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Isolato M: Cappuccine/Costa/Cappuccine

(via Spano, via Manno, scalette delle Cappuccine)

numeri catastali da 2404 a 2417

la struttura dell’isolato non è molto cambiata, caratterizzata dalla presenza della chiesa e dal monastero delle Cappuccine; rispetto al passato hanno acquistato autonomia alcune case della parte alta, affacciantesi sulla via Spano, un tempo parti posteriori delle case della strada della Costa, attuale via Manno; una di queste case, identificabile con l’unità 2415, è stata ricostruita e presenta un solo piano.

 

2404 e 2405       

Chiesa e monastero delle monache Cappuccine.

 

2406, 2407, 2408       

Erano case appartenenti al Monastero delle monache Cappuccine; sono citate nel donativo del Monastero, del 24.06.1799, dove vengono dichiarate 4 case nella strada della Costa, 3 delle quali sicuramente contigue, l’altra “negli stessi paraggi” forse anche questa sotto il Monastero: la prima era formata dal piano terreno con due piccole grotte e due piani con 6 piccole stanze, complessivamente affittata per lire 150; la seconda aveva piano terreno e due piani alti ognuno di 4 stanze più l’alcova, e un terrazzo, ed era affittata a lire 150; la terza era una casa bassa con una camera, due alcove, una piccola cucina, affittata per 125 lire; la quarta aveva una bottega e due piani, affittata per 150 lire.

Nel donativo non vi sono indicazioni sulla posizione esatta delle case; sono però stati rintracciati altri documenti che le citano.

Si ipotizza che 3 delle 4 case denunciate nel 1799 fossero le unità 2406, 2407, 2408; inoltre è possibile che la parte dell’unità 2405 all’angolo fra la scala e la strada della Costa fosse una casa indipendente dal monastero, e che sia da identificare con la quarta casa inserita nella dichiarazione del donativo: infatti, in un atto del 1792 relativo a una bottega sita nella casa 2418, è scritto che lateralmente, oltre la scala, vi era una casa che stava sotto al monastero delle Cappuccine.

Nella mappa allegata in un fascicolo di una causa civile del 1800, relativo alla casa 2409, la casa confinante 2408 risulta di proprietà delle monache Cappuccine;

Con atto notarile del 08.02.1811 le monache Cappuccine concessero in enfiteusi la casa 2407 al negoziante Giuseppe Vivenet (1759-1836), che avrebbe pagato scudi 60 (cioè lire 150) di canone annuale, e si sarebbe sobbarcato le spese per oltre 580 lire per la sistemazione della casa; l’enfiteusi fu concessa per 3 vite: per quella del Vivenet, di sua moglie Vittoria Dentoni (-1848), e dei loro figli; anche le case confinanti appartenevano entrambe al monastero delle Cappuccine: quella a ponente, numero 2408, era abitata dal negoziante Luigi Mameli, quella a levante, numero 2406 era abitata dalla vedova Marcolino; la casa proveniva da un lascito testamentario al monastero, fatto da donna Anarda Genoves (-1737). 

La vedova Marcolino è identificabile con Maddalena Rebeco, coniugata con Luigi Marcolino nel 1775 e vedova nel 1798;  i due coniugi vivevano in una casa della strada di Sant’Antonio abate, cioè della Costa, con una famiglia numerosa: avevano 10 figli di età fra i 22 e 1 anno; Marcolino era un negoziante di tessuti e aveva la bottega sotto casa; risulta che nel 1808, nella sua abitazione della strada della Costa, la vedova Marcolino ospitasse il maiolo Baldino Melis di Serramanna; forse morì nel 1811, o forse si trasferì; in ogni caso visse nella casa 2406 fino al febbraio di quell’anno; con atto notarile del 26.04.1811 le monache Cappuccine concessero in enfiteusi la casa 2406 al negoziante Luigi Mameli, per lo stesso canone concordato con Giuseppe Vivenet; si tratta della stessa persona che nel citato atto del febbraio 1811 risultava abitare in affitto nella casa 2408; anche in questo caso l’enfiteusi fu concessa per 3 vite: per quella del Mameli, di sua moglie Anna Brouquier, e dei loro figli; le case confinanti con quella concessa appartenevano entrambe al monastero delle Cappuccine, ma quella a ponente, numero 2407, era stata concessa in enfiteusi al negoziante Giuseppe Vivenet (1759-1836), figlio di Francesco; così come la casa 2407, e forse come le altre possedute dal Monastero nella stessa strada, proveniva dal lascito testamentario di donna Anarda Genoves (-1737).

A metà ‘800 le prime due unità catastali appartenevano a privati: la casa 2406 ad Anna Brouquier (1780-1853) vedova Mameli, figlia del negoziante francese Angelo Brouquier; la casa 2407 a don Domenico Piccinelli (1802?-1881), consigliere d’appello, che aveva sposato nel 1831 Teresa Vivanet, figlia di Giuseppe; la casa 2408 apparteneva ancora al Monastero delle monache Cappuccine, così come tutta l’unità 2405 con le eventuali sue dipendenze.

 

2409     

 

A fine ‘700 la casa 2409 apparteneva al negoziante Giovanni Battista Capra (1750-), di famiglia proveniente da Viarìs (Viarigi, nel Monferrato, Asti); Capra la dichiarò nel suo donativo (senza data, presumibilmente del 1799): “casa nella strada sa Costa, composta da 7 camere tra piccole e mezzane, affittata a scudi 77”; è una dichiarazione molto sintetica, dove non vengono identificati i confinanti e la posizione della casa.

La storia di questa casa si intreccia con quella della casa 2410; infatti le due costruzioni erano anticamente separate da un vicolo, un “callejon”, una sorta di cortile dove si aprivano una serie di piccole abitazioni o grotte, che furono poi incluse nell’una o nell’altra casa. Si entrava nel cortile, dalla strada della Costa, nel punto dove ora si trova il portone della casa Capra; nel 1800, quando l’edificio fu ricostruito e ampliato, il portone, attraverso un portico, dava ancora accesso a quel che era rimasto del cortile.

Con atto notarile del 08.08.1796 il professore di Leggi della Regia Università Cagliaritana, Giuseppe Antonio Demelas, e sua sorella Rita Demelas col marito Giovanni Delorenzo, vendettero una casa al mastro calzolaio e negoziante Giovanni Capra; quest’ultimo era già domiciliato alla Marina, mentre i venditori abitavano in Stampace; vendettero al Capra una casa sita nella contrada della Costa ossia di Sant’Antonio abate, di fronte alla chiesa, composta da due sottani, due piani alti con i balconi di ferro, e un altro piccolo piano alto con un piccolo balcone di ferro, costruito sopra una “tienda”, cioè un locale basso o bottega che era appartenuto al notaio Giuseppe Rolando e che già apparteneva al compratore Capra. La casa era stata costruita dal nonno dei venditori, il mastro ferraro Giuseppe Murtas, aveva di lato la casa del defunto Giuseppe Baglietto (2410) e dall’altro una casa delle monache Cappuccine (2408), alle spalle una piccola casa che Simone Baglietto (figlio di Giuseppe), aveva venduto poco prima a Giovanni Capra, cioè la stessa piccola casa già del Rolando, sopra la quale il Murtas aveva costruito un primo piano.

Nell’atto è ripercorsa tutta la storia della casa: si trattava inizialmente di una grotta per la quale i coniugi Juan Pisano e Maria Sanna (Pisano era uno dei “magnifici” giurati della città) pagarono lire 225 in data 16.11.1644, e su cui eressero una prima costruzione; alla morte dei coniugi la proprietà passò alle figlie ed eredi, cioè le sorelle Sandesa e Juana Maria Zonquello, coniugate rispettivamente Sandan e Pinna; Sandesa Zonquello[1] e il marito Juan Sandan acquistarono la quota di Juana Maria Zonquello in data 20.03.1661, e la lasciarono in dote alla figlia Rosolea Sandan, coniugata con mastro Simone Mura, secondo i capitoli matrimoniali del 31.07.1679; Rosolea ebbe in prestito 300 lire e la ricostruì, utilizzandola come bottega (tienda); morì senza testamento, e la proprietà passò ai figli, il reverendo Juan Antonio Mura e il frate cappuccino Simone (al secolo Juan Baptista Mura) il quale, nel suo testamento scritto prima di prendere i voti, lasciò la casa al fratello reverendo Juan Antonio, con atto del notaio Juan Battista Orrù Delussu del 26.02.1715; il reverendo scrisse il suo testamento in data 11.10.1717, e lasciò la casa, dopo avere destinato 5 anni di frutti per una serie di messe, alla zia Giuseppa Pinna (figlia di Juana Maria Zonquello) e alla cugina Giuseppa Frassu (figlia della già defunta Antonia Pinna, sorella di Giuseppa); morta prematuramente Giuseppa Frassu (intorno al 1725), la sua quota passò alle figlie, cioè Maria Antonia, Maria Francesca e Isabella Orrù Delussu; in data 28.09.1731 il notaio Juan Battista Orrù Delussu, padre delle eredi e loro curatore, e la zia Giuseppa Pinna, vendettero la casa al mastro fabbro Giuseppe Murtas, per lire 1000.

