proprietà del Monastero in quella strada era la casa a cui poi fu attribuito il numero catastale 2697, come si ricava da atti notarili del 1790 e 1798, relativi a case limitrofe, e dalle denunce per il donativo: nel donativo del 1799 le monache di Santa Chiara dichiararono di possedere una casa nella strada di is Tallolas, “ensostrada”, cioè con un primo piano sopra il piano terreno, composta da 3 stanze, e ne ricavavano lire 65 annue; era una casa piccola, ed è probabile che la vedova Codoneo ne abitasse solo una stanza, visto che i 5 scudi per un semestre corrispondono a sole 25 lire annue; nel donativo del 1807 di donna Anna Maria Guirisi, proprietaria della casa 2698, è scritto che la casa confinante a settentrione apparteneva alle monache di S.Chiara.

Il Monastero possedeva ancora la casa dopo il 1850, come si desume dai dati del Sommarione dei Fabbricati. 



[1] il cognome originario era Codonel, trasformato prima in Codoneo, poi in Coroneo, di provenienza francese

 

2698     

Nel 1807 la casa venne compresa nella denuncia per il donativo di donna Anna Maria Guirisi, coniugata con don Bachisio Mearza; era una piccola casa di 2 stanze, del valore di 300 scudi, fruttava appena 17 scudi annui; si tratta con tutta probabilità della stessa casa compresa nella denuncia del donativo (del 1799?) di don Giovanni Battista Guirisi (-1802), padre di donna Anna Maria, che scrisse di possedere una casa nella strada Talloras, di due stanze, affittata per 18 scudi annui.

Da atti notarili del 29.12.1810 e del 29.11.1811, relativi a case limitrofe, risulta invece appartenere ai padri Scolopi.

Dai dati del catasto successivo al 1850 risulta appartenere ancora ai padri Scolopi, cioè al Collegio del noviziato delle scuole pie dell'Annunziata.

 

2699     

Dal donativo del 1807 di donna Maria Anna Guirisi, proprietaria della casa 2698, la casa 2699 risulta appartenere a Francesco Marongiu; da un atto notarile del dicembre 1810 risulta appartenere invece all’Arciconfraternita di S.Lucia; il passaggio di proprietà dal Marongiu alla comunità religiosa è spiegato in altro atto notarile del 29.11.1811, col quale l’Arciconfraternita di S.Lucia concesse in enfiteusi “ossia locazione perpetua” al negoziante Pasquale Gorlero (1747-), per lire 2383, soldi 5 e denari 10 secondo l’estimo eseguito, e col canone annuo al 5% di lire 119, soldi 3 e denari 4, una casa nella strada Moras, identificata appunto con l’unità 2699, composta da 2 piani alti e piano terreno, con un magazzino e un piccolo cortile, inabitabile; la casa apparteneva un tempo al notaio Salvatore Jagaluni Porcella che, con testamento del 03.05.1727, istituì eredi le 2 figlie Antonia e Speranza, col patto che estinguendosi la discendenza le case passassero all’Arciconfraternita di S.Lucia; dopo la morte delle due sorelle Jagaluni la casa passò quindi al nipote Francesco Marongiu, figlio di Domenico Marongiu e di Maria Chiara Jagaluni Marzeddu, sorella delle precedenti; non si sa molto su Francesco Marongiu: un atto notarile del 01.08.1803, relativo alla confinante casa Steria 2674, indica come proprietari della casa 2699 il sartore Francesco Marongiu e sua sorella Giuseppa”; dopo la morte di Francesco Marongiu, ultimo della discendenza di Salvatore Jagaluni (come risulta dalla testimonianza del 30.09.1811 di Raimondo Piras, Segretario della Regia Vicaria), la casa pervenne quindi all’Arciconfraternita.

“La decisione di concedere la casa in enfiteusi al migliore offerente risale al 30.06.1811, e fu affissa alle Porte Pubbliche la grida dell’Arciconfraternita, fatta anche nel timore che, essendo la casa in stato di rovina, e non avendo l’Arciconfraternita denaro per riedificarla, il Regio governo potrebbe appropriarsene come effetto abbandonato”.

Dopo il 1850 la casa 2699 apparteneva in enfiteusi al Regio impiegato Nicolò Gorlero, probabilmente figlio di quel Pasquale che l’aveva acquisita in enfiteusi nel 1811.