Alla morte del Murtas, secondo il testamento del 01.11.1756, la casa ed altri beni arrivarono ai suoi figli, cioè al reverendo Pedro Murtas beneficiato della primaziale di Cagliari, e alla vedova Caterina Murtas Demelas; dopo la morte di entrambi la casa fu assegnata, con atto notarile del 25.06.1796, al professor Giuseppe Antonio Demelas, e a sua sorella Rita Demelas, figli di Caterina Murtas; fu stimata dai mastri muratori Pasquale Cao e Agostino Randachu in lire 2375, 666 soldi e 2 reali, e fu venduta a Giovanni Capra il giorno 8 agosto dello stesso anno.

In un atto notarile del 03.07.1800 si legge che Giovanni Capra aveva chiesto e ottenuto dalle autorità cittadine la concessione di un piccolo terreno davanti alla sua casa della strada della Costa: il Capra possedeva una vecchia casa dirimpetto alla chiesa di Sant’Antonio abate, davanti alla quale c’era un piccolo terreno vuoto “il quale rende una cattiva figura nell’aspetto pubblico; volendo il Capra riedificare e rifare detta casa…e allinearla colle altre case laterali, …..supplica di concedergli quel trozzo di terreno, e di poter formare un portico dirimpetto al portico dell’ospedale”  per costruire alcune stanze sopra il portico, che sarebbe stato abbastanza largo per far entrare un carro nel piazzale “ossia cortile interno di quelle case terrene, ossiano grotte” che vi si aprivano.

Pochi giorni dopo, il 18.07.1800, il Capra venne citato in giudizio da Geltrude Mereu vedova Cossu, proprietaria della casa 2410, in quanto “il mastro Giovanni Capra ha proceduto ieri sera a fare una nuova opera gittando le fondamenta d’un arco sopra lo spazio di terreno vacuo che sta fra la di lui casa e quella della comparente, dirimpetto allo spedale di S.Antonio”; la Mereu rivendicava dei diritti sul cortile, dove aveva probabilmente una entrata alla sua casa; entrò in causa anche il sacerdote Filippo Ponsiglioni come curatore dell’eredità del cugino, il negoziante Pasquale Ponsiglioni, in quanto l’eredità possedeva due piccole grotte sulla via della Costa dietro la casa Capra, avute per 300 scudi da un debitore; erano inutilizzate da tanto tempo, e le voleva comprare lo scarparo Giovanni Manca, per scudi 200; non si sa esattamente quali accordi siano stati trovati fra le parti, ma il Capra riuscì a concludere i suoi lavori e a completare la sua casa; in una pianta allegata al fascicolo della causa si individua la vecchia casa del Capra, di forma irregolare, a cui mancava, rispetto alla casa nuova, una parte sul davanti, prospiciente la strada, e la parte di sinistra, dove fu costruito il portico con l’ingresso della casa stessa; il portico dava accesso a un piccolo cortile dove s’apriva la casa di mastro Francesco Selis (poi inclusa nella casa Capra 2409), e sul fondo una casa del “negoziante Poselione” (cioè Ponsiglione), poi inclusa nell’unità 2410. Nella carta è segnata anche una casa delle monache Cappuccine (2408), di fianco alla casa Capra, e la casa del fu Giovanni Cossu, cioè della sua vedova Geltrude Mereu (casa 2410).

Con atto notarile del 23.06.1803, il negoziante Juanico Capra ottenne un prestito di 2000 scudi dal negoziante Francesco Rossi; per garantirne la restituzione ed il pagamento degli interessi, ipotecò la casa della strada della Costa, ossia di Sant’Antonio Abate, sita davanti alla porta maggiore dell’ospedale Sant’Antonio, confinante sui lati con casa della madri Cappuccine (2408), e con la casa Cossu, ex Baglietto; nell’atto si specifica che il Capra aveva acquistato la casa dal dottore e professore di leggi della università Joseph Anton Demelas, e dai coniugi Juan Delorenzo e Rita Demelas, con atto del notaio Francesco Angelo Randachu del 08.08.1796, e l’aveva fabbricata tutta di nuovo.

Con atto notarile del 06.07.1804, Juanico Capra ebbe un ulteriore prestito di 1100 scudi dallo stesso Francesco Rossi (padre del futuro barone Salvatore) con altra ipoteca sulla casa della strada della Costa.

In data 30.09.1804 i coniugi Giovanni Battista Capra e Annica Randachu fecero un testamento congiunto col notaio Rancesco angelo Randachu; Capra era malato, nel suo letto; vengono citati come eredi i figli Agustina, Joseph, Theresica, Salvador, Caterina, ed Efisia Capra Randachu.

Il giorno 11.01.1806 il notaio Francesco Angelo Randachu diede inizio alla compilazione dell’inventario dei beni del defunto Giovanni Battista Capra, morto il 6 gennaio; la vedova Annica Randachu era stata nominata nel testamento (del 30.09.1804) usufruttuaria di tutti i beni del defunto e curatrice dell’eredità.

Nel suo donativo del 24.06.1799 il Regio Assaggiatore Francesco Selis dichiarò di possedere una grotta in “sa Costa”, di fronte all’ospedale di Sant’Antonio; ne ricavava 12 scudi di affitto e pagava il canone su un capitale di 100 scudi (al 5% o al massimo al 6%) al rettore Corona di Gergei.

Con atto del notaio Francesco Ignazio Serra del 24.03.1806 fu registrato l’estimo di una grotta nella strada della Costa, confinante con la casa Capra, con la casa Cossu/Mereu e con altra grotta che era prima del defunto Pasquale Ponsiglioni, poi dello scarparo Giovanni Manca; l’estimo era stata chiesto da Cattarina Selis e dal reverendo e Rettore Antonio Corona, fu valutata in lire 670 dai mastri muratori Pasquale Cao e Giovanni Paba; si trattava d’una stanza tutta di roccia, con l’eccezione di una piccola parte di mattoni e travi.

All’estimo seguì dopo 5 giorni la vendita della grotta da Caterina Selis al rettore Corona; la Selis l’aveva ereditata dai genitori Francesco Selis e Sebastiana Ruju, i quali avevano un debito di oltre lire 528 verso il rettore per pensioni non pagate sul censo di scudi 100, già citato; erano stati condannati a pagare i loro debiti già nel 1788 e ancora nel 1796; il prezzo di vendita fu pattuito in scudi 249, reali 5, soldi 3 e denari 6, cioè oltre 622 lire che coprivano interamente il debito.

Con atto notarile del 18.08.1806 fu venduta per 300 scudi “una grotta ossia casetta nella contrada della Costa, dirimpetto allo spedale di Sant’Antonio” dalle sorelle Anna, Angela e Francesca Corona alla vedova Geltrude Cossu nata Mereu; la grotta era pervenuta alle sorelle Corona per diritto ereditario; la possedeva il loro fratello defunto, reverendo rettore e dottore Antonio Corona:è molto incomoda, dà pochi frutti, a causa delle continue molestie e servitù cui sono soggetti gli affittavoli da parte degli eredi del fu Gioannico Capra, colla fabbrica della loro casa, per cui pende una lite in questo supremo Magistrato della Reale Udienza”; per evitare le spese e le dispute, le sorelle Corona decisero di vendere a Geltrude Mereu; quest’ultima aveva offerto 300 scudi, di cui 100 pagati subito, e 200 da pagare entro 6 anni, col 6% di interessi annui; il debito di 200 scudi fu effettivamente saldato con atto del notaio Francesco Ignazio Serra del 04.10.1812: le sorelle Angela e Francesca Corona firmarono la ricevuta alla vedova Mereu; nel frattempo era morta Anna Corona, lasciando i suoi beni alle due sorelle superstiti; la grotta confinava da un lato con la casa del fu Gioannico Capra, sull’altro lato con altra grotta che lo scarparo Giovanni Manca aveva comprato dagli eredi di Pasquale Ponsiglione, e davanti con la casa della vedova Mereu; la grotta Selis-Corona, poi Cossu-Mereu, come si è detto fu poi inglobata nella casa Capra.

Con atto notarile del 27.04.1812, furono vendute 2 grotte (ex Ponsiglione) per scudi 300 (pagabili in un triennio con 18 scudi di interessi annui), dai coeredi Capra a Geltrude Mereu vedova Cossu; con lo stesso atto si stabilì la locazione di un’altra grotta (ex Selis–Corona) per anni 3 da parte della stessa vedova Mereu a favore dei coeredi Capra.

La vedova Anna Capra nata Randacciu, e i figli Giuseppe e Salvatore, Agostina vedova Nobilioni, Caterina col marito Angelo Pistis, Teresa col marito speziale Vincenzo Murru, Efisia nubile, con la curatrice Anna Capra sua madre, cedettero quindi a Geltrude Mereu Cossu “due grotte esistenti in fondo all’atrio delle due case Capra e Mereu, dirimpetto al portico della stessa casa, nella strada della Costa, in prospettiva alla Porteria del Regio Spedale; le grotte sono fiancheggiate a mano dritta entrando da altra grotta della vedova Mereu, a sinistra dalla casa della stessa vedova Mereu, ed esistono al di sotto della terrazza e casa del convento delle Cappuccine, e della vedova Mereu”; non erano mai state utilizzate dai Capra a causa della loro umidità e a causa della lite in corso.

La vedova Mereu Cossu cedette agli eredi Capra per 3 anni l’usufrutto della sua grotta (ex Selis-Corona) attigua a quelle vendute, autorizzando ad aprire una porta di comunicazione con la casa Capra e bottega.

Le due grotte sotto la casa Cossu si possono identificare con le due grotte Ponsiglione, poi Manca, evidentemente acquistate dagli eredi Capra fra il 1806 e il 1812; furono poi incluse nella casa di Geltrude Mereu (2410).

Quest’ultimo atto sancì una tregua fra le parti, con un accordo che sistemava al meglio le rispettive proprietà; gli eredi Capra erano comunque riusciti a costruire il portico che chiudeva il vicolo, sopra il quale vi era ormai parte della loro casa; questa era ormai da tempo la casa di abitazione della famiglia: nell’elenco dei maioli presenti in città, datato 1808, compare Michele Marcia di Forru (Collinas), il quale viveva nella casa della vedova Capra, nella strada della Costa; da un atto notarile del 14.03.1809 si sa che nella casa abitava Giuseppe Capra, figlio di Annica Randachu (Randaccio) vedova di Giovanni Battista Capra; con atto notarile del 22.07.1813 il negoziante Giuseppe Capra vendette al notaio Francesco Maria Spano, per lire 6050, le merci “esistenti” nella sua bottega di chincaglieria, sita nella sua casa della strada della Costa.

Nel 1820, per accordi familiari sulla eredità, le sorelle Agostina Capra vedova Nobilioni ed Efisia Capra vedova Miller, figlie di Giovanni Battista Capra ed Anna Randaccio, rinunciarono alla casa sita nella Costa, in prospettiva al portico dello “spedale di S.Antonio abate”.

A metà ‘800 la casa 2409 apparteneva in parte agli eredi del negoziante Salvatore Capra, tutelati dalla madre Angela Ritzu (1813-1887), ed in parte alla stessa Angela Ritzu, vedova di Salvatore Capra; quest’ultimo, nato nel 1784 e morto nel 1850, era figlio di Giovanni Battista Capra e Anna Randaccio; si era sposato in prime nozze con Giuseppa Leccis, morta nel 1830, e nel 1831 si era risposato con Angela Ritzu, da cui aveva avuto diversi figli fra il 1831 e il 1847; dal figlio Giovanni Battista, nato nel 1833, nacque Amsicora Capra (Quartu S.E. 1854/cagliari 1930), che nel 1908 fondò la società Vinalcool.



[1] Juana Maria Pisano Zonquello nel 1656 si sposò nella chiesa di Sant’Eulalia con Matteo Pinna, e risulta figlia di Juan Pisanu e di Maria Zonquella; Antonia Pinna, sorella di Giuseppa, nacque nel 1666, figlia di Matteo Pinna e Giovanna Pisano; nella registrazione del suo matrimonio con Alberto Frassu, nel 1686, Antonia risulta invece figlia di Matteo Pinna e di Giovanna Zonquello; il cognome materno fu evidentemente quello che Giovanna e la sorella Sandesa preferirono usare. La loro madre Maria Zonquella, nel documento del 1796 è citata come Maria Sanna (sempre che si tratti della stessa persona e non di una seconda moglie di Juan Pisano)

 

2410     

Fra i documenti rintracciati che contengano riferimenti a questa unità catastale, il più antico risale al 1784: da questo e da altri successivi risulta che la casa 2410 fosse suddivisa in diverse parti: il 19.11.1784 il fabbricante di cera Joseph Baglietto e sua moglie Anna Casamilla (sua terza moglie) acquistarono per 60 scudi una grotta dal dottor Angelo Belgrano; la grotta si apriva in un piazzale a cui si accedeva attraverso il viottolo che stava di fronte al portico dell’ospedale, nella strada della Costa, e confinava da un lato con la casa Rachis, e dall’altro con la casa dello stesso Baglietto che era in precedenza di Ninna Cavassa.

Con atto notarile di stessa data, il notaio Joseph Antonio Rolando vendette a Joseph Baglietto una casuccia in calle della Costa, cioè un “sòtano sito en el callejon frontero a la postaria dell’hospital”, laterale a proprietà dello stesso compratore Baglietto (ex grotta Belgrano) e sull’altro lato confinante con la casa degli eredi del fu reverendo Pietro Murtas (unità 2409, poi casa Capra); la casuccia proveniva dalla divisione dell’eredità dei coniugi Paola Rachis e Juan Usai, ed era stata ereditata da Caterina Usai loro figlia, coniugata (nel 1713) col notaio Bartolomeo Rolando, padre del venditore; dovrebbe trattarsi della stessa casa citata nel precedente atto come “casa Rachis”.

La casa Baglietto era quindi formata, fino a quel momento, da parti provenienti da 3 proprietari diversi: la ex casa Cavassa fu la prima che aveva acquistato il “cerero” Joseph Baglietto, ed era la parte principale della casa, sulla strada della Costa; nel novembre 1784 furono acquistate la grotta Belgrano e la casuccia Rachis/Rolando; queste ultime due proprietà si aprivano nel cortile posto fra l’unità 2409 e la stessa unità 2410, cortile che pochi anni dopo fu incluso, tutto o in parte, nella casa Capra 2409.

Con atto notarile del 18.09.1794 si fece la divisione dei beni del fu Giuseppe Baglietto fra i suoi figli Nicolò, Giovanni, Angelo e Simone, e i figli del loro fratello defunto, Francesco; la casa spettò a Giovanni ed Angelo, con l’obbligo di pagare alla loro madre Anna Casamilla lire 22 annue per il capitale di lire 368 e soldi 11, derivante dalla sua dote; dalla quota dei due fratelli era però esclusa la casuccia Rachis/Rolando, quella comprata da Giuseppe Baglietto nel 1784; questa entrò nella quota ereditaria del fratello Simone, che la cedette poco dopo a Giovanni Capra, e sembra di capire che restò a far parte dell’unità 2409. 

Oltre alla casuccia appena citata, appartenevano alla eredità Rolando anche due grotte che, a quanto pare, restarono di proprietà di Anna Casamilla Longu vedova Baglietto; la donna le vendette con atto del notaio Carlos Franchino Amugà, del 03.02.1795, al negoziante Pasquale Ponsiglion e a sua moglie Anna Medail.

Con atto del 15.03.1796 Giovanni ed Angelo Baglietto cedettero la casa al fratello maggiore Nicolò, per lo stesso prezzo con cui a loro era pervenuta, lire 4993 e 5 soldi.

In data 09.08.1796, Nicola Baglietto Scaffino, figlio dei defunti Giuseppe e di Anna Scaffino (sua prima moglie), vendette la sua proprietà della strada della Costa al negoziante Angelo Truffa; si trattava di una “casa grande d’un patio, e due piani, e bottega, ed in questa una gran grotta, e due stanzette al lato della casa, con il terrazzo della fabbrica della Cera”; nella vendita furono compresi anche gli attrezzi della fabbrica di cera, il tutto per lire 5286 e 6 soldi; la casa confinava da una parte con la proprietà Aytelli (2411), dall’altro con una proprietà degli eredi del mastro ferraro Giuseppe Murtas (la casa Capra 2409) e con grotte del negoziante Pasquale Ponsiglione, che prima erano dell’eredità Rolando, e il terrazzo confinava con la proprietà del Monastero delle cappuccine (2405), e con altre (la proprietà Ponsiglione fu poi inclusa nella stessa casa 2410); occorre specificare che il “terrazzo” non era sul tetto della casa, ma era un terrazzamento, un terrapieno posteriore ad essa; nell’atto fu specificato che si trattava della stessa casa che, con strumento del notaio Francesco Andrea Frau Calvo del 04.02.1763, la Comunità del Convento dei padri Minimi vendette per lire 2500 al fu cerero Giuseppe Baglietto; è possibile che la più antica proprietaria, quella Ninna Cavassa nominata nell’atto notarile del 1784, l’avesse lasciata alla comunità religiosa come legato testamentario.

Poco dopo diventò la casa del fabbricante di cera Giovanni Battista Cossu; il 07.07.1797 il mastro muratore Francesco Usai firmò la ricevuta di 850 lire, avute dal negoziante Juan Bauptista Cossu per lavori eseguiti nella casa di quest’ultimo, sita nella strada della Costa “dirimpetto allo Spedale di San Giovanni di Dio”; in un atto notarile del 23.06.1803 relativo alla casa Capra 2409, è scritto che la casa confinante “callejon mediante” era quella “de los herederos del qm Josef Baglietto Serero de esta ciudad, e hoy de los herederos del qm Cossu Serero”.

Giovanni Battista Cossu morì il giorno 11.10.1798, senza testamento, lasciando la vedova Geltrude Mereu e i 5 figli Caterina di anni 15, Francesco di anni 14, Michele di anni 12, Marianna di anni 6, Pasquale di anni 2.

Il 9 novembre venne compilato l’inventario dei suoi beni, e fra questi vi era la casa di fronte all’ospedale Sant’Antonio, stimata in lire 8419 e soldi 5; venne specificato che il Cossu l’aveva comprata dal negoziante Angelo Truffa con atto del 29.09.1796; all’inventario presenziò la vedova e la figlia Caterina, mentre il figlio Francesco, che aveva già compiuto 14 anni, non fu presente in quanto seminarista nel Seminario Tridentino.

In data 24.06.1799 la vedova Geltrude Mereu presentò il suo donativo e dichiarò di possedere la casa dove abitava la famiglia, sita davanti all’ospedale, formata dal piano terreno e 3 grotte, due piani alti e una terrazza; affittandola si sarebbero potute ricavare lire 200; si pagava una pensione annua di lire 108 ai Padri Minimi di San Francesco di Paola per un censo di 1800 lire al 6%; probabilmente questa pensione risaliva all’acquisto fatto nel 1763 da Giuseppe Baglietto.

La casa dei coniugi Cossu Mereu era fino a quell’anno più piccola di quella che appare nella pianta di metà ‘800: questo è evidente dalla pianta allegata al fascicolo della causa civile fra Geltrude Mereu e Giovanni Battista Capra, iniziata il 18.07.1800 a seguito dei lavori iniziati dal Capra nel cortile; in questa pianta la casa Mereu non è profonda come appare nella pianta di metà ‘800, e alle spalle vi erano altre proprietà, fra cui quella del “negoziante Poselione”, cioè Pasquale Ponsiglione; la proprietà Ponsiglione è confermata dall’inventario dei beni del defunto Pasquale, del novembre 1802: si trattava di due grotte site davanti "al Real Hospital de san Anton, y dentro la plasuela donde antigamente se reponian los cadaveres de la anatomía" (dell'ospedale di Sant'Antonio o San Giovanni di Dio), e confinavano con le case possedute da Monsieur Capra (2409) e dalla vedova Cossu (2410), di spalle al “territorio delle monache Cappuccine” (2405), stimate in lire 750.

Con atto del notaio Pietro Santino del 16.06.1804, il reverendo Filippo Ponsiglion, cugino primo del defunto Pasquale e curatore degli eredi Ponsiglion, vendette le due grotte per 200 scudi al mastro calzolaio Giovanni Manca, domiciliato in Cagliari ma nativo di Sorradile; Manca pagò 100 scudi e avrebbe pagato gli altri 100 in 5 anni, 20 scudi ogni anno, col frutto compensativo del 6%;

Le grotte confinavano di lato con casa del fu Juan Baup.ta Cossu, dall’altro lato con grotta degli eredi di mastro Francesco Selis, di spalle al Monastero delle Cappuccine.

In data 29.05.1806 il notaio Gio Batta Azuni, recatosi nella casa nella strada della Costa, ricevette il testamento della signora Geltrude Mereu, vedova di Gio Batta Cossu, già fabbricante di cera e Maggiore nel Battaglione Milizie della città di Cagliari; furono testimoni alla consegna i negozianti Giuseppe Vivanet, Giovanni Galba, Luigi Mamely, il sartore Pietro Nuxis e il garzone di bottega Effisio Rocca, tutti di Cagliari, inoltre Valentino Sirigu garzone di bottega in Cagliari ma nativo di Nurri e Michele Raggio lavorante di cera in Cagliari ma nativo di Genova.

Con atto del notaio Rocco Congiu del 03.04.1807, Geltrude Mereu vedova del “Fabbricatore di Cera” Giam Battista Cossu, a suo nome e a nome del figlio pupillo Pasquale di 9 anni, e insieme agli altri figli Caterina di anni 23, Michele di anni 20 e Mariannina di anni 16, ricevette dal negoziante Francesco Vodret 800 scudi; fu accesa un’ipoteca sugli immobili di loro proprietà, ed essi si impegnarono a pagare gli interessi al 6% pari a 48 scudi annui. La loro necessità era dovuta al fatto che il figlio Francesco (di anni 22), essendosi sposato da alcuni anni voleva ricevere la sua porzione ereditaria; l’unico immobile ereditato era la casa della strada della Costa, venduta da Angelo Truffa a Giambattista Cossu il 29.09.1796, gravata dal peso di lire 1800 per il quale si pagava la pensione al 6%, pari a lire 108 annue, al Convento dei Padri Minimi di San Francesco. Un precedente peso di lire 368 e spiccioli, proprietà di Anna Casamiglia (proveniente dalla sua dote portata al matrimonio con Giuseppe Baglietto), era stato estinto dal Cossu in data 29.10.1797. La casa spettava per metà alla vedova, l’altra metà ai figli; con gli 800 scudi gli eredi liquidarono a Francesco la sua quota, e rimase loro una somma per accrescere il “fondo del negozio”.

Oltre alla casa di due piani alti dell’eredità, Geltrude Mereu ipotecò anche un’altra casa, da lei costruita dietro la precedente, composta da 3 piani alti, il cui primo piano era composto da un’unica stanza grande utilizzata per la fabbrica di cera., mentre gli altri 2 piani erano divisi in 3 e 2 stanze rispettivamente. Questa casa posteriore alla prima confinava alle spalle con la casa Perpignano (2412) col cortile delle monache Cappuccine e con le “Regie Muraglie”, al di là della strada (cioè la discesa delle Cappuccine).

In data 15.05.1807 Francesco Cossu ricevette dalla madre lire 2057, soldi 10, denari 11 e ½, sua quota ereditaria, e ne firmò ricevuta; viene specificato in quest’ultimo documento che Francesco dopo la morte del padre aveva contratto matrimonio con Paola Campus di Quarto, e “determinò fissare ivi il suo domicilio e procurarsi la sussistenza piantando una bottega di vari capi di merci”. Sua madre gli aveva già anticipato in contanti scudi 359, sette reali e sei denari, perché si fabbricasse una casa per abitazione con la bottega. Geltrude Mereu testimoniò inoltre che il figlio, che era ancora minorenne (aveva allora 23 anni, la maggiore età si raggiungeva a 25), “ben lungi da dissipare la sua porzione ereditaria, sarà il caso di aumentarla, essendo egli molto intraprendente, attivo ed economico come ha già dato sufficiente prova”.

Testimoniò anche il quarantenne Giuseppe Sciaccaluga, figlio del fu Bartolomeo, nativo di Quinto nella riviera di Genova (fino al 1926 comune autonomo, oggi Quinto al Mare, quartiere di Genova), “Fabbricatore di cera e lavorante da 18 anni nella fabbrica della famiglia Cossu Mereu”, e affermò che Francesco Cossuha studiato nel Seminario Tridentino e poi dei Nobili, ha imparato bene la formazione dell’abaco e dei conti e si è applicato al negozio”; pertanto il giovane ebbe il permesso di avere e gestire la sua quota ereditaria, senza l’aiuto di un curatore.

Si rimanda a quanto già riferito per la casa 2409 per ulteriori particolari sulla causa fra i Capra e Geltrude Mereu, e sugli accordi di vendita e locazione delle casette o grotte che si aprivano sul cortile posteriore alla casa Capra.

Ci si limita a ricordare che, con atto notarile del 27.04.1812, la vedova Mereu poté comprare dagli eredi Capra le due grotte che chiudevano il cortile: erano appartenute fino al 1804 agli eredi Ponsiglione, i quali le avevano avute come pagamento di un credito di 300 scudi da persona non identificata (ma, nel riferito atto del 1796, è scritto che le grotte Ponsiglione provenivano dall’eredità Rolando, e da atto del 1804 si sa che fu Anna Casamilla vedova Baglietto a cederle a Pasquale Ponsiglion); con atto notarile del 16.06.1804 gli eredi Ponsiglione le cedettero per 200 scudi allo scarparo Giovanni Manca; con atto del 11.09.1806 il Manca le vendette agli eredi Capra i quali finirono di pagarle il 15.03.1808 (era rimasto un carico di 100 scudi da liquidare agli eredi Ponsiglione) e nel 1812 le cedettero alla Mereu, in cambio della locazione della grotta posteriore alla loro casa (la grotta Selis-Corona, acquistata da Geltrude Mereu); le due grotte erano molto umide, i Capra non le avevano potute utilizzare anche per le difficoltà sorte a causa della lite relativa al cortile su cui si aprivano le grotte. Nella mappa catastale di metà ‘800 le due grotte ex Ponsiglione sono incluse nell’unità 2410.

In data 16.09.1813 la vedova Geltrude Cossu Mereu ottenne in prestito, al 6%, 200 scudi dalle “Senoras obreras” della Vergine dell’Assunzione di Stampace; aveva diverse necessità per la fabbrica di cera “che governa” in calle della Costa, nella sua casa: come garanzia la vedova dovette ipotecare la casa bassa o grotta (parte posteriore della casa 2409) che si apriva sul cortile dietro la casa Capra, la stessa che Geltrude Mereu aveva acquistato nel 1806 dalle sorelle Corona (e che dal 1812 aveva affittato agli eredi Capra), e ipotecò la stessa casa di abitazione, numero 2410, composta da piano terreno e due piani alti, che aveva fabbricato il marito (o meglio rifabbricato, su una vecchia casa comprata da Angelo Truffa nel 1796); la vedova possedeva metà della casa, l’altra metà apparteneva ai figli.

A metà ‘800 la casa 2410 apparteneva al negoziante e console Gregorio Vodret (1786-1863) (il cui padre Francesco nel 1807 possedeva il capitale di 800 scudi caricato sulla casa).

Fra i figli di Giovanni Battista Cossu e Geltrude Mereu, il maggiore dei maschi, Francesco, fu uno dei protagonisti di una vicenda criminale avvenuta in Quartu nel 1823: era stato ucciso il vice parroco Girolamo Carboni; il corpo, rintracciato nei campi fra Quartu e Cagliari, era rimasto sepolto a lungo nel cortile della casa di Quartu dove Francesco Cossu viveva con la moglie quartese Paolica Campus, e proprio nella casa del Cossu era avvenuto il delitto, commesso con lo scopo di rapinare il prete; non era stato il Cossu a ucciderlo, ma fu evidente la sua complicità; egli scappò e non fu mai catturato[1]. 



[1] Su questa vicenda è stato costruito il romanzo “In su celu siat” di Anna Castellino, pubblicato nel 2005

 

2411

Era la casa Aitelli; è citata in un atto notarile dell’agosto 1795, ed era situata fra le case Perpignano (2413) e Cossu (2410); nell’atto notarile del 09.08.1796, relativo alla casa 2410, è scritto che detta casa confinava da un lato con casa del negoziante Francesco Saverio Aytelli, che prima possedeva Stefano Durante.

Il reverendo dottor Angelo Francesco Aitelli, presidente della parrocchiale di Santa Eulalia, presentò il suo donativo (senza data, probabilmente del 1799) e dichiarò di possedere una casa nella strada della Costa, ereditata da suo padre; era composta dal piano terreno con una bottega ed un’altra stanza, affittate per lire 100, il cortile e due piani alti, il primo con 2 camere, 2 camerini e la cucina, il secondo con due sole stanze, affittati per lire 112; veniva pagata una pensione annua di lire 100 alle sorelle Alesani per un censo di scudi 2000 al 5%, ed un’altra pensione di lire 30 per un censo di lire 500 al 6% che veniva pagata a donna Elisabetta Lostia.

Il reverendo Aitelli vendette la casa al negoziante Francesco Antonio Rossi il 14.12.1804 con atto del notaio Nicolò Martini; proveniva dall’eredità di suo padre, negoziante Francesco Saverio Aitelli, morto il giorno 03.11.1795; nella divisione ereditaria spettò interamente al figlio sacerdote, in quanto questi non aveva avuto nulla dalla porzione dell’eredità della madre (Maddalena Genoardo o Zenoardo), che era stata interamente “assorbita” dalle sorelle Giovanna, Maddalena, e dal fratello Paolo; l’asse ereditario di Francesco Saverio Aitelli era di lire 3957, soldi 6 e denari 8, ma le spese e i debiti erano molto superiori; il Reverendo Aitelli aveva anticipato al padre lire 10250, come fu riportato nel testemento; il 12.10.1804 fu stipulato l’atto di definizione della divisione ereditaria fra i fratelli Aitelli, e la casa fu venduta due giorni dopo; fu specificato nell’atto che il censo che si pagava alle sorelle Alesani risaliva al 1776, mentre il censo di proprietà di donna Isabella Lostia risaliva al 1761; la casa venne ceduta per lire 4500.2.6, con deduzione delle lire 2550 dei carichi esistenti.

Il 28 dicembre 1804 il negoziante Rossi pagò 800 scudi (lire 2000), più altri 6 scudi e spiccioli, ai nobili fratelli dottor don Raimondo e donna Francesca Gagliardi Alesani, eredi di Donna Caterina Alesani, per la totale estinzione del censo di cui si era onerato il 02.12.1776 Francesco Saverio Aitelli; più anticamente il censo era una proprietà del dottore e cavaliere Salvatore Durante, degli eredi del cavalier Bardirio Durante e del dottor don Emanuele Sanna Durante (proprietari della casa prima di Aitelli).

Il 5 gennaio 1805 Rossi pagò 209 scudi e 4 reali a donna Isabella Lostia, vedova del dottore e cavaliere Manuel Sanna Durante; si liberò quindi anche del secondo censo che gravava sulla casa Aitelli.

Con atto del notaio Gio Batta Azuni del 24.06.1806 i coniugi Francesco Antonio Rossi e Raffaela Piras crearono una ricca dote per la figlia Angela, che si sarebbe sposata di lì a poco col dr. Francesco Mossa Fancello; la dote comprendeva tutta la casa nella strada della Costa, comprata nel 1804 dal reverendo Aitelli, cioè la casa con numero catastale 2411; inoltre comprendeva due censi di scudi 2000 ciascuno, uno sui beni dell’eredità Capra, l’altro sui beni dell’avvocato don Salvatore Lostia, conte di Santa Sofia; comprendeva ancora un appartamento a disposizione, fra le loro proprietà, a scelta degli sposi; in alternativa avrebbero messo a disposizione un censo di 1000 scudi il cui frutto avrebbe permesso agli sposi di pagarsi un affitto secondo il loro piacere; ancora, scudi 1000 fra abiti e gioielli e oggetti vari; infine misero a disposizione della figlia e genero il piano superiore della loro casa di abitazione (casa 2932 fra Mores e Barcellona), per condividere con loro i pasti e la servitù, e una pensione annua di scudi 120, durante tutto il tempo che avrebbero gradito convivere con i genitori; in quest’ultimo caso però gli sposi avrebbero dovuto cedere ai genitori i frutti dotali sopra specificati.

Da un atto notarile del 18.07.1810, relativo alla confinante casa 2413, risulta che la casa 2412 appartenesse ancora a Francesco Antonio Rossi. 

A metà ‘800 la casa 2411 apparteneva all’orefice Vincenzo Peluffo (1800-1876), figlio del fu Pasquale.

 

2412 e 2413       

Da un atto del notaio Francesco Martis segnalatomi dallo studioso Vincenzo Spiga, sembra di poter identificare la casa 2413 con la proprietà che il frate Salvatore Serra dell’ordine di S.Agostino vendette il 06.07.1671 a Carlo Marramaldo, mercante napoletano domiciliato nella Marina; proveniva dal patrimonio dei suoi nonni materni Sisinnio Spada e Isabel Spada Castello, i quali l'avevano donata alla figlia Caterina Spada, madre del frate Serra, nel luglio 1628. Salvatore Serra ne divenne unico proprietario nel 1661, dopo la morte di suo padre Girolamo Serra. Si trattava di una casa con piano terra e piano superiore, sita nella strada della Costa di fronte all’ospedale di Sant’Antonio.

Contestualmente a questa vendita, le germane suore Elena e Angelica Spada (con tutta probabilità parenti strette del frate Serra, forse sue zie) cedettero allo stesso Carlo Marramaldo un cortile ed una stanza alle spalle della casa del Serra, mentre conservarono la proprietà di alcune stanze da loro abitate. Queste stanze e il cortile potrebbero essere identificate con l’unità 2412, sul retro della 2413, con accesso dalla discesa delle Cappuccine. E’ un’ipotesi che dovrà essere confermata da altri documenti, perché non è stato trovato fino ad ora un collegamento con i proprietari successivi.

A fine ‘700 le due unità 2412 e 2413 erano proprietà del negoziante Gaspare Perpignano, nato nel 1704 nel quartiere Castello da genitori palermitani, morto nel 1787; abitava nella strada della Costa già dal 1735, forse nella stessa casa; i suoi eredi erano i figli Emanuela suora della Purissima, il negoziante Angelo  e il canonico Francesco; inoltre il nipote Francesco Serra, figlio della già defunta figlia Angela.

In data 13.11.1789 venne firmato un accordo fra suor Emanuela Perpignano e il fratello Angelo, accordo che mise fine a una controversia sorta per la divisione dell’eredità paterna; Angelo, che era diventato il proprietario della casa 2413, si impegnò a versare alla sorella 3 scudi al mese per tutta la vita di Emanuela, di cui 2 per l’eredità, il terzo per rispettare gli accordi sottoscritti dal padre nel 1755 quando Emanuela diventò monaca, e fu ipotecata la casa della strada della Costa.

In data 02.11.1799 fu presentato il donativo di Angelo Perpignano; venne dichiarata la casa nella strada della Costa di fronte all’ospedale di Sant’Antonio; la casa era però “esecutata” e il notaio Francesco Marini era il “sequestratore per l’esazione dei fitti”; tutta la casa era sotto sequestro a eccezione di alcune stanze con il giardino, abitate dal sacerdote Francesco Perpignano; egli aveva diritto di abitazione per tutta la sua vita senza dover pagare alcunchè; la casa di Angelo era composta dal piano terreno e 3 piani alti; al piano terreno c’è la bottega e due stanze “oscure” e una piccola cucina; il primo piano era composto da una camera con l’alcova, 2 piccole stanze, una stanza grande e una piccola cucina; il secondo piano aveva la camera con l’alcova, 2 piccole stanze, il “passadisso” (corridoio), altre 2 piccole stanze e la cucina; il terzo piano aveva la camera con l’alcova e 2 piccole stanze, un’altra più grande, e una piccolissima cucina; tutta la casa era affittata per scudi 195; dai fitti si pagavano 72 scudi per il “parafreno”[1] di suor Emanuela Perpignano; scudi 15 si pagavano a Francesco Serra, figlio del fu medico Giovanni Battista Serra e della fu Angela Perpignano; si pagava anche una certa somma per un censo al dottor Agostino Meloni e i suoi fratelli, di Mamoiada.

Nel luglio dello stesso 1799 il reverendo Francesco Perpignano, beneficiato della chiesa primaziale Cagliaritana, consegnò al notaio Ignazio Marras il suo testamento; la consegna era avvenuta nella sua casa di abitazione, nella Marina e discesa volgarmente detta “dietro al Monastero delle Monache Cappuccine”; la casa del sacerdote, limitata ad alcune stanze ed al giardino, dovrebbe corrispondere all’unità 2412 e forse alla parte retrostante dell’unità 2413, con ingresso indipendente sul retro; in un documento dell’archivio Capitolare del 1804 si è trovata una dichiarazione del sacerdote Perpignano contenente i suoi redditi: lire 93,15 erano gli introiti come organista della cattedrale; inoltre possedeva la casa di abitazione nella strada de “is Cappuccinas”, con 2 stanze e la cucina, che si sarebbe potuta affittare per lire 50; possedeva anche alcune altre proprietà nel quartiere di Stampace. 

Nell’agosto 1799 erano alloggiati nella “casa Parpigniano nella Marina” tale Angelo Siga (Nizzardo ma ammogliato in città) e sua sorella, e il barone Righini piemontese; queste ultime informazioni provengono da un documento intitolato Stato dei forestieri esistenti in Sardegna” (disponibile in ASC, Segreteria di Stato serie II, volume 1283)

Nel dicembre 1804 si cita ancora la “casa Perpignano” nell’atto notarile con cui il reverendo Aitelli vendette la sua casa 2411, che confinava di lato e anche alle spalle con le unità catastali 2412 e 2413; ma, come si è già visto, la casa 2413 era stata sequestrata già dal 1799. 

L’unità 2412 rimase invece di proprietà del sacerdote Francesco: è citata in atto notarile del 03.04.1807, relativo alla casa Cossu 2410.

A seguito delle difficoltà economiche di Angelo Perpignano, la casa di famiglia, già sotto sequestro, divenne una proprietà dei Padri Missionari del Seminario di San Michele; questi ultimi, con atto notarile del 18.07.1810, affittarono la bottega della casa per 6 anni e 50 scudi annui al negoziante Pasquale Rocca; egli avrebbe versato soli 45 scudi ogni anno, riservandosene 5 per le normali riparazioni.

In un fascicolo di una causa civile del 1827, relativa alle proprietà dell’ospedale, è riportato il contratto di affitto del 16.07.1811 di una bottega nell’edificio dell’ospedale, che aveva di fronte la casa detta “di Perpignano” che apparteneva però a (alla chiesa di ) San Michele.

Il dato è confermato da atto notarile del 04.08.1811, col quale il reverendo Antonio Giuseppe Spanedda, procuratore e amministratore generale del Seminario eretto nel Convitto ex gesuitico di San Michele di Stampace, affittò al negoziante Pasquale Rocca per 6 anni e per 200 scudi annui, la casa che prima possedevano il fu Gaspare Perpignano e poi il fu suo figlio Angelo; il Rocca abitava già nella casa.

Angelo Perpignano, nato nel 1748 e coniugato nel 1783 con Anna Luisa Tola, figlia dell’avvocato Gaspare Tola, morì il 29.06.1808; suoi eredi erano i figli Gaspare ed Efisio; il primo, nato nel 1788, si trasferì nel quartiere di Villanova; Efisio, nato alcuni anni dopo, intraprese la carriera militare e si trasferì a Iglesias; non si conosce la data di morte della sorella di Angelo, la suora Emanuela, nata nel 1738, in vita ancora nel 1804, mentre, come già detto, il fratello reverendo Francesco Perpignano morì vecchissimo nel 1837: se ne ha notizia da un altro documento dell’archivio Capitolare, dove si legge che il 12 luglio 1836 il sacerdote aveva consegnato al notaio un altro testamento nella sua casa in vicinanza delle monache cappuccine (2412), e il 20.11.1837, alle ore 10 della sera, il testamento era stato aperto evidentemente dopo il suo decesso.

A metà ‘800 entrambe le unità 2412 e 2413, con casa e bottega, appartenevano in usufrutto a Ignazia Loddo (1783?-1872) vedova di Pasquale Rocca e vedova di Filippo Martini (-1840); la donna morì in una casa della strada della Costa, con tutta probabilità quella di cui si sta parlando, il 09.01.1872.

 



[1] Parafreno o Palafreno: derivato dal termine di diritto Paraferna (ciò che la moglie possiede, oltre alla dote); indicava i beni necessari alle monache per potersi mantenere dopo aver preso i voti.

 

2414

Nel 1797 apparteneva allo speziale Michele Tuveri: se ne ha notizia da un atto notarile del 22 novembre di quell’anno, relativo alla casa confinante 2415.

Il 12.08.1798 venne aperto e pubblicato il testamento dello speziale Michele Tuveri, morto verso le ore 7 di sera del giorno 11; lasciava la vedova Annica Fundoni e l’unica figlia Speranza Tuveri, coniugata con don Carlo Paglietti; ordinò che alla moglie venisse restituita la dote, secondo i capitoli matrimoniali del 15.01.1757, e anche quanto aveva avuto nel 1773 dopo la morte del padre Juan Antonio Fundoni; le destinò inoltre l’usufrutto delle botteghe site nelle vicinaze della porta di Villanova,” a mano isquerda bajando a la iglesia de Santa Rosalia” (case 2454 e 2455), l’usufrutto della casa della Costa o di Sant’Antonio abate (2414) e di un’altra casa che si trovava “a man derecha subiendo a la porta del Castillo” cioè la casa 2447 nell’attuale via Mazzini, e infine di due altre botteghe nella strada della Costa di fronte al palazzo del duca di San Pietro (case 2440 e 2441, di fronte al palazzo 2735); erede universale era la figlia Speranza; il testamento era stato scritto nel 1788 nella casa di abitazione posta presso la piazza di Villanova, come si discende verso la chiesa di Santa Caterina dei Genovesi (casa 2738).

Annica Fundoni risulta ancora in vita il 20.04.1799, poi non se ne hanno più notizie; i beni dei quali aveva l’usufrutto erano comunque bene amministrati dalla figlia Speranza, donna energica e sin troppo accorta; agiva in prima persona, senza delegare un procuratore, e senza l’assistenza del marito, che il più delle volte era “assente dal Regno” per gli incarichi che gli venivano affidati.

Con atto notarile del 08.05.1803 donna Speranza Paglietti nata Tuveri affittò la casa di sua proprietà della strada della Costa, confinante con la casa Perpignano (2413) e con la casa Dugoni (2415), al commerciante greco nativo di Corfù Pantaleone Gesarli e al suo socio Giorgio Broschi, pure di Corfù; l’affitto fu stabilito per 4 anni, per 120 scudi ogni anno, e comprendeva la bottega e i due piani superiori.

Con atto notarile del 21.12.1806 l’affitto fu rinnovato per 6 anni, sempre per 120 scudi annui, a partire dal 08.05.1807, al solo Giorgio Boschi di Corfù; fu specificato nel contratto che all’affittuario “non gli sarà lecito stabilirvi fabbrica di cappelli, o altra che apporti nocumento alla casa”.

Nel 1840 ebbe inizio una lite giudiziaria fra la vedova Speranza Tuveri e la nuora Isabella Nossardi, vedova di don Raffaele Paglietti (morto nel 1838); la vedova Nossardi voleva che la suocera contribuisse al mantenimento dei nipoti, gli “impuberi” Carlino, Speranza e Francesco Paglietti, di cui Isabella Nossardi era tutrice; il rapporto fra le due donne era molto difficile: la Nossardi era la seconda moglie del fu don Raffaele Paglietti, che si era risposato all'insaputa della madre, per cui i rapporti fra suocera e nuora erano pessimi “per mancanza di rispetto”. Inoltre la Nossardi era stata allontanata dai suoi genitori, risentiti per il matrimonio fatto di nascosto, nonostante fosse un matrimonio per lei non certo degradante; Isabella Nossardi affermò di essersi sempre comportata bene, nonostante il marito la maltrattasse (il marito sembra che avesse fatto scappare dalla casa la figlia, probabilmente Carolina, figlia della prima moglie, che si rifugiò a casa dello zio cavalier Musio); al fascicolo della causa è allegato un elenco degli immobili appartenenti alla vedova Speranza Paglietti Tuveri: vi sono due case nel Castello, 4 botteghe e 7 case con botteghe nella Marina, e fra queste la casa in Sant’Antonio con la sua bottega (casa 2414), 7 case in Villanova, una casa con ampi giardini in Villanova extramuros. 

A metà ‘800, dopo la morte nel 1847 di Speranza Tuveri, la casa con bottega 2414 apparteneva a Carolina, Carlo, e Francesco Paglietti; Carolina, nata nel 1818, era come già detto figlia della prima moglie di don Raffaele, Francesca Scarpinati, figlia del giudice don Antonio Scarpinati; Carlo e Francesco, nati nel 1828 e nel 1838, erano figli di Isabella (o Elisabetta) Nossardi, che era figlia dell’agiato commerciante Andrea Nossardi, originario della Liguria e proveniente da Gibilterra; Francesco Paglietti morì quattordicenne nel 1852; anche Speranza Paglietti, altra figlia di Isabella Nossardi, morì molto giovane nel 1841; nel Sommarione dei Fabbricati di metà ‘800, oltre ai nominati Carlo, Francesco e Carolina, degli altri figli di don Raffaele compare solo Gavino Paglietti, altro figlio di Francesca Scarpinati, proprietario di altri immobili.

 

2415     

In atto notarile del 11.02.1792, relativo alla casa Porcile 2416, l’unità 2415 viene indicata come la casa alta del dottor Agostino Lay Piu; da una causa civile rintracciata all’Archivio Comunale risulta che apparteva almeno dal 1735 a suo padre, il “platero” Juan Andres Lai.

Agostino Lay Piu morì il 17.01.1794 nella casa di sua proprietà nella strada della Costa; morto senza discendenti diretti, i suoi eredi erano la sorella Giuseppa Lay e il canonico Lorenzo Romagnino, figlio dell’altra sua sorella Isabella Lay coniugata con Giuseppe Romagnino senior. Il canonico Romagnino morì senza testamento il 25.02.1794, lasciando i suoi beni alle uniche nipoti, figlie del fratello Gaetano, Chiara e Giuseppa Romagnino, quest’ultima minore di 25 anni. La casa della strada della Costa fu quindi avvalorata dal Regio Misuratore Gerolamo Massei in scudi 1698, reali 8, denari 2, più le due botteghe di cui quella a est valutata scudi 299 reali 7 e denari 4, e l’altra a ovest, verso Porta Stampace, valutata scudi 112, reali 5 soldi 2, denari 9, per un totale di scudi 2111.1.2.3.

In data 16.01.1796 le sorelle Romagnino vendettero la loro parte di casa al negoziante Bernardo Dugoni (o Dugone), ma sorsero dei problemi sulla divisione dei piani con la vedova Giuseppa Lay, proprietaria dell’altra metà; Dugoni si offrì di acquistare anche la metà della vedova e l’atto di acquisto fu firmato il 23.09.1796; consegnò alla vedova 250 scudi e si assunse l’onere di pagare annualmente il 5% di 699 scudi, 4 reali, e 7 denari, somma residua da versare per l’acquisto della metà della casa, impegnandosi a estinguere il debito in 4 anni; ipotecò la casa, pagando ogni anno scudi 34, reali 9 e un denaro; inoltre si impegnò a pagare i frutti annui di altri 300 scudi per far celebrare alcune messe nella chiesa delle Cappuccine, secondo la volontà del fu dottor Lai Piu; i frutti di quest’ultima somma dovevano essere pagati al negoziante Pasquale Rocca, figlio di Giuseppa Lai (o Lay) e del fu Francesco Rocca, curatore dell’eredità di Agostino Lai Piu; Pasquale Rocca aveva in affitto una parte della casa (uno o due magazzini) e pagava 18 scudi annui di affitto, di cui 15 erano versati alle monache Cappuccine per le messe, gli altri 3 venivano consegnate alle sorelle Romagnino. Questo obbligo del Dugoni verso il Rocca era ancora in essere nel 1822, alla morte di Pasquale Rocca, il quale dichiarò nel suo testamento di dover ricevere 15 scudi da Bernardo Dugoni per il legato dello zio Agostino Lay Piu, per la celebrazione delle messe.

La casa si trovava nella strada della Costa, davanti alla spezieria dell’ospedale, confinante da un lato con la casa Tuveri (2414) e dall’altro con la casa di Giuseppe Rapallo (ex casa Porcile 2416).

Nella vendita fatta al Dugoni non erano state incluse le due botteghe, rimaste di proprietà della vedova Lai e delle sorelle Romagnino; queste ultime, in data 22.11.1797, cedettero la loro parte alla zia Giuseppa Lay.

Il 21.06.1799 il negoziante Bernardo Dugone presentò il suo donativo, nel quale dichiarò la sua casa di abitazione nella strada della Costa, composta da due piani alti di 12 stanze in tutto, da cui avrebbe potuto ricavare per l’affitto scudi 100 annui; sulla casa gravava un censo di scudi 700 la cui pensione al 5% veniva pagata alla vedova Giuseppa Lai Rocca, e un altro censo di scudi 300 che venivano pagati a Pasquale Rocca per far celebrare le messe in suffragio dell’anima del dottor Agostino Lai nella chiesa delle monache Cappuccine.

Nel donativo di Giuseppa Lai (-1809), privo di data, sono invece incluse le due botteghe, del valore di scudi 300 e 108 rispettivamente, da cui ricavava l’affitto di scudi 16 e scudi 12; la vedova inoltre dichiarò di ricevere da Bernardo Dugoni scudi 35 annui per il censo di scudi 700 sulla sua casa (il debito residuo era stato evidentemente arrotondato per comodità).

Nel 1808, nell’elenco dei maioli presenti in Cagliari, è compreso Vincenzo Zucca di Villacidro, che viveva nella casa di Bernardo Dugone nella strada della Costa.

Un atto notarile del 24.05.1808 aggiunge ulteriori notizie ma complica un po’ le cose: sembra infatti che una bottega della casa 2415 fosse rimasta di proprietà del Padre Mercedario Giuseppe Lay, presumibilmente altro figlio di Juan Andres Lay, quindi fratello del dottor Agostino Lay Piu e della vedova Giuseppa Lay; il frate Mercedario con atto notarile del 14.05.1745 aveva lasciato tutti i suoi beni al convento di Bonaria, tenendone l’usufrutto; inoltre, con atto del notaio Picci del 21.01.1785 la bottega era stata ceduta al negoziante Francesco Romagnino (lontano parente delle sorelle Chiara e Giuseppa Romagnino), ma questa vendita nel 1808 fu ritenuta nulla per delle motivazioni forse pretestuose: perché nell’atto di vendita non era stata fissata una data ultima del pagamento da parte del Romagnino (il quale evidentemente non aveva ancora saldato), e per non aver avuto l’assenso apostolico alla vendita, necessario in quanto la proprietà era del convento Mercedario; nel 1808 il padre Lay agiva per se stesso, in quanto usufruttuario, e agiva anche come procuratore del convento; cedette la bottega al negoziante Bernardo Dugone che avrebbe pagato 700 scudi entro 12 anni, nel frattempo garantendo il pagamento di una pensione annua di 42 scudi (al 6%), da consegnare al padre Lay o, nel caso di sua morte, al convento; Dugone si sarebbe anche fatto carico di eventuali richieste di rimborso da parte di Francesco Romagnino, per alcuni miglioramenti da lui apportati, e si sarebbe fatto carico delle spese per un'eventuale lite.

La bottega si trovava davanti alla spezieria dell’Ospedale (2365), aveva a levante un’altra bottega della vedova Lai (stessa casa 2415), a maestrale la casa della fu donna Marianna Nurra ora di don Giuseppe Rapallo (2416), alle spalle la casa del negoziante Dugone (cioè i piani alti della casa 2415). Niente di strano in tutto questo; stupisce però che negli atti notarili citati in precedenza non sia presente nessun riferimento al Mercedario Giuseppe Lay.

Bernardo Dugone, di famiglia originaria della Linguadoca, coniugato con Anna Schivo Abraham, morì nel 1821; i coniugi ebbero diversi figli, ma non si hanno precise notizie sulla divisione ereditaria e sui discendenti che possedettero la casa 2415 dopo la morte dei genitori. 

A metà ‘800 la casa 2415 apparteneva ancora agli eredi Dugoni, ma una parte, con tutta probabilità una o due botteghe, apparteneva a Rosa Carneglias, vedova di Antonio Rocca figlio di Pasquale.

 

2416     

In data 11.02.1792 il conte di Sant’Antioco don Giovanni Porcile vendette la sua casa (numero 2416) al negoziante Giuseppe Rapallo, per La somma di 2500 scudi; era composta da 2 piani alti e il piano terreno con la bottega, si trovava nella strada della Costa, davanti alla casa Allemand (2387), e confinava da un lato con una casa del Capitolo (2417), dall’altro con la casa del dottor Agostino Lay (2415), e di spalle con le Regie Muraglie, “mediante il cammino per cui si passa per andare al monastero delle monache Cappuccine”; il conte Porcile l’aveva comprata dal nobile don Antonio Francisco Cany y Nurra per 1100 scudi, con atto notarile del 20.02.1762.

Gli atti degli anni successivi relativi alla casa 2415, appena citati, confermano la proprietà del Rapallo nel 1796 e nel 1797; in un atto del dicembre 1798, relativo alla casa 2417, la casa 2416 è invece ancora attribuita a don Giovanni Porcile, nonostante fossero passati 6 anni dalla vendita: non è una inesattezza che deve stupire, rientra nelle abitudini del tempo.

Nel 1799 don Giuseppe Rapallo dichiarò nel suo donativo, oltre alla sua abitazione (2391), anche un’altra casa nella strada della Costa, corrispondente alla casa 2416, composta dalla bottega e 2 piani e mezzo con 10 stanze, affittata a lire 320.

Un atto del 1808, relativo alla confinante casa 2415, indica la casa 2416 come quella di don Giuseppe Rapallo, un tempo di donna Marianna Nurra; quest’ultima era probabilmente la madre di don Antonio Francesco Cany Nurra, proprietario fino al 1762.

Giuseppe Rapallo morì la mattina del 20.11.1811; non lasciò testamento, gli eredi erano i figli Giovanni (1806-), Beatrice (1808-), Vittorio Cesare (1810-), e la loro madre donna Anna Rapallo nata Porcile (-1848); in data 02.03.1812 fu completato l’inventario dei suoi beni, fra cui fu compresa anche la casa 2416 nella contrada della Costa, confinante con le case Dugone e del Capitolo.

Nell’atto del 18.08.1825 col quale gli eredi Fancello/Allemand cedettero la loro casa 2387, le case 2417 e 2416, sull’altro lato della strada, erano rispettivamente del Capitolo e degli eredi di don Giuseppe Rapallo; nel frattempo erano deceduti i figli Beatrice e Vittorio Cesare.

Gli stessi proprietari sono specificati nell’atto del 27.10.1825 con cui Francesco Antonio Rossi vendette la stessa casa 2387. 

A metà ‘800 la casa 2416 apparteneva in usufrutto a Ignazia Loddo (1783?-1872) vedova Martini, proprietaria anche delle case 2412 e 2413.

Ignazia Loddo era stata la quarta moglie del negoziante Pasquale Rocca la cui madre Giuseppa Lay possedeva le botteghe della casa 2415; la Loddo, rimasta vedova nel 1822, si sposò nel 1823 con Filippo Martini (-1840).

 

 

2417     

Era una proprietà del Capitolo Cagliaritano, ed era chiamata casa Scarpinati in quanto donata dal reverendo Cosma Scarpinati e da sua sorella Francesca intorno al 1752; vi sono diversi documenti che così la citano, confermandone la proprietà: un atto notarile del 1784 relativo alla casa 2386; un atto del 1792 relativo alla casa 2385 dove si specifica che anni prima apparteneva al canonico Cosma Scarpinati e poi al Capitolo; due atti del 1792 relativi rispettivamente alle case 2416 e 2391; un atto del 1797 e uno del 1799 relativi alla casa 2385; altro atto del 1799 relativo a quest’ultima casa dove è detta “casa del quondam canonico Cosma Scarpinati, e ora del Capitolo”; infine i due atti del 1825 relativi alla casa 2387.

Poi vi sono alcuni documenti che riguardano direttamente la casa 2417: in data 26.06.1790 il canonico don Diego Cadello, in rappresentanza del Capitolo, cedette in locazione al mastro Pasquale Careddauna piccola grotta sita in calle della Costa, chiamata Scarpinati, vicina alla Porta Stampace, davanti a casa del fu Carlo Marramaldo (2386), da un lato confina con casa del Capitolo (la stessa casa 2417 che comprendeva la grotta), dall’altro con casa del neg.te Joseph Rapallo (2391) mediante i gradini per i quali si sale per le madri cappuccine”.

In data 22.12.1798 il dottor canonico Filiberto Magliano, procuratore generale del Capitolo, concesse in locazione per 6 anni una casa nella strada della Costa al negoziante Giusepe Monleone, che già da molti anni la abitava; il Monleone aveva offerto 60 scudi annui e si era offerto di pagare le spese per le piccole riparazioni; la casa confinava “per davanti a casa del fu Carlo Marramaldo (2386), strada frammezzo, da un lato a casa di don Giovanni Porcile conte di Sant’Antioco (casa 2416, in realtà venduta dal 1792 a Giuseppe Rapallo), dall’altro a casa di don Giuseppe Rapallo (2391), per dietro con le reali muraglie (mediante il viottolo delle Cappuccine). 

Con atto del notaio giovanni Usai, del 14.04.1807, il canonico e decano don Pietro Maria Sisternes de Oblites, per conto del Capitolo della Primaziale, ricevette 2000 scudi dalle mani del notaio che rappresentava l’assente vedova donna Chiara Vivaldi Zatrillas contessa di S.Lorenzo; il Capitolo aveva infatti necessità di intervenire con lavori urgenti su 3 case di sua proprietà “minaccianti rovina”; non avendo capitali a disposizione ipotecò le 3 case, caricandoci il censo di 2000 scudi, per il quale avrebbe pagato alla contessa l’interesse annuo al 5% di 100 scudi. Le case si trovavano in Castello (strada di Santa Croce) e alla Marina (strada de is Tallolas e strada della Costa); la casa della strada della Costa, nei pressi di Porta Stampace, era chiamata casa Scarpinati confinante con le case Rapallo (2391 e 2416) e con le scalette pubbliche.

Il 09.08.1807 il Capitolo ottenne dal Demanio la concessione per “ampliare la facciata di una casa nella contrada della Costa, di faccia (in realtà di fianco) alla casa di don Giuseppe Rapallo (2391), laterale alla scala che scende dalla parte di dietro del monastero delle cappuccine”; il Capitolo chiese di “restringere la scala quasi nel suo fine, in vicinanza della porta di S.Giorgio, cioè di Stampace, cedendo in cambio una bottega”.

Pochi giorni dopo, il 15.08.1807, il Capitolo presentò il suo donativo, e dichiarò di possedere nella strada della Costa la casa Scarpinati, che aveva di fronte la casa di Giuseppe Chessa (2386), da entrambi i lati e di spalle le case di don Giuseppe Rapallo (2391 e 2416); non venne specificata la dimensione della casa e le sue stanze “causa riedificazione”.

A metà ‘800, dal Sommarione dei Fabbricati, risulta appartenere ancora al Capitolo